Luisa Giaconi, otto poesie, una prosa

 

di Caterina Del Vivo

 

ARCHIVIO CONTEMPORANEO

 

Estratto dalla rivista: « Antologia Vieusseux » fascicolo LXX

Aprile - Giugno 1983

Gabinetto Scientifico Letterario

G. P. VIEUSSEUX FIRENZE

 

ARCHIVIO CONTEMPORANEO:

Ricerche

 

Ringrazio l'amica Caterina del Vivo per avermi permesso di pubblicare questo articolo. (p. p.)

 

 

Fra i versi che Luisa Giaconiinviava al «Marzocco», confidando in un giudizio benevolo e in una eventuale pubblicazione che da un lato la familiarità e il probabile incoraggiamento di Enrico Nencioni2 e Giuseppe Saverio Gargàno suggerivano, e d'altra parte il timore di un certo dilettantismo e dell'approssimatività della propria formazione poetica sembravano quanto meno limitare nell'ambito di un'amichevole condiscendenza, fra questi componimenti poetici sono rimaste finora sconosciute agli studiosi otto liriche e una breve prosa, conservate nell'Archivio della rivista fiorentina3.

Sono pagine non pubblicate sul periodico né della postuma raccolta Tebaide4 , curata dal Gargàno nel 1909 - e ripresentata con numerose aggiunte nel 1912 - oltre che per una effettiva stima della poetessa, quasi per mantenere un antico impegno ed una irrealizzata aspirazione di lei.

Crediamo di non essere troppo lontani dal vero indicando i motivi principe di queste esclusioni nei mutamenti di impostazione e nelle reali difficoltà del periodico a partire dall'estate 1897; nella maggiore severità della direzione Corradini, e quindi Adolfo Orvieto, nei confronti di un certo tipo  di liriche che non fossero quelle di poeti ormai gratificati da una completa approvazione del pubblico5; ed infine, ma non ultimo, in una certa mancanza di finitezza delle composizioni che potrebbe aver determinato a riguardo un riserbo della stessa Giaconi (e quindi l'esclusione nelle raccolte ad opera del Gargàno), essendo quello di un incompiuto "labor limae" pensiero assillante della poetessa:

Io mi sono messa all'opera della lima e trovo che non è poi tanto noioso come credevo. Speriamo che la sua pedanteria ne sarà soddisfatta6.

Vorrei che Ella mi rendesse tutti quelli abominevoli versi perché io ne faccia giustizia con la lima o col rogo secondo il loro merito

Ecco le rimando i versi a cui ho fatto quelle mende che mi ha consigliato Gargàno, ma la fretta mi ha impedito di limare come avrei voluto8.

[....]  sono pronta a rilimare qualora fosse necessario e spero anzi voglio che me lo dica senza paura di essere pedante9.

L'insoddisfazione e la continua ricerca della compiutezza del verso è resa spesso più ardua dalla predilezione, testimoniata ampiamente nella Tebaide, di ritmi classici e carducciani10, cui certamente non era estraneo il legame artistico e il sentirsi discepola di Enrico Nencioni, e si accompagna ad intime incertezze linguistiche e lessicali: nella scelta aggettivale ad esempio, dove sussistono il timore di un abuso ed una resistenza mentale nei confronti dell'attributo:

Mi dica pure - scrive ancora ad Angiolo Orvieto - se vi sono troppi aggettivi; gli aggettivi sono il mio incubo da un pezzo in qua; non sogno che quelli; e mi verrebbe voglia di bruciare ogni cosa pur di distruggere questi bacilli del verso! Ne ho fatto un abuso straziante11.

Brevi frasi, sempre da lettere all'Orvieto, definiscono il porsi giaconiano di fronte alla poesia: afferma infatti di essere come gli uccellini, che cantano senza preoccuparsi di come cantano, ma anche di temere "una imitazione troppo azzardata del linguaggio puerile"12.

