Enrico Falqui con la moglie, la scrittrice Gianna Manzini

 

 

Un disgraziato episodio della vita di Campana

 

di Enrico Falqui

 

La Fiera Letteraria, domenica 27 marzo 1960

 

 

Disgraziatamente la follia cominciò presto a battere alla porta del poeta Dino Campana. Il primo referto medico di cui si abbia notizia dopo quanto iI babbo ebbe a dichiarare fin dal 1900 al professor Brugia del Manicomio di Imola — reca la firma del professor Vitali, risale al 1906 e diagnostica: «una forma psichica a base di esaltazione, per cui si rende necessario il riposo intellettuale, l'isolamento affettivo e morale, e l'uso di preparati bromici».

Nulla di tutto ciò fu mai potuto realizzare, se non, a tratti, l'uso di medicine. E cominciò da allora la via crucis di quegli che, di lì a pochi anni, sarebbe diventato l'autore dei Canti orfici. Parrebbe anzi che uomini e fatti abbiano congiurato contro di lui per rendere più spasimante la sua esistenza. Né occorrerà starli a rievocare, tanto sono vivi e tanto preponderante è già lo spazio che occupano nel condizionare, attraverso la conoscenza della vita, la valutazione dell’opera.

Quale vita, più di quella di Campana, potenzia e regola, se così si può dire, l' opera poetica dalla prima all’ultima parola? II susseguirsi degli eventi non è che un incalzarsi di accidenti: dagli studi ai viaggi, che sempre presero aspetto di fuga, dagli incontri agli amori, che fatalmente divamparono in passione. Difficile immaginare una più rovente e più disperata fonte di poesia.

Ma, a ripensarli nel loro incessante succedersi, par di vederli disporsi in una concatenazione dannata il cui esito non avrebbe potuto essere differente da quello, funestissimo, ormai registrato in tutte le storie letterarie quasi come un sigillo di autenticazione lirica.

Ricoverato, ancora una volta, il 28 febbraio 1918, dopo crisi e deliri memorabili, nel manicomio di Castel Pulci, presso Badia a Settimo, non ne uscì più, finché a liberarlo non intervenne la morte.

E fu alle undici e tre quarti del primo marzo 1932, dopo quattordici anni di miserissima degenza, «per setticemia acutissima o infezione microbica diretta e virulenta del sangue che — secondo la testimonianza del medico Pariani (Vite non romanzate ecc., 94) — serpeggiava nei dintorni».

Dintorni stan per: paraggi? Il fratello Manlio ha più tardi precisato — in una intervista televisiva (cfr. S. Zavoli: Campana, Oriani, Panzini, Serra - Cappelli. Bologna, 1959) — che dovette trattarsi di «una forma di febbre perniciosa, probabilmente in seguito ad un'infezione procurata scavalcando un ferro spinato. So per certo che ebbe la sensazione di soffocamento e che si lamentava: — Aiutatemi, aiutatemi, sto morendo! — L'infermiere accorse, chiamò. Quando venne il medico, purtroppo, non c'era più rimedio».

E sarebbe stato augurabile che così avesse avuto termine, dopo una malattia di dodici ore e un'agonia di sei, ininterrotta la tribolazione terrena di Campana. Ma è a conoscenza di tutti che, contrariamente al solito, essa invece continuò. Sistemata dapprima nel cimiterino di San Colombano, appartenente alla stessa parrocchia di Badia a Settimo, la salma fu nel marzo del '42 traslata nella chiesa di Badia, ai piedi del campanile, dove, nel maggio del '44, subì lo sconvolgimento di un'incursione aerea e solo due anni più tardi riuscì a trovare nuova sistemazione lì stesso, sotto il pavimento della ricostruita navata.

 

***

 

E ad una creatura così infelice era toccata in vita la più disgraziata delle disavventure: quella di perdere, non per sua colpa, l'unica copia manoscritta alla quale, sa il cielo con quanta pena e fatica, nonché con questa speranza, aveva consegnato il testo dei suoi Canti orfici già pronto per la stampa. Si cerchi, per un attimo, di immaginare quale tremendo colpo dovette causare la repentina notizia nella sua già malferma mente. Né la gravità dell'episodio può essere sottovalutata.

