Gino Gerola e Giorgio Luti al Vieusseux
Giorgio Luti: Dino Campana
Il professor Giorgio Luti è scomparso domenica 9 Novembre 2008.
Pensiamo di ricordarne la memoria pubblicando il suo importante saggio su Dino Campana
Prima pubblicazione su “10 Poeti italiani contemporanei”
Istituto Gramsci\Sezione Toscana
Cooperativa Editrice Universitaria, Firenze, 1980
In una pagina de La Verna — in quello che possiamo considerare il secondo momento della suite dei Canti orfici e forse il momento più sereno dell'arte di Dino Campana — si legge un frammento dedicato alla salita del Falterona:
Dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri e a udire il sussurrare dell'acqua sotto le nude rocce, fresca ancora delle profondità della terra. Cosi conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza e il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell'arte fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il figliuol prodigo all'ombra degli alberi della casa paterna.
Appunto la partenza e il ritorno sono i cardini della poetica campaniana, i termini di confronto di questo figliol prodigo che la casa paterna agogna e rifiuta in ogni momento della sua disperata e disperante odissea. Se il vento della montagna allenta e frena il morso del dolore, ecco che il poeta si volge e tra le rocce crepuscolari scopre il demone che da sempre lo insidia: ecco « una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro ». Così a insidiare il bianco abbandono di Stia o l'azzurro pacificante della montagna ecco Campigno che ora diviene il paese barbarico, fuggente, il paese notturno, mistico incubo del caos:
Il tuo abitante porge la notte dell'antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l'elemento grottesco profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in corsa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.
La partenza e il ritorno sono dunque i termini dell'incessante dialettica dell'arte di Campana, una dialettica destinata a produrre quella poesia « in movimento » che il poeta di Marradi consegnava alla memoria di un altro grande pellegrinaggio, quello dantesco: « O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate! », Poesia in movimento, poesia in fuga è stata definita da Montale la poesia dei Canti Orfici, e non saprei trovare una formula in grado di sostituire quella definizione tanto calzante. Ma in questa fuga, in questo movimento convulso, è riposta una febbre compositiva che non ha uguali nella moderna poesia italiana; qui è serbata — dirò di più — una carica rinnovatrice destinata ad incidere durevolmente sulle sorti della nostra poesia.
Per me, quella che ad altri è apparsa come una generosa ma disordinata furia, resiste invece alla prova del tempo come un'architettura esatta, come una coraggiosa immersione nel gorgo dell'angoscia contemporanea. Campana, in altre parole, con il totale abbandono alla sua febbre creativa seppe rinnovare dall'interno un linguaggio poetico i cui elementi costitutivi aveva accettalo dalla tradizione poetica del secolo che si lasciava alle spalle. Carducci e D'Annunzio soprattutto — l'amato odiato D'Annunzio — elementi pascoliani, e ancora la grande tradizione del simbolismo francese da Baudelaire a Rimbaud, la persuasione etico-estetica respirata alle fonti wagneriane e nicciane e, se pur controvoglia, recuperata nel coacervo dannunziano, e infine la discesa agli inferi, nel mistero della psiche, sulle orme di Poe e dei miti vitalistici whitmaniani.
Con questo non voglio dire che Campana si sia sottratto al richiamo delle avanguardie del suo tempo; le prove non mancano nel corso assai breve della sua esperienza poetica. Surrealismo ed espressionismo giocarono la loro parte nel condurre Campana agli approdi più originali degli Orfici, e il futurismo di Marinetti e dei lacerbiani non mancò di segnare con la forza della dissacrazione polemica la sintassi già per sé convulsa di alcune composizioni degli ultimi anni, prima che il silenzio scendesse a chiudere il poeta nel cerchio della follia. Ma quel che mi preme affermare, in contrasto con gran parte della critica, è che il disperato singhiozzo o, se volete, il balenante frantumarsi della voce e dell'immagine delle ultime composizioni, non fu che un portare alle estreme conseguenze una conquista già ottenuta nel tessuto linguistico e sintattico della tradizione ottocentesca. Per cui la voce di Campana, per essere nuova e autentica, primitiva nel senso pieno del termine, non ebbe bisogno di far tabula rasa, di rompere con il passato, di risillabare ungarettianamente le parole ingenue, ma al contrario accettò una sfida non soltanto letteraria, senza mezzi termini, implicante un rapporto totale tra arte e vita, quella stessa sfida che D'Annunzio aveva accettato finendone sommerso e distrutto, lui divenuto il cantore alla moda dei grandi miti borghesi.