Dove, nel timore di un uso improprio, e sia pure in una circostanza contingente, dimostra di aver accolto, quanto meno a livello di coscienza poetica, se non di coerente e continuata applicazione artistica, uno dei principi propri della nuova poesia, quello del poeta - puer, che prima ancora delle definitive enunciazioni pascoliane13, e risalendo alle teorie di Walter Pater, si faceva strada negli ambienti, fiorentini e non, di quella schiera autodefinitasi di nuova nobiltà spirituale; principio che spesso conviveva mentalmente accanto al preziosismo lessicale, alla pennellata dorata, non immuni - e sembra avvertirlo la stessa Giaconi - dallo sfocamento semantico imputabile all'uso ricorrente dei medesimi.

Il mondo della Tebaide, e dei nostri versi, è mondo di decadente sensibilità esasperata dall'avvertire la presenza quotidiana del mistero, dal parallelo e continuo intreccio sogno-vita, realtà-morte, che già è stato avvicinato ad un certo Pascoli conviviale14 (semmai, crediamo, valido soprattutto per le liriche della IV° sezione della Tebaide).

In queste otto composizioni, per il continuo fluire di significante e significato di cui spesso si fondono i termini, ci sembra piuttosto di verificare quanto è stato detto per Enrico Nencioni: l'identificazione del simbolo con la cosa rappresentata, o meglio «la cosa quale simbolo di se stessa» come sarà poi nel D'Annunzio del Poema Paradisiaco15.

Svariati i 'topoi' decadenti di cui si è appropriata la Giaconi: si pensi (e rimandiamo unicamente ai versi qui presentati) all'insistente richiamo di temi sepolcrali (A te che nella chiusa ombra romita), al ricorrente motivo del giardino abbandonato (Una voce nel tempo; A te che nella chiusa ombra romita), all'ispirazione claustrale (Le rose della morte).

Dove, acquisita la lezione del Nencioni - si vedano di quest'ultimo soprattutto il Giardino della morte o il Giardino abbandonato - e forse con memoria anche al dannunziano Hortus conclusus, i claustri sono assunti già per loro natura a remoto "giardino di morte", posto in indefinita dimensione; la figura virginale è morta e morte a un tempo; le rose appassite d'aspetto carnicino, come già in tanta letteratura, si fondono e confondono con le mani a cui si intrecciano: ma le stesse mani sono disegnate già con sensibilità, e vorrei dire con fraseggio, dannunziani. Soprattutto la lettura del Poema Paradisiaco e delle Elegie Romane non doveva essere estranea alla Giaconi.

Interessanti risultati darebbe un esame di tutta l'opera della poetessa - ma qui non è luogo - sia in tale prospettiva sia alla luce dell'assimilazione di esperienze pascoliane, perché molto del cursus del poeta delle Mirycae e dei Poemetti passa nella struttura metrica e sintattica della Giaconi, intrecciandosi al dovuto tributo pagato al carduccianesimo: e sarebbe indispensabile, ai fini di una curata analisi delle singole composizioni, una esatta collocazione cronologica di tutti i versi confluiti nella Tebaide del 1912.

Nella visione simbolica della natura giaconiana il paesaggio sembra farsi tramite di idee e sentimenti che dal piano individuale del poeta vogliano approdare all'universo misterico; in particolare può essere tracciata una sommaria distinzione fra versi colloquiali con un potenziale interlocutore, dotato della stessa sensibilità dell'autrice, interlocutore vivente o, spesso, sentito più vicino proprio perché già parte della realtà di un mondo inconoscibile, e liriche in cui non si intravede possibilità alcuna di comunione di sensi con l'elemento umano.