Al riguardo è Soffici stesso, nei suoi Ricordi di vita artistica e letteraria, a raccontare che, nell’inverno del 1913, lui e Papini, una mattina, mentre andavano alla tipografia Vallecchi dove si stampava Lacerba, furono accostati da uno strano tipo. « Ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, avere il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista...

Tirò fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compre e vendite, e lo consegnò a Papini». II "libretto" piacque ad ambedue; «senonchè Campana, dopo quel primo colloquio, non s'era più fatto vedere, non aveva dato più segno di vita né con imbasciate né con lettere; era insomma sparito del tutto».

Soltanto alcuni mesi dopo si fece ritrovare nelle sale dell'Esposizione futurista, dove esponeva anche Soffici, e da allora prese a frequentare l'ambiente delle Giubbe rosse e del Paszkowski; ma — prosegue iI Soffici —, «cosa strana, durante tutto il tempo, non fece mai più parola né con Papini né con me del taccuino affidatoci, né del suo desiderio di vedersi stampato nella nostra rivista. A un tratto sparì di bel nuovo e nessuno seppe più nulla di lui».

«Verso la primavera del quattordici, ricevetti da Marradi una sua lettera con Ia quale mi richiedeva il manoscritto, di cui mi diceva non aver altra copia, e che intendeva pubblicare in volume. Ma io dovetti allora scusarmi di non poterglielo mandare: in un trasloco che nel frattempo avevo fatto da una stanza ad un'altra dei miei libri e delle altre mie carte, il libriccino era andato confuso nel gran sottosopra, e domandavo tempo per rintracciarlo. Tentai infatti di farlo: ma inutilmente: pensavo del resto che Ia cosa non fosse di grandissima urgenza, tanto più che Campana, dopo quella prima richiesta, non aveva fatto alcun'altra pressione, e anzi non dava nemmeno più alcuna notizia di sé».

«Passarono così vari mesi» finchè un giorno, nell'estate del 1914, guardando nella vetrina di un libraio fiorentino, scoprì i Canti orfici. Entrò, acquistò il libro, lo lesse, gli piacque più che mai e scrisse, «senza por tempo in mezzo, una bella lettera a Campana, dove gli esprimevo il mio sentimento e la mia gratitudine, e gliela mandai a Marradi».

Pubblicato il suo libro. Dino Campana riapparve improvviso com' era sparito. Recava trionfante in tasca ed andava mostrando a quanti incontrava la lettera che gli avevo scritto...». Così il Soffici.

Ma per il povero Campana la faccenda (cfr. Gerola, 41-46) dovette andare assai diversamente, costretto come si trovò a riscrivere a memoria l'intero libro. Un vero supplizio; a giudicare da alcuni sfoghi con Cecchi e con Novaro e da una cartolina in francese a Giovanni Boine, in data 18 gennaio 1916, trasmessaci dalla cortesia dello stesso M. Novaro. Tuttavia la riproduciamo qui appresso unicamente a testimonianza tristissima dello stato di estremo squilibrio mentale in cui a tratti il Campana precipitava anche contro persona da lui stimata, quale, per esempio, il Soffici.

Si consideri, infatti, che alla lettera del Soffici cui fa sdegnosamente cenno, il Campana aveva subito risposto ringraziando con forte effusione di gratitudine, com'è documentato dal testo pubblicatone dal Soffici e da noi riprodotto affinché la documentazione sia quanto possibile, esauriente intorno a tanto doloroso incidente.

 

***

 