La modernità di Campana non è quindi un prodotto di nuove scelte lessicali e sintattiche, o almeno non è soltanto questo. La sua scoperta e di tipo diverso, resta a monte di una operazione meramente grammaticale. Che su di essa s'innesti negli anni dal 1914 al 1917 il fascino della « parola in libertà » del futurismo e quello della scomposizione surrealista e cubista, conta fino ad un certo punto. L'operazione di Campana ha profonde radici nel tessuto genetico dell'immagine, nel gorgo oscuro della parola ricondotta ad una funzione comunicativa istantanea e primordiale, per cui il vocabolario simbolista trova una vitalità nuova, aderisce all'origine segreta degli impulsi nascosti, all'inconscio dell'uomo moderno nel vortice della società moderna. II simbolo, la visione, l'immagine assumono così connotati imprevisti: al simbolo come evasione e trasfigurazione si sostituisce progressivamente la dannazione nel simbolo, la condanna alla furiosa dialettica tra sogno e realtà, tra partenza e ritorno, tra rivolta e inconscio richiamo alla casa paterna, estremi fantasmi di una anabasi senza approdo. In questo senso l'analisi freudiana sfiora con la sua incidenza europea la provincia di Marradi, condiziona la figura dell'esule volontario, del viaggiatore inquieto che cerca una patria impossibile.
Mario Praz, in una sua celebre analisi delle fonti europee della cultura dannunziana affermava alcuni anni or sono (1963) che G. D'Annunzio nonostante il ricorso ai timbri e ai moduli delle più avanzate esperienze dell'arte europea, apparteneva irrimediabilmente al secolo passato. Posto nella condizione di dover scegliere una funzione storica per l'arte dannunziana, il critico non aveva dubbi in proposito: D'Annunzio anziché aprire il Novecento chiudeva irremissibilmente l'Ottocento: non primo dei moderni, ma ultimo degli antichi, erede di una tradizione classica giunta al necessario tramonto. D'Annunzio, nutrito alle fonti della più viva cultura europea, risultava l'ultimo dei classici italiani, poiché quella cultura aveva respirato senza interpretarla nelle sue ragioni autentiche, riducendola in ultima analisi alla misura del suo classicismo.
Ebbene, il richiamo alle pagine di Praz non sembrerà del tutto fuori luogo se aggiungiamo che, per le stesse motivazioni, Campana si configura come il primo dei poeti moderni in Italia all'inizio del secolo, se affermiamo che come D'Annunzio chiuse le porte dell'Ottocento, così Campana aprì in Italia le porte del secolo nuovo; lui prima di ogni altro, prima dei futuristi, di Palazzeschi, di Ungaretti e della cosiddetta poesia pura, di Saba e di Montale, prima del nuovo vocabolario della poesia ermetica.
Certo sarebbe inutile negare che dietro le spalle del poeta di Marradi stiano, almeno per quello che direttamente ci riguarda, due santi protettori: il Carducci sollecitato dall'esperienza simbolista e proprio quel D'Annunzio europeo di cui abbiamo parlato. Sta di fatto, tuttavia, che, pur nutrito a quelle fonti, Campana operò il gran salto verso la modernità con forze proprie, con una originale utilizzazione di quei motivi europei che avevano vivificato il classicismo dei maestri Carducci e D'Annunzio.
Restando fedeli all'esempio dannunziano, non sarà difficile stabilire i punti di contatto e il momento del salto qualitativo, l'attimo in cui la frattura fra le due esperienze si è fatta incolmabile. E, si badi bene, non sì tratta qui di fissare graduatorie di merito, si tratta al contrario di stabilire la diversa incidenza delle due esperienze nel quadro etico-estetico del secolo che sta nascendo. Immagini e stilemi dannunziani, quelli almeno che appartengono all'ambito della cultura decadente, passano non episodicamente nella pagina di Campana: il mito del viaggio come iniziazione, come ritorno allo stato d'origine pertiene agli Orfici come pertiene a Maia, e il mito metamorfico di Orfeo giunge a Campana sicuramente dalla lettura delle Laudi — da Maia e da Alcyone — salva restando la comune matrice della linea orfica europea da Nerval a Rimbaud. L'idea superuomistica del poeta veggente penetra dal canovaccio nicciano nell'estetismo dannunziano per giungere alla poesia di Campana. E ancora, il topos decadente dello sfingeo volto leonardesco, dell'inafferrabile ermafrodito che tanto rilievo assume nel tessuto ideologico degli Orfici risale, è evidente, al clima preraffaellita che esercitò durevole influenza sul divino Gabriele e su altri adepti antichi e recenti che, senza dubbio, suggestionarono la fantasia di Campana, da Péladan a Schuré, a Baudelaire, a Merezkovskj, senza contare la particolare interpretazione che nell'Italia degli ultimi anni del secolo e dei primi del Novecento venne dandone un pensatore ch'ebbe grande importanza nel configurarsi della poetica dannunziana, quell'Angelo Conti autore di libri come la Beata riva (1900) e Sul fiume del tempo (1907) che col loro esasperato estetismo contribuirono a codificare in Italia l'estetica nicciana del superuomo.
Che su Campana il binomio D'Annunzi-Conti abbia agito in profondo sembra ormai stabilito dagli studi recenti ed anzi è stato provato con sufficiente impiego di dati che il collegamento Nietzsche-Campana si determinò grazie a quel duplice e persistente intervento. E origine non lontana crediamo abbia la leonardesca immagine della Chimera assunta anche nei Canti Orfici a simbolo della poesia:
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente e giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina, o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose.
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se tu un dolce vapore.