Se nel primo caso la ricerca è quella di un conforto o di un appoggio alla lettura della "foresta di simboli", una conferma della medesima, nel secondo ci si rivolge agli elementi della natura come possibili interlocutori diretti e intermediari dell'oggetto dell'ispirazione poetica: ma la nota paesistica - e ciò distingue la Giaconi da molta poesia minore coeva - è sempre suggerita e mai insistita, fugace, presa ad uso proprio e quindi subito riassorbita, in una immediata trasposizione interiore, dal tema dominante, la bipolarità vita - sogno ed il desiderio epifanico che ne consegue.

Non sappiamo se nella formazione della Giaconi trovasse posto lo studio in lingua dei grandi della stagione simbolista e parnassiana d'oltralpe: certamente ne recepì la lezione almeno per via indiretta: scelte di musicalità e di vocabolario non lasciano adito a dubbi16.

Diretta invece fu probabilmente la lettura di Shelley e dei preraffaelliti inglesi17: lo stesso Gargàno conferma tale lettura essere avvenuta dopo che la Giaconi aveva imparato quella lingua da una signora anglosassone18.

Si tratta comunque di poesia calata ormai pienamente nell'esperienza decadente italiana, area spesso sfuggente e di difficile analisi tanto più perché sovrastata ben presto dalle dimensioni pascoliana e dannunziana, destinate a compendiare con le loro presenze, ed a definire spesso anche nominalmente una realtà poetica e culturale diffusa, pre e co-esistente.

Una realtà che per alcuni esponenti trova espressione più plateale nel cenacolo poetico ed estetico, inteso, pur nei suoi intenti antiaccademici, a sua volta quale "accademia" spirituale, in cui lo scrivere versi costituiva momento di affinità elettiva e una sorte di necessario tributo iniziatico19; per altri invece - è il caso della Giaconi - si risolve in una ricerca più schiva, interiorizzata, di intima comunione di sensibilità, di studio tematico e di cesello metrico e stilistico che fa sì che venga superato il valore di period-pièce.

Nel cenacolo di vita e di arte, meglio di arti, ed in particolare in quello della cerchia marzocchina, era diffuso un misticismo estetizzante di derivazione shopenhaueriana, polarizzato intorno al principio dello stretto legame, e della contaminazione, fra pittura, poesia e musica, principio riproposto già dal Nencioni20, e ripreso da tutta la "nuova" critica coeva: e si pensa qui principalmente a Angelo Conti ed al suo legame definito "misterioso" fra le forme artistiche, già presente nel Giorgione21 in attesa della codificazione della Beata Riva, resa attuabile in quella forma solo a fianco e per mezzo della lezione poetica dannunziana22.

Nemmeno la Giaconi, e non solo nella sua vita di pittrice-poeta, rimarrà estranea a tali principi, pur nelle sue per lo più scabre e sfumate attenzioni paesistiche; i suoi contatti saranno a livello di atmosfera lirica, più evidenti nelle pièces lunari della raccolta.

Ma soprattutto la contaminazione poesia - pittura paesistica si evidenzia nell'unico esempio di prosa di lei che possediamo, quella traccia di "poème en prose", per altro inferiore al livello dei versi giaconiani, che è Il Biancospino23:

 

Prendi dunque la mia mano. Ed ancora per quei sentieri che non sai trovare, fra i susurri (non tu anche del mare ami le voci eterne?) e il sol che inora i boschi melanconici, verrai meco o fratello. Io ti farò sentire come è dolce di quei boschi l'aulire vago; e la pace che non cangia mai come è dolce... Verrai meco a l'eterno oblio dei cimiteri ermi, sì greve, io ti dirò come quel sonno è lieve se l'irrora di pianto un cuor fraterno...

Verrai, ne l'ineffabile mistero de' vesperi, (e tu pure ami quell'ora pallida?) e ti dirò come s'irrora di tremule rugiade ogni sentiero...

Verrai sul mare ove un pallor si effonde arcanamente, come una tristezza umana... Io ti dirò quanta dolcezza che pianto arcano nel mio cuor s'asconde.