Monsieur mon ami, il y a 3 ans ceux de mon village réussirent à s'accorder avec les professeurs de l'Université qui me firent placer sous l'étroite surveillance des flics qui de suite me frappèrent à coup de crosse de revolver et me laissèrent pour mort dans une rue de Bologne et m'empéchèrent de terminer ma quatrième année de chimie. Je partis alors sur la montagne parmi des paysans ameutés qui m'ensultaient et j’ecrivis en quelques mois ce que j'appellais après canti orfici. L'hiver venu je presenta mon manuscritto à papini à florence qui m'accueillit très bien mais le jour après, étant assurement vendu aux flics qui ne perdaient pas un de mes pas, (Giolitti imperante) se fit donner mon manoscritto qui passa en suite dans les mains de Soffici et je n'ai l'ai plus revu. Ainsi ces chacals m'avaient volé ce qui devrait être ma defense et la justification de ma vie pendant que, empeché de quitter l'Italie, j'allais succomber à la camorre partout organisé où je fuyais (par les flics). Je retourna à la campagne et j'écrivis de memoire mes canti orfici et je reussis à le faire publier par un brute de mon village. Soffici l'infâme m'écrivis une lettre qui vantait mon oeuvre mais ne voulus me rendre mon manoscritto, et ce sera certainement un titre bon pour lui, puisque je créverais bien demain (je suis mentainant un peu paralisé). Or je lui ai écrit: sale negre je viendrais à florence avec un baton pour vous casser la tête. Ecrivez moi si votre lâcheté vous permet de me donner un rendez-vous pour ça. Merde macaroni — Mais bien qu’il ne me repondra pas je suis decidé avant de quitter le macaroni de casser les reins à ces chacals. Cela pour que vous sachiez. Et vous dites qu’il ni a rien à faire maintenant! J’ai lu vos choses elles me plaisent. Envoyez moi quelqu'un des vos livres. Il faudrait chercher en France un appuis contre les nègres d'ici qui paraissent monopoliser le génie latin qui est et sera demain la chose plus sacré qui existe sur la terre. Comme vous voyez je vous conjure de faire appel à vos amis français, et dites à mon nom tout se que vous voudrez. Puisque au moins demain la France existera encore c'est elle qui éritera de nous. Mediterranea ars. Ton Dino Campana qui t'aime / Marradi (Firenze)».

 

Fuori dubbio, ad esasperare il suo animo avrà contribuito la malattia dalla quale era afflitto e ad essa saranno da attribuire certi eccessi. Ma non perciò risulta meno autentica e meno lacrimevole la drammaticità della loro violenza. A provarlo, basterebbe da solo il brano della lettera indirizzatagli da Emilio Cecchi e fatta conoscere dal Matacotta (nella Fiera letteraria del 31 luglio 1949, insieme con estratti di altri corrispondenti: Chiesa, Serra, Boine, Cardarelli, ecc.): « ...E poi la giustizia si farà da sé. Intanto tutta la storia spiacevole del suo manoscritto non ha impedito al libro d'uscire e a lei d'esser riconosciuto e ogni giorno più apprezzato pel suo libro. (Omissis). Se un piccolo numero d'amici, che sono spontanei e fedeli, e di lettori intelligenti e inquieti si forma intorno a lei, mi pare ch'ella deve sentire impulso a un dovere di tranquillità e di lavoro; e abbandonare i suoi giusti rancori, per creare e niente altro che creare...»

E che ce l'avesse contro i Fiorentini e che non ne facesse mistero è anche attestato da un passo della lettera inviatagli da Renato Serra, allora militare a San Vito del Tagliamento, in risposta ad una richiesta d'aiuto per trovar lavoro: «Conosco solo un poco i fiorentini; e malgrado quello che Lei ne dice, La potrei consigliare di provare ancora da quella parte. Non sono mai andato molto d'accordo con loro nemmeno io: ma una certa generosità e fraternità disinteressata l’ho sempre sentita in loro, più che negli altri.»  (Matacotta: Fiera letteraria 31 luglio 1949). A questo punto, nella parte del suo saggio dedicata alla biografia del Campana, il Gerola annota che lo smarrimento del manoscritto dei Canti orfici affidato a Soffici e a Papini fu per Campana  «un'altra delusione gravissima, una negligenza e trascuratezza se non peggio, che provocarono in lui una ferita che non rimarginerà più completamente. Si dice anzi che, a un certo momento, si aggirasse per Firenze con un coltello in tasca, deciso a vendicarsi». Altro che «si dice»: lo conferma Papini stesso nel ricordo dedicato a II poeta pazzo (e ora raccolto in Passato remoto: L'arco, Firenze, 1948).