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cicli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Ulissismo e orfismo, leonardismo e francescanesimo (il particolare francescanesimo di stampo dannunziano degli Orfici) sono dunque motivi passati nell'opera di Campana attraverso una tradizione simbolista già operante nel vasto orizzonte europeo come nel più angusto spazio dell'estetismo italiano di fine secolo. D'altra parte anche la vocazione coloristica e pittorica di cui Campana si gloriò come di una personale scoperta e di una immissione originale nel tessuto della poesia italiana, possiede una genesi facilmente reperibile. I violetti e i rossi delle sue notti erotiche, i contrasti violenti e risolutivi tra i pallidi velari lunari e le ombre peccaminose dei vicoli cittadini possono, ad esempio, essere fatti risalire alle ossessive modulazioni baudelairiane come alle esercitazioni sottili del calligrafismo coloristico dannunziano delle pagine romane, dall'Isotteo e dalla Chimera ai fondali dipinti di un testo emblematico come Il Piacere. Così infine l'eros campaniano — l'esasperazione sessuale degli Orfici — non ha origini lontane: la ferinità delle sue prostitute, i rapporti antitetici tra gli occhi porcini della suadenti matrone e le membra ambrate e i denti di perla delle odalische destinate al sacrificio, risalgono in partenza ai modelli canonizzati dal decadentismo d'oltralpe:
Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo. Mi accompagnò per le strade male odoranti dove le femmine cantavano nella caldura. Ai confini della campagna ima porta incisa di colpi, guardata da una giovine femmina in veste rosa, pallida e grassa, la attrasse: entrai. Una antica e opulente matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata dall'occhio liquido come da una gemma nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili che rinascevano colla speranza traendo essa da un mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri. Salutai e una voce conventuale, profonda e melodrammatica mi rispose insieme ad un grazioso sorriso aggrinzilo. Distinsi nell'ombra l'ancella che dormiva colla bocca semiaperta, rantolante di un sonno pesante, seminudo il bel corpo agile e ambrato. Sedetti piano.
Nondimeno i modelli restano tali: la modernità di Campana sta negli esiti nuovi a cui sono condotti i modelli usurati della tematica impressionista, quei modelli ormai giunti ai limiti del kitsch, del gusto liberty più estenuato. L'abbandono di Campana al fascino distruttivo della Chimera, al binomio colore-musica, al mostro dell'eros, non è più di carattere simbolico-espressivo. L'impeto che sorregge la qualità evocativa dell'immagine si nutre dì una sostanza umanamente e stilisticamente nuova, per cui la ragione estetica è lasciata alle spalle ed arte e vita coincidono senza più schermi protettivi, accettando in pieno i pericoli che ne derivano. La Chimera non è più il fantasma prometeico che può essere invocato e imbrigliato a piacimento, ma al contrario è il mostro al quale il poeta sacrifica se stesso sull'altare dell'esperienza umana per il recupero di una verginità primitiva. Proprio nel modo nuovo di concepire il simbolo e l'immagine che lo realizza come totalità espressiva sta la modernità di Campana, il suo dare forza e persuasione, impeto distruttivo e risolutore ai miti consunti della tradizione « maledetta ». Il suo arrendersi alla Chimera non ha, almeno in Italia, possibili riferimenti. La sua sconfitta, il suo scendere nelle tenebre senza remissione aprono così il Novecento italiano a nuovi risultati d'arte.
Certo, stabilita così la modernità di Campana, esiste il pericolo di trasformare la sua esperienza poetica in una sorta di « monumento », in un fatto d'arte architettonicamente concluso; in altre parole il pericola di trasformare il poeta di Marradi in un classico della modernità. E questo sarebbe, senza dubbio, un grave errore di prospettiva. Già nel 1937 Gianfranco Contini era intervenuto decisamente a spazzare il campo dagli equivoci, negando la presenza monolitica dell'arte di Campana nell'orizzonte europeo. Per Contini, Campana non fu e non poteva essere il « Rimbaud italiano » anche se egli era forse « il solo che fosse riuscito con scarsissima retorica (di contro, per esempio, alla sapienza della tradizione pascoliana) a comunicare sensazioni primigenie e notturne ». In effetti l'irrazionale non giunge mai nell'opera di Campana a costituirsi in sistema, in strumento di organizzazione poetica. Tecnicamente l'operazione di Campana raggiunge il suo culmine nell'ambito della singola immagine, nell'improvvisa illuminazione affidata al cerchio dei ritorni e delle riprese, al timbro della modulazione ciclica, come sintesi ambigua senza soluzione di continuità (basterà un esempio soltanto, il celebre « sul panorama scheletrico del mondo » che costituisce il modulo connettivo più evidente della suite della Notte:
Ricordi di zingare, ricordi d'amori lontani, ricordi di suoni e di luci: stanchezze d'amore, stanchezze improvvise sul letto di una taverna lontana, altra culla avventurosa di incertezza e di rimpianto: così quello che ancora era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva sul panorama scheletrico del mondo.
Intorno alla figura e alla personalità di Dino Campana molto si è discusso, ma scarsi sono i dati attendibili di cui disponiamo, se si escludono le personali testimonianze affidate, nei lunghi anni trascorsi dal poeta nell'ospedale psichiatrico di Castel Pulci, al medico-amico Pariani, e i ricordi serbati da Ardengo Soffici dell'incontro avvenuto a Firenze tra il 1913 e il 1914 col gruppo dei redattori di « Lacerba ».