E tu allora potrai dirmi in quel sogno qualche cosa di sacro, una parola ineffabile e mesta, per me sola che poi perdasi lieve al par di un sogno24.

Luisa G.

Febbraio 1895

 


 

Le rose della Morte

(nei claustri)

Io vidi, nei profondi claustri, sola,

Una giovine morta; scesi i densi

Veli su lei del Silenzio; scesi immensi

Fiumi, intorno, d'oblìo senza parola.

E un Sogno immenso, un brivido, un

Pensiero Sovrumano su lei, l'ombra distesa

Nell'ombra, (morta?) come nell'attesa

D'altre cose, albeggianti nel Mistero.

Io vidi, oh! vidi come cuori umani

Gli esili ceri struggersi in ardenti

Lagrime, e su le pallide moventi

Fiamme passar dei soffi oltrechéumani.

Io vidi - oh arcane e sconsolate cose! -

Sul petto inerte, e in quelle mani come

Tenui fiori marmorei senza nome

Vidi mucchi di moribonde rose25

Io chiesi: è morta? Squàrciati o Mistero Ineffabile! È il Sogno ora la Vita?.

Non ode ella nel sonno l'infinita

Parola? ... Io piansi: Squàrciati o Mistero!

Oh grandi e sconsolate cose! Io

Vedeva quelle stanche rose, lente

Morire; come cuori, umanamente

Morire... E piansi in quel supremo Oblìo.

 

L. Maggio 1896


 

Ad un Salcio

 

O tu salcio che ne le fresche aurore

Stilli il notturno pianto

De le rugiade, pendulo sul cuore

De la terra materna, e a l'acque a canto;

Ô tu salcio a cui nei vesperi soli

Quando inargenta i cieli

Il plenilunio, vengon li usignoli

Cantando sovra i tuoi penduli steli,

Perché mai piangi? Perché mai l'arcana

Anima de le frondi

Non sogna mai l'immensità lontana,

Non s'erge ai cieli taciti e profondi?

Qual rimpianto ti piega o quale sogno

Sovra il materno cuore,

O salcio, tu che non hai mai bisogno

Di primavere, che non getti il fiore?

Oh! lascia che il mio cuore triste, pianga!

Lascia i tedii supremi

Al cuore triste; e ch'ei solo rimpianga

L'ombre fuggenti de le umane spemi.

Tu, non piangere. Un giorno, (oh mio sospiro

Di pace!) un giorno, al fine

Anch'io, lasciando l'aure di zaffiro,

Verrò, ne l'ombre de l'Oblio divine.

Io vorrò allora riposarmi; e allora

Potrai forse i poemi

Lievi del Sonno susurrarmi, e l'ora

Stanca cullar di aneliti supremi.

 

Gennaio 1897

 


 

Rosei fiori...

 

Rosei fiori già smorti adesso già tenui, come ale

A cui vibrato strale la morte con sibilo apporti,

Rosei fiori cui brevi aurore ingemmaron di pianto,

E che nel vago incanto auliste come anime, lievi,

Quali rugiade o quali gentili tepori di sole

Che ancor bagnan le aiuole in cui vi schiudeste, come ali,

Vi renderanno il dolce sorriso fiorente al bel cielo

E avviveran lo stelo cadente che più non soffolce?

Rosee labbra già smorte, come alvi di estinte corolle

Cui non ravvivi il molle effluvio d'aurore risorte.

Rosee labbra ridenti negli anni lontani al celeste       

Lume de' sogni, e meste (oh tedii de l'anima lenti!)

E mute scoloriste, serbando parole supreme

In una vana speme di baci, in un fremito triste

Di pianto, ah, qual ritorno di cose lontane, smarrite

Potrà rendervi il mite divino sorriso di un giorno?26

 

13 febbraio 1897

 


 

Vento d'Autunno

 

Quale, il tuo soffio suscita ai montani27

Silenzi, immenso fremito sonoro!

Per cui levano i boschi antichi un coro

Lungo di voci e d'organi lontani.