Ma ecco come: «Una volta mi scrisse da Marradi per richiedere certi suoi manoscritti ch'egli diceva di avermi dato. Gli risposi il vero, cioè che non avevo nulla di suo e che si ricordasse meglio a chi l'aveva dati. Mi riscrisse, allora, una lettera furibonda, nella quale mi annunciava che sarebbe disceso a Firenze "con un acuminato coltello" per riavere, con le buone o con le cattive, quei suoi preziosi scritti. lo replicai che venisse pure e che l'aspettavo tranquillo perché a me non li aveva consegnati ed io non potevo restituirgli quel che non avevo.

Ma poi non ne fece di nulla...» Povero Campana. «Nonostante tutto, non si scoraggia — prosegue il Gerola, dopo qualche amaro commento, cui sarebbe da aggiungere che esiste qualche divario tra le due versioni del fatto fornite dal Soffici e dal Papini (a parte lo spazientimento dichiarato da quest'ultimo contro «l'infatuazione» sopraggiunta negli ultimi anni per i Canti orfici) —, non si scoraggia e si mette a ricollezionare dalla memoria tutto  il libro, perchè la copia riesca più ordinata e facilmente leggibile, si fa scrivere il testo da impiegati del municipio di Marradi... Arrivava la mattina nell'ufficio del segretario comunale, entrava e, senza salutar nessuno, andava presso la dattilografa e le ingiungeva imperiosamente: «Scrivi». Tutti lasciavan fare. Egli dettava lentamente, con straordinaria concentrazione, correggendo e rifacendo frequentemente. A volte, non riuscendo come voleva, s'arrabbiava, strappava il foglio dalla macchina, ne faceva una pallina e lo buttava nel cestino». Povero Campana, quanto dovette costargli. Ed è clemenza del cielo che ne sia stato rimeritato.

D'altronde è pur vero che, tornato dopo una trentina d'anni su quei primi ricordi (apparsi sulla Gazzetta del popolo del 16 e 30 ottobre 1930), il Soffici ha potuto completarli (nel Corriere d'informazione del 14-15 e del 28-29 luglio 1958) con una serie di documenti epistolari, tra i quali primeggia la lettera di Campana in risposta e in ringraziamento ricevuta.

 

«Caro Soffici, con grande piacere rileggo la sua lettera, il primo e più gradito incoraggiamento. Una lettera come la sua, in circostanze come le mie, è delle cose, anzi la cosa più bella e più grata, e tale resterà sempre per me. Io non sono affatto adirato, anzi di lei e Papini ho conservato e conservo un ricordo simpatico e profondo. Ben volentieri mi sarei mantenuto in relazione con loro se avessi avuto un pretesto. Ora giacché lei me lo richiede io preparo qualche cosa che le invierò e lei vedrà in caso dove pubblicarlo. Egregio Soffici sono veramente contento che il mio libro abbia svegliato la simpatia in un'anima moderna come la sua.

Questo mi basta assolutamente e mi incoraggia davanti a me stesso per aver saputo conservare la mia personalità spirituale attraverso le miserie e tutte le brutalità. In questo senso accetto e le sono grato dei suoi apprezzamenti che stimo moltissimo. Secondo tutte le probabilità verrò presto a Firenze, per un po’ di tempo, al solito. Tanti e tanti auguri per la nuova Voce, che, ne son certo, apre un nuovo periodo in Italia.

Ringraziandola di nuovo vivamente della sua solidarietà morale, pregandola di salutare Papini

suo Dino Campana».

 

Dov'e chiaro che lo sdegno era già caduto e tornava a riavere il sopravvento la fiducia nell'aiuto di Papini e Soffici. Ad avvalorarla aggiunse la pubblicazione in Lacerba del 15 novembre 1914 di tre componimenti dei Canti orfici: Sogno di prigione; L'incontro di Regolo; Piazza Sarzano.

Ma il colpo era stato subito: e le conseguenze della disgrazia furono da lì innanzi accertabili nelle oscillazioni alle quali non riuscì più a sottrarsi il testo dei singoli componimenti dei Canti orfici.

Né l'asserirlo implica, da parte nostra, alcuna smania romanzesca. Vuol piuttosto recare un ulteriore contributo di chiarezza alla prossima quinta edizione della raccolta degli scritti di Dino Campana, a cura nostra e coi tipi dell'editore Vallecchi.

ENRICO FALQUI