Nato a Marradi, nell'appennino tosco-romagnolo, il 20 agosto 1885, Campana compie gli studi nel paese di nascita, poi a Faenza e infine in Piemonte. Sappiamo che l'ambiente familiare non gli offrì quella protezione e quel rifugio che la sua morbosa sensibilità richiedeva. Pur non di meno potrà dire al Pariani: « Da bambino ebbi un'infanzia felice ».
Nel 1903 è già iscritto al primo anno di chimica nell'università di Bologna; l'anno seguente si trasferisce all'Istituto di Studi Superiori di Firenze. Sulla scelta casuale della facoltà scientifica abbiamo anche una diretta testimonianza: « Io studiavo chimica per errore e non ci capivo nulla. Non la capivo affatto. La presi per errore, per consiglio di un mio parente. Io dovevo studiare lettere... La chimica non la capivo assolutamente, quindi mi abbandonai al nulla ». Intanto si vengono determinando gli aspetti più caratteristici della sua personalità: lo squilibrio psichico (« In quel periodo », dirà al Pariani, « mi prese una forte nevrastenia: non potevo stare in nessun luogo ») e la tendenza infrenabile al vagabondaggio come prima e più evidente conseguenza della nevrosi. Nel 1906 è ricoverato per qualche mese nel manicomio di Imola; l'anno successivo abbandona gli studi e da inizio a lunghi continui viaggi, quei viaggi che giustificheranno il formarsi del mito del poeta nomade. Le tappe del suo vagabondaggio, autentiche o soltanto immaginate dalla sua inesauribile fantasia, sono molteplici: la Francia, il Belgio, la Svizzera, la Russia (Odessa I, e l'America del Sud soprattutto: Buenos Aires, Bahia Bianca, Montevideo, Mendoza. E ancora le partenze e i ritorni: il grande porto di Genova meta allucinante dei suoi imbarchi segreti; Bologna, la città degli studi e delle avventure notturne; Firenze, con Parigi, la città degli incontri letterati, delle amarezze, delle polemiche, degli sdegni frenetici. Sulla vita del nomade pochi elementi consegnati alla memoria che rievoca a Castel Pulci un passato affascinante e perduto:
« Facevo qualche mestiere. Per esempio temprare i ferri; tempravo una falce, un'accetta. Si faceva per vivere. Facevo il suonatore di triangolo nella marina argentina. Sono stato portiere in un circolo a Buenos Aires. Facevo tanti mestieri... Sono stato ad ammucchiare terrapieni in Argentina. Si dorme fuori nelle tende. È un lavoro leggero ma monotono. In Argentina avevo disimparato perfino la aritmetica. Se no mi sarei impiegato come contabile... Ho fatto il carbonaio nei bastimenti mercantili, il fuochista. Ho fatto il poliziotto in Argentina, ossia il pompiere; i pompieri là hanno qualche incarico o!i mantenere l'ordine. Sono stato a Odessa, Mi imbarcai come fuochista, poi mi fermai a Odessa. Vendevo le stelle filanti nelle fiere.
I bossiaki sono come zingari. Sono compagnie vagabonde di cinque o sei persone. Il tiro al bersaglio fu in Svizzera. Varie lingue le conoscevo bene... ».
Ad Anversa è arrestato per vagabondaggio e dopo un breve periodo di carcere è internato nel manicomio di Tournay. Dimesso, è di nuovo a Parigi e infine in Italia a Marradi. La nevrastenia nel frattempo si è accentuata; aggravato dall'abuso di alcool, il suo stato di inquietudine sfocia in crisi violente. Nell'aprile del 1909 è ricoverato in una clinica fiorentina. Si sottrae sempre più al controllo della famiglia e continuano i vagabondaggi, leggendo molto e fermando sulla pagina, senza piani organici, le sue riflessioni e le sue fantasie. Del 1910 è il pellegrinaggio alla Verna che lascerà in lui un segno durevole: il diario di quei giorni costituirà una parte importante dei Canti Orfici. Fin dal 1905 il lavoro letterario è divenuto lo scopo e lo sfogo della sua esistenza tormentata. Nel 1912 completa e raccoglie nel suo quaderno le prime composizioni poetiche ed è di nuovo a Bologna, alla facoltà di chimica, Trasferitosi a Genova, riprende ben presto il vagabondaggio spingendosi in Sardegna. Intanto ha iniziato la raccolta dei Canti Orfici che porterà a termine nell'autunno del 1913. Proprio per la pubblicazione degli Orfici entra in contatto a Firenze con la redazione della rivista futurista « Lacerba », e in particolare con Soffici e con Papini. La rivista certo lo attraeva per la decisa azione di rottura nei confronti della vecchia cultura accademica. « Ci disse », racconta Soffici, « ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, averne il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista... Tirò fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro comprevendite, e lo consegnò a Papini ». E Soffici continua: « Dopo quel primo colloquio non s'era più fatto vedere, non aveva dato più segno di vita né con ambasciate né con lettere, era insomma sparito del tutto ». Così in un trasloco il famoso taccuino è smarrito.