E scendi tu più lieve ai mesti piani

Ove apre i solchi l'ultimo lavoro,

E la vite dei suoi pampini d'oro

Dispogli lento, con sospiri arcani.

Né ora il fido verdeggiar de li orti

T'accoglie; sol del lauro severo

La eterna chioma a te piegando, freme.

Lenti e pensosi curvano il leggero

Stelo gli ultimi fiori a cui tu porti

L'onda di voci pallide e supreme.

 

sf.; s.d.


 

Sorrisi

 

Nel sogno Egli tornava a me; nel sogno

Vedevo ancor quelli umidi occhi come

Fiamme di desideri senza nome

Splendere; Ei sol d'amore avea bisogno,

D'amore... Oh! Lungo fu l'oblio e triste;

Lunghi gli anni ch'Ei tacque a me lontano,

Come sogno a cui tese erano in vano

La palme; oh lungo fu l'oblìo e triste.

Nel sogno (poi ché la Vita è sì priva

Di luce), Egli veniva ancora. In torno

Come un risveglio, per quel suo ritorno

Lieto, una primavera nuova auliva.

Io sentiva fluire musicali

Parole da le mie labbra - fiorirmi

Desiderii ne l'anima; fiorirmi In torno dei sorrisi spiritali.

Ma fu dunque nel sogno? Una suprema

Gioia venìa da le sue labbra vive

A le mie labbra, così a lungo prive

Di baci... Il cuore triste ancora ne trema28.

 

sf.; s d.

 


 

Canto di Giovinezza

 

"O dell'arida vita unico fiore!'

Tu doni meste e fuggitive l'ore

Al Tempo eterno o Giovinezza, quali

Lacrime lente eguali

Pioventi da una fonte erma che muore;

Mute (ed il cuore ne susulta a pena)

Volgon pei campi de l'oblio silenti

A li oceàni lenti

De l'Infinito, come tenue vena.

Già la caligin vela li orizzonti

 


 

Degli anni morti; già ne l'aure spente

 

Piangono fiocamente

Canti di sogni e mormorii di fonti,

Aridi sogni aride fonti! Miti

Odori di defunte primavere

Palpiti di leggere

Ali, pallòr di anemoni sfioriti...

Passi, tu ô lieve giovinezza; e in torno al cuor profondo l'anima dei fiori

Palpita nei tepori

Lievi d'un'alba che si muta in giorno;

Luci di stelle tremolan di vaghi

Cieli ne l'ombra dolcemente, quali

Fluide perle immortali

Nate da l'onda d'infiniti laghi.

Passi tu ô lieve giovinezza. E lunge

Nei deserti del Sogno e della Vita

Tremulo splende, e invita

Un mistero l'incerta anima, e punge,

Tremano echi d'armonie lontane

Che la terra sospira; e il cuore ascolta

Trepido d'insepolta

Speme, il susurro de le cose vane.

 

sf.; sd

 


 

Una voce nel tempo

 

"Ancora ti sogna la mia anima dolente ancora? ... non volli obliare e non obliai?

Non vidi in altri occhi più dolci e profondi de' tuoi la muta e divina promessa dell'amore? e in vano... Tu fuggi; ma per quali mari ma per quali terre remote, non so. Mai le tue labbra toccarono le mie; io non udii mai parole d'amore da te; il mio sogno fu dei più taciti e soli.

Ma oh no, per Iddio, non negare che mi amasti un giorno e che una dolcezza di sogni vegliò nel tuo cuore nel tuo muto cuore o fratello per me. Non negare.

Ancora ti sogna la mia anima dolente ancora? ... non volli obliare e non obliai?

L' Autunno ritorna. Le bianche rose dei giardini si sfogliano, e i crisantemi fioriscono, in vece, il vento fa piangere i salci e piega i cipressi de gli ermi viali; le foglie d'oro galleggiano ne le vasche morte. E tu parti! ... Chi ti dirà mai la triste dolcezza la triste forza del mio amore? Le lacrime del cielo e dei fiori ti parranno mai quelle ch'io piansi o fratello?