Campana lo richiede per lettera nel 1914, sottolineando il fatto che si tratta di una copia unica. Soffici allora gli comunica la ferale notizia e Papini con sublime incoscienza ribadisce lo smarrimento: « Gli risposi il vero, cioè che non avevo nulla di suo e che si ricordasse meglio a chi li aveva dati. Mi scrisse allora una lettera furibonda... ». La perdita del taccuino lo sconvolge e determina la definitiva rottura con l'ambiente fiorentino. « Per Campana » racconta Gino Gerola, affettuoso biografo e critico « fu un'altra delusione gravissima, una negligenza e una trascuratezza se non peggio, che provocarono in lui una ferita che non rimarginerà più completamente... Si dice anzi che, a un certo momento, si aggirasse per Firenze con un coltello in tasca deciso a vendicarsi... ». Soffici descrive magistralmente la inconsueta figura del poeta maledetto che circola tra i giovani letterati fiorentini, ribelli a parole ma a fatti ancor bene inseriti nella buona società borghese:
Era un uomo giovane, di una venticinquina d'anni, tarchiato, con capelli e barba di un biondo acceso, la faccia piena e di color roseo, illuminata da un paio d'occhi celesti, che esprimevano ad un tempo sincerità e timidezza come quelli di certi bambini a di gente campagnuola. Nell'insieme la sua figura somigliava curiosamente a taluni ritratti di Rubens, specie ad uno che esiste al museo di Napoli.
…
Privo di un qualsiasi soprabito che lo riparasse dal gran freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava ad un pentolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola... ì piedi diguazzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambe ercoline ventolavano i grembiuli di certi pantaloni troppo corti per lui...
E intanto pazientemente ricostruisce il testo dei Canti Orfici e provvede a sue spese alla pubblicazione. Nel 1914 gli Orfici sono in libreria; l'occasione lo costringe allora a riprendere i rapporti bruscamente interrotti:
Più roseo e biondardente che mai (continua Soffici] egli trionfava nei crocchi, irradiava vitalità e ne suscitava intorno e, specie se aveva un tantino bevuto, allegria e poesia sprizzavano da tutto il suo essere. Ma questi eran gli aspetti pacifici dei nostro amico. Quando però Campana aveva bevuto più del consueto, la piega che le cose pigliavano con lui era meno dilettevole, per non dire che talvolta era persi no paurosa... Campana, che era forte di suo, di membra vigoroso come un lottatore... acquistava in quelle occasioni la potenza e io slancio frementi di una belva...
Dopo i primi furori tedescofili assunti in odio alla decrepita provincia italiana esaltata dalla retorica patriottarda, e documentati dalla dedica a Guglielmo II e dal sottotitolo degli Orfici (« La tragedia dell'ultimo germano in Italia »), scoppiata la guerra anche Campana a suo modo partecipa al movimento interventista. Rientrando in Italia da nuovi vagabondaggi chiede inutilmente l'arruolamento volontario.
La delusione aumenta lo stato d'inquietudine fino a condurlo alla mania di persecuzione.
Intanto entra in rapporto con la « Riviera ligure » dei fratelli Novaro, con Emilio Cecchi, con Vincenzo Cardarelli, ma sempre più si aggravano le già precarie condizioni psichiche. Nell'estate del 1916 la relazione amorosa con Sibilla Aleramo, documentata dal bellissimo epistolario, sembra condurre un periodo di esaltazione e di furia creativa; ma già nell'inverno successivo la relazione è drammaticamente interrotta. « D'ora in poi », dice Gerola, « la scrittrice diviene per lui una specie di idea fissa, un'ossessione che non cesserà di perseguitarlo; contro di lei continuerà a lanciare insulti, accuse d'infedeltà, rimproveri ». È il colpo definitivo, l'ultimo anello di una catena senza speranza. Nel 1918, dopo un nuovo tentativo di arruolamento e nuove disavventure procurate dalle sue stranezze (ancora il carcere a Novara), è ricoverato all'istituto fiorentino per le malattie mentali e di qui trasferito all'ospedale psichiatrico di Castel Pulci. Non ne uscirà più fino alla morte avvenuta nel marzo del 1932. L'unica parentesi di relativa serenità sono i lucidi colloqui col medico Pariani, il quale dopo la morte del poeta gli dedicherà un accurato studio biografico. Per anni si alternano momenti di calma apparente a lunghi periodi di allucinazioni e deliri caratterizzati dall'idea ossessiva dei rapporti a distanza per mezzo dell'elettricità, della comunicazione ipnotica e telepatica con forze oscure e disgregatrici della vita e della società. Nel 1932, nel suo carcere a vita, relegato dal mondo degli alletti e della cultura, è stroncato rapidamente da una forma di setticemia acuta. Nel 1928, per cura di Bino Binazzi, era stata pubblicata presso Vallecchi una nuova edizione dei Canti Orfici, integrata con varie poesie e pagine sparse scritte dal 1914 in poi. Nel 1952 vennero aggiunti agli Orfici quarantatre componimenti recuperati da Enrico Falqui tra le vecchie carte di Campana. Si concludeva cosi, nell'ombra di Castel Pulci e nelle pagine esili di un quadernetto, l'inquieta odissea del nomade di Marradi.
Della cultura di Campana si è già detto. Saranno tuttavia da tener presenti, ancora una volta, le parole di Soffici e la testimonianza in prima persona. Soffici scrive:
Le idee dei massimi pensatori antichi e moderni erano familiari a Campana, così i fatti delle storie dei vari popoli, i capolavori letterati del passare, mentre neanche la produzione della modernità più moderna aveva segreti per lui. Tra una libazione e l'altra parlava di Nietzsche, citandone a memoria sentenze e aforismi, approfondiva paradossi di Wilde e acutezze di Laforgue, tempestava o s'inteneriva intorno alle cupezze di Baudelaire o alle illuminazioni e alle vicende umane di Rimbaud, del quale poteva dirsi un fratello di vita e di spirito...
E la voce dell'esiliato di Castel Pulci aggiunge:
Leggevo qua e là. Carducci mi piaceva molto; Pascoli, D'Annunzio. Poe anche; l'ho letto molto Poe. Dei musicisti ammiravo molto Beethoven, Mozart, Schumann. Verdi anche mi piace; Spontini, Rossini. Eh! questi li so tutti; suonavano sempre la musica italiana in Argentina…
Certo si tratta di indicazioni preziose ma non sufficienti a far luce sul complicato reticolo culturale che presiede alla stesura dei Canti orfici e delle pagine sparse. Si dovranno almeno tener presenti alcuni importanti elementi figurativi, l'indubbio approfondimento dei classici della pittura italiana e la conoscenza non sommaria di alcune capitali esperienze dell'arte moderna europea, dalla pittura impressionista al futurismo metafisico fino al cubismo e al fauvisme, ai primi risultati dell'espressionismo tedesco. Ma sarebbe inutile, in questa occasione, ripercorrere minutamente la genesi della poetica campaniana. Converrà piuttosto muovere dai risultati e di volta in volta recuperare le ragioni segrete delle scelte culturali, nei diversi momenti che scandiscono l'evoluzione dell'arte di Dino Campana.
Infine resta da affrontare un compito non facile: entrare cioè direttamente nel testo dei Canti orfici per sondarne la consistenza poetica e indagarne la struttura. D'altra parte affrontare i Canti orfici significa accostarsi a tutta o quasi la poesia di Campana, poiché sappiamo che la raccolta degli Orfici ne esaurisce quasi del tutto l'iter. Anche i versi e le prose composti dopo gli Orfici — pochi in verità — vivono ancora in funzione di quell'unico libro, come ideale proseguimento del seme originario. Negli Orfici è già tutto Campana con i suoi risultati più alti e con tutta la gamma delle sue sperimentazioni. Dunque ciò che segue o si accompagna agli Orfici (il Quaderno, i Versi sparsi, i Taccuini, gli abbozzi) deve essere ricondotto al discorso unitario dell'opus unicum campaniano, all'idea ossessiva della forma espressa in colori e in musicalità che presiede alla composizione dell'antologia orfica.
Dirò che non mi persuade uno dei luoghi comuni della critica recente, cioè che i Canti Orfici siano nati secondo uno schema prefissato, secondo un ideale disegno di piccolo poema ciclico, anche se realizzato come serie alterna di frammenti nel contrappunto sapiente tra prosa e poesia. Penso invece che i Canti siano una raccolta nel senso autentico del termine, e quindi un fortunato lavoro di montaggio a posteriori, risolto dalla coscienza critica dell'artista che seppe intuirvi una segreta unità d'ispirazione. La prova di questo sta nella scansione in più tempi della raccolta, o meglio la partitura dei Canti in due tempi distinti da un timbro poetico diverso e da una ben documentabile distanza nell'impiego dell'immagine e del simbolo, a cui farà seguito, in alcune liriche e frammenti posteriori, una ulteriore tonalità espressiva che documenta l'approdo conclusivo di un lungo lavoro.
Prima di procedere alla individuazione di questi tre « tempi », ben localizzabili anche in senso cronologico, è necessario soffermarsi ancora brevemente sui caratteri generali dell'arte di Campana, includendovi com'è logico anche tutta l'attività in prosa, poiché è evidente che la prosa campaniana si realizza al di fuori del tradizionale schema narrativo, attingendo direttamente allo spazio lirico, al timbro del poema in prosa.
Non è il caso di procedere a sperimentazioni sul testo, ma sarebbe anche troppo facile dimostrare come la prosa degli Orfici sia riconducibile con una semplice scomposizione a precisi modelli metrici, dai ritmi barbari carducciani alla strofa alcionica, dai versi lunghi whitmaniani a invenzioni ritmiche di varia ascendenza. Il trapasso naturale della prosa in ritmo poetico costituisce dunque il primo segno distintivo dei Canti Orfici e di tutta la tecnica campaniana. A questo si giunge mediante la forza originaria dell'invenzione simbolica, la qualità evocativa della immagine colta nella sua essenza primitiva, nel rapporto colore-musica ottenuto con l'impiego sapiente dell'aggettivo e dell'avverbio considerati elementi portanti di una poetica che tende « al grande e al deforme », « al patetico e al grottesco ». L'onda del canto produce la dilatazione espressiva dell'immagine, una polisemia altrimenti irraggiungibile, con una funzione strutturale che si riassume nella sintesi ritmo-suono-colore. In questo senso Campana traduce alternativamente e spesso contemporaneamente gli elementi costitutivi dell'arte impressionista ed espressionista, delineando l'immagine nella sua unità di rapporti estetici con ciò che sta al di là e al di sopra dell'immagine stessa, evitando il pericolo della cristallizzazione del simbolo e realizzando così un processo ad infinitum. Ma all'interno di questo sistema, di questo continuo rapporto tra immagine e significazione plurima, possono essere individuati strati e fasi diverse: un diagramma cioè che dalla memoria evocatrice di una realtà oggettuale, chiusa in se stessa, conduce al simbolo che si fa storia, e infine all'immagine come emblema analogico, come pura visione rarefatta.