Ancora ti chiama ancora ti cerca la mia anima dolente, ancora? ... non volli obliare e non obliai?"

Così Ella. E venne Una un giorno che alfine le impose silenzio. Ella ebbe dei gigli tra i fragili arti Ella ebbe sul capo un diadema» di pallide rose, e a tutti sembrò ch'Ella alfine tacesse per sempre.

 

sf.;


 

Note

1) Luisa Giaconi nacque a Firenze nel 1872; figlia di un insegnante di matematica, per seguire il padre visse in giovinezza in varie città italiane; alla morte di lui si ristabilì a Firenze. Qui conseguì il Diploma dell'Accademia di Belle Arti, che le servì anche per guadagnarsi da vivere dipingendo copie su commissione; lavorò fra l'altro agli Uffizi, alle scuole fiamminga e veneta: è testimoniato che dipingesse una copia della Flora di Tiziano (Cfr. lett. a Angiolo Orvieto, s.d., «Caro amico debbo avvertirla...», A.C.G.V., Fondo Orvieto, Carteggi, G. 7).

Un piccolo auto-ritratto ad acquerello, inviato ad Angiolo Orvieto, è conservato nello stesso Fondo Orvieto. Dal carteggio si ha inoltre notizia che un altro suo dipinto fu vinto da Amalia Orvieto, madre di Angiolo, in una fiera di beneficenza, nel 1897.

Morì a Fiesole il 18 luglio 1908. Ben poco si sa degli ultimi anni di vita: la corrispondenza con Angiolo Orvieto porta infatti le date estreme 4 gennaio 1895 - 31 gennaio 1900 (anche se poesie della Giaconi furono pubblicate sul «Marzocco» in anni più tardi).

La prefazione di G. S. GARGÀNO lascia intendere che la malattia che la portò alla morte già la minasse da diversi anni (G. S. Gargàno, Prefazione a Tebaide, 2°, Bologna, Zanichelli, 1912, p. VI).

 

2) L'amicizia con Enrico Nencioni è testimoniata anche in due lettere a Angiolo Orvieto, Firenze 8 maggio 1895 e s.d. (ma probabilmente primavera - estate 1895) A. C. G. V., ibid. Non si conoscono le vie attraverso le quali nacque l'amicizia: forse tramite lo zio di lei Tommaso Guarducci; va comunque notato che i due poeti abitavano in quegli anni entrambi in via delle Caldaie.

 

3) Tutti i testi qui proposti si trovano conservati presso l'A. C. G. V. Fondo Orvieto, G. 7. I manoscritti risultano autografi.

 

4) Oltre le composizioni qui presentate sono conservati nel Fondo Orvieto i manoscritti di Armonia, Senz'ombra d'Amore Chopin e Silenzio autografi della Giaconi, pubblicate le prime due già nel «Marzocco», Armonia riproposta in Tebaide, 1° ed, Bologna, Zanichelli, 1909, ed infine tutte e quattro in Tebaide, 2° ed, cit.

Va osservato che nel testo edito di Silenzio mancano completamente i vv. 9-12 del ms.: "Taci pure. Talvolta (vuoi?) qualcosa / Come un arcano anelito di sensi / Supremi, come il sospirar d'immensi / Canti, ti terrà l'anima pensosa..."

E inoltre citiamo le varianti: v. 13 del ms.: Così. Talora tendersi da lunge; vv. 15-16 del ms.: Invocazione; (e sembri a noi che frema / Qualche misteriosa arpa, da lunge.): v. 17: Oh! Taci pure; v. 18: Sogni, la Vita; vv. 19-20: e l'anima mia culla/ Lento, in folgorio tremulo d'ali. Inoltre vi si trova la trascrizione di altra mano (Gargàno?) di Dianora (datata 1904) e Dalla mia notte lontana, la seconda presente in Tebaide, I° ed., cit., ed entrambe in Tebaide, 2° ed., cit.