I primi due tempi sono facilmente individuabili. Il primo è rappresentato dalie composizioni databili tra il 1909 e il 1912, e corrisponde quindi alle sezioni dei Notturni, della Notte e del Quaderno. Qui predomina la tensione verso l'identità tra oggetto e ricordo perseguita con espedienti formali quali il cosiddetto « motivo ricorrente », la paranomasia, l'asindeto, la scomposizione sintattica. La memoria evocatrice gioca qui un ruolo particolare nel ricostruire l'immagine dall'interno, annullando la fissità del simbolo secondo una dinamica vorticosa che non consente piani riconoscibili in senso spaziale e storico. Più che nei Notturni, è nelle pagine della Notte che si determina questo tipo di operazione:
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell'Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell'acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.
Qui, come in tutta la suite, l'insistenza su motivi ricorrenti di carattere pittorico da vita ad una cadenza monodica di tipo popolare, tuttavia orchestrata sinfonicamente. Gli elementi impressionistici formano il tessuto di fondo (la città rossa e turrita, le colline verdi, gli archi enormi, le forme ignude) su cui s'innestano evidenti spunti espressionisti (la palude afosa, le stagnazioni plumbee, l'acqua morta, le sagome nere degli zingari, il profilo giudaico del vecchio). Un vortice espressivo che si dilata nel procedere a strati successivi della composizione. In sede lirica questa prima fase troverà risultati altrettanto validi sia nel tessuto degli Orfici sia in alcuni componimenti del Quaderno. Per gli Orfici basterà citare La speranza:
O tu chiomata di muti canti
pallido amor degli erranti
soffoca gli inestinti pianti
da' tregua agli amori segreti:
chi le taciturne porte guarda
che la Notte ha aperte sull'infinito?
Chinan l'ore: col sogno vanito
china la pallida Sorte
…
Per l'amor dei poeti,porte
aperte de la morte
su l'infinito!
…
e per il Quaderno due liriche d'impostazione assai diversa ma egualmente significative:
Il tempo miserabile consumi
Me, la mia gioia e tutta la speranza
Venga la morte pallida e mi dica
Partiti figlio.
…O Morte o morte vecchio capitano
ischeletrito stendi le falcate
braccia e portami in stretta disperata
verso le stelle
o muto e cieco reduce, tra il marmo
delle tue braccia
suoni la mia testa
elettrizzata esausta come corda
che si dirompe.Quando gioconda trasvolò la vita
qual bianca nube per gli aperti cieli
di sopra della tacita infinita
marina in sogno nei lontani veli?
Forse fu il sogno di un momento arcano
d'aurea luce di bronzo e di verdura
che accese l'angosciala creatura
alla sanguigna voluttà del vano.
Pianser le fonti, risero i poeti?
Parlarono le sfingi sui frontoni?
Stieder gli umani nuovamente proni,
in albero fluirono i cinedi?
Tutto ora posa in un silenzio vano
è falso il nulla perché dorme informe
ah la vita barocca pluriforme
a tradimento mi titilla piano.
Anche in questi esempi, scelti tra i moltissimi secondo la preferenza personale, la dialettica del divenire si afferma in una dimensione incontrollata, con la forza stessa di quella « vita barocca pluriforme » che insidia il poeta.
Il secondo momento è contrassegnato invece da un maggior controllo delle ragioni storiche. Appartengono a questa fase il diario La Verna (del 1910) e le composizioni raccolte nella sezione Varie e frammenti (del 1910-12) che conclude gli Orfici. Dobbiamo aggiungervi anche gran parte dei versi sparsi scritti tra il 1913 e il 1915.
È questo senza dubbio il momento di massima apertura verso la concezione simbolica della realtà: ora il rapporto immagine-storia affonda nel reale concreto, nella particolare situazione del protagonista. La memoria gioca ancora il suo ruolo, ma ora è preda di suggestioni storicamente ben definibili. La Verna, nel suo andamento diaristico, è l'esempio più indicativo, ma anche una prosa come Scirocco può servirci ad evidenziare il nuovo andamento prosastico:
Ero libero, ero solo. Nella giocondità dello scirocco mi beavo dei suoi soffi tenui, Vedevo la nebulosità invernale che fuggiva davanti a lui: le nuvole che si riflettevano laggiù sul lastrico chiazzato in riflessi argentei su la fugace chiarità perlacea dei visi femminili trionfanti negli occhi dolci e cupi: sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo melodioso, smorzato nella cadenza lieve e uguale: poi guardavo le torri dalle travi nere, dalle baluastrate aperte che vegliavano deserte sull'infinito. Era la vigilia di natale.