 

5 ) Cfr. lett. a Angiolo Orvieto, s.d. (ma: agosto 1897) in cui si fa cenno a nuove disposizioni del giornale che le lasciano intendere «di non osare di mandar più qualcosa» (A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).

Il discorso è ripreso nella lettera a Enrico Corradini del 20 gennaio 1898 (ibid.) a Angiolo Orvieto, 5 aprile 1895 [d.t.p.file:////Users/admin2019/Library/Group%20Containers/UBF8T346G9.Office/TemporaryItems/msohtmlclip/clip_image026.jpg" alt="" width="3" height="6" />

 

22 ) A. CONTI, La Beata Riva, Milano, Treves, 1900.

 

23) La prosa, di complessive cc. 6 manoscritte autografe, è datata maggio 1896. Il Biancospino è l'unica prosa della Giaconi attualmente nota. La Giaconi fu forse spinta a scrivere non in versi da un motivo contingente, perché talvolta, come nota Gargàno, si lamentava che qualcuno scambiasse i suoi versi per prosa armoniosa (Prefazione di G. S. Gargàno a Tebaide, 2°, ed. cit., p. IX). La descrizione lunare rientra pienamente nella tradizione dell'epoca, e non solo letteraria: si pensi ai dipinti di ispirazione lunare di De Maria ("Marius Pictor") anch'egli fra i corrispondenti del Marzocco.

 

24) Cfr. G. D'ANNUNZIO, Poema Paradisiaco, Consolazione, ed in particolare i vv. 5-8 e 29-32 per i vv. 16-20 e 5-8 della Giaconi.

 

25) Oltre alle immagini topiche che rimandano immediatamente al Nencioni, sulla visione delle mani in particolare cfr. L. GIACONI, Le morte mani, Tebaide, 2 ° , cit., p. 69, e il celeberrimo Le mani in G. D'Annunzio, Poema paradisiaco.

 

26 ) Per la fortuna dello schema metrico con rima interna qui seguito dalla Giaconi si rimanda in primo luogo ad alcune fra le Elegie Romane dannunziane (Villa d'Este ecc.).

 

27 ) In interlinea è indicata la variante, fra parentesi: sveglia pei montani.

 

28) Cfr. G. D'ANNUNZIO, Poema Paradisiaco, Aprile, in particolare per i v.v. 38-40.

 

29) Nel ms.: diadeda, si tratta evidentemente di un refuso.

 


 

 

Nota bibliografica

 

Oltre alle già citate edizioni della 16:57:04, Bologna, Zanichelli, 1909 e, con numerose aggiunte, Bologna, Zanichelli, 1912, rispettivamente con un Epilogo e una Prefazione di G. S. Gargàno, ricordiamo che furono complessivamente pubblicate sul «Marzocco» 21 liriche (per le quali rimandiamo agli Indici del Marzocco, a cura di Clementina Rotondi, Firenze, Olschki, 1980) dal 19 aprile 1896 al 21 febbraio 1909.

Di tutte le composizioni proposte dalla rivista degli Orvieto non furono ristampate nelle due edizioni della Tebaide soltanto: I fantasmi («Il Marzocco», 19.9.1897), Il giardino chiuso (ibid., 18.7.1897), Oltre la vita (ibid. 29.9.1901) Orto antico (ibid. 5.9.1897) Le visioni del mare; La prora (ibid. 24.1.1897).

Due liriche della Giaconi, Philomela e Nel bosco furono inserite nell'antologia Dai nostri poeti viventi, a cura di Eugenia Levi, Firenze, Le Monnier 1896, composizioni assenti entrambe dalla Tebaide.

La Giaconi fu molto lieta che dette poesie fossero state scelte dalla Sig.ra Levi per la sua raccolta (cfr. lettera di L. GIACONI a Angiolo Orvieto, 15 novembre 1895, A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).

È interessante ricordare che Luisa Giaconi sperò inoltre a lungo nella pubblicazione di una sua raccolta di versi ad opera del Paggi, con il quale sembra fosse già in parola; ma in seguito alle vicende fallimentari dell'editore dell'estate 1897 tutto fu annullato in modo alquanto brusco, cosa di cui la poetessa si rammaricò molto (cfr. lettere a Angiolo Orvieto del 14 luglio 1897; 31 luglio 1897; 5 agosto 1897; A. C. G. V., Fondo Orvieto, cit.).

Tale raccolta in effetti non vide mai la luce; si può supporre che la prima edizione della Tebaide comprenda alcune delle liriche scelte dalla poetessa per il Paggi.

La collaborazione a «Cordelia» sembra essersi limitata a Fides, già citata, uscita nel n° 19, I marzo 1896, p. 226.

Sporadici gli interventi nel corso del secolo sulla poesia giaconiana: si ricordano unitamente alle antologie che hanno accolto composizioni della medesima:

 

ANGIOLO ORVIETO,  Un poeta del silenzio: Luisa Giaconi, in «Il Marzocco», Firenze, 26 luglio 1908.

GS. GARGÀNO Le poesie di Luisa Giaconi, in «Il Marzocco», Firenze, 22 novembre 1908. A. SORANI, La poesia di Luisa Giaconi, ibid.

GS. [GARGÀNO], Marginalia, in «Il Marzocco» 20 agosto 1916 (parlando di Guido Gozzano si fa riferimento alla poetessa, ricordando che lo stesso Gozzano ne scriveva a Gargàno ponendola a modello di onestà artistica).

E. CECCHI,  in «La Tribuna», 19 marzo 1912.

G. MAZZONI, L'Ottocento, in Storia Letteraria d'Italia, Milano, Vallardi, 1913. Antologia della lirica italiana, a cura di A. Ottolini, Milano, Taddeo, 1923.

A. GALLETTI -A. ALTEROCCA La Letteratura italiana, Bologna, Cappelli, 1924.

G. CUCHEITI,  La Poetessa Luisa Giaconi, Venezia, Libreria Emiliana editrice, 1928.

G. SPAGNOLEITI, in «La ruota», febbraio 1943.

G. SPAGNOLETTI, Antologia di poesia italiana contemporanea, 1° vol., Firenze, Vallecchi, 1946.

G. ANNESI PALIERI, Una Poetessa dimenticata, in «Paese Sera», 9 maggio 1953.

Poeti minori dell'Ottocento, a cura di E. Janni; Milano, B.U.R., 1958.

 

Inoltre, per la nota vicenda legata alla poesia Dianora e a Dino Campana, rimandiamo principalmente a E. FALQUI, Inediti di Dino Campana, Firenze, Vallecchi, 1942, pp. 321-24, e E. FALQUI, Cronistoria dei Canti Orfici, Firenze, Vallecchi, 1960.

Riassumendo brevemente, la lirica, che pure faceva parte della Tebaide, 2° ed., fu trascritta con alcune varianti dal Campana e inviata a Mario Novaro, perché la pubblicasse sulla «Riviera Ligure» rendendo omaggio alla sfortunata poetessa.

Questi la stampò nel numero della rivista del maggio 1916 (E. FALQUI, Cronistoria...., cit. pp. 104-109). Si cfr. in particolare la lettera s.d. (ma anteriore al maggio 1916) di Dino Campana a Mario Novaro (ora anche in E FALQUI, Novecento letterario italiano, vol. V, p. 132, Firenze Vallecchi 1973).

La copia manoscritta della lirica, rimasta fra le carte di Dino Campana, fu successivamente ritenuta da Bino Binazzi opera dello stesso poeta.