E in dilezione liberatoria una poesia come Firenze tutta aerea e librata sugli azzurri e i bianchi:
Entro dei ponti tuoi multicolori
L'Arno presago quietamente arena
E in riflessi tranquilli frange appena
Archi severi tra sfiorir di fiori.Azzurro l'arco dell'intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi:
Candide righe nell'azzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne.
Ora gli elementi della tavolozza impressionista non sono più separabili dalle motivazioni espressioniste: l'amalgama è raggiunto sfumando i diversi toni, puntando ad un rapporto più stretto tra musica e colore. Ma anche quando, come nella parte conclusiva della lunga lirica dedicata a Genova, la tensione documentaria tende a prevalere, pur tuttavia l'immagine recupera sempre una persuasione simbolica che è insieme umana e mitica, primordiale e attuale:
Cigolava cigolava cigolava di catene
la gru sul porto nei cavo de la notte serena;
e dentro il cavo de la notte serena
e nelle traccia di ferro
il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
la finestra avevi spenta:
nuda mistica in alto cava
infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.
D'altra parte una poesia come Genova — certo assai discontinua — prelude per alcuni aspetti all'ultimo periodo dell'arte campaniana, cioè anticipa le soluzioni del 1916-17 (lo stile delle poesie per Sibilla Aleramo, delle storie e dell’Infanzia nasce..., il frammento che conclude la serie degli scritti vari). Se leggiamo infatti il quarto frammento di Genova risulterà chiaro il pericolo che insidia ora il discorso lirico:
Dentro il vico marino in alto sale,...
dentro il vico che rosse in alto sale
marino l'ali rosse dei fanali
rabescavano l'ombra illanguidita,...
che nel vico marino, in alto sale
che bianca e lieve e querula salì!
« Come nell'ali rosse dei fanali
bianca e rossa nell'ombra del fanale
che bianca e lieve e tremula salì... ».
Ora di già nel rosso del fanale
era già l'ombra faticosamente
bianca...
Negli ultimi versi è evidente la rarefazione della materia e dell'immagine nel puro effetto fonico. L'abolizione dei nessi logici minaccia di distruggere il dettato poetico. L'insidia è nel balbettio infrenabile, nell'affabulazione suggestiva giunta ai confini incontenibili della follia. Tuttavia il problema non è quello di stabilire il ruolo della malattia psichica nel condurre alle forme estreme il linguaggio e la sintassi. Conta invece connotare tecnicamente anche quest'ultimo suggerimento. L'arte di Campana è giunta ora alla rarefazione del contenuto e dello stile, privilegiando unicamente il ritmo metastorico, la trascendenza dell'immagine pura. Le poesie per Sibilla Aleramo rappresentano, appunto, il terminale di questo processo riduttivo:
I piloni fanno il fiume più bello
e gli archi fanno il cielo più bello
negli archi la tua figura.
Più pura nell'azzurro è la luce d'argento
più bella la tua figura
più bella la luce d'argento nell'ombra degli archi
più bella della bionda Cerere la tua figura.
I codici impressionista e espressionista non servono più, né serve quello abusato delle parole in libertà della tecnica futurista. Forse si dovrà parlare di suggestione surrealista esplicitata dal tragico impulso al silenzio. Poesia ed allucinazione coincidono. Così il poeta è approdato all'infanzia, ad uno spazio in cui l'eco s'immobilizza e si allontana dai giorni, alla conoscenza eterna per la quale il poeta e l'uomo si sentono inseriti in un tempo infinito, come affacciati alle rive del fiume della vita, come a stare sempre — dice Campana — sulla riva di un giorno.
Resta da sciogliere solo un ultimo interrogativo, indicando quale delle tre frasi, a nostro parere, raggiunga i risultati più validi. La critica è abbastanza concorde nell'attribuire agli Orfici e alle pagine sparse il carattere di opera in progresso. Per mio conto questa interpretazione non rende piena giustizia all'opera di Campana. Più che di opera in progresso parlerei piuttosto di opera aperta, di soluzioni alternative. Se proprio una scelta va fatta, allora dirò che le mie preferenze vanno al Campana che sfida l'insidia della retorica, che accetta il confronto con i grandi moduli simbolisti. Quindi il Campana della Notte e di alcune liriche composte dal 1910 al 1912.
Affermando questo so di andare contro corrente, di accettare tutta la suggestione della retorica campaniana. Non importa. Credo veramente che l'affermazione di Campana
« scorrere sopra la vita .... è l'unica arte possibile » si venga realizzando in pieno solo nei ritmi convulsi delle pagine notturne. Che i frammenti degli anni 1916-'17 siano i più aperti al futuro e lascino intravedere la fisionomia dell'ermetismo contemporaneo, conta fino ad un certo punto. Resta innegabile che l'autentica poesia di Campana si apre sul panorama scheletrico del mondo, sulla notte chiomata di muti canti, mentre l'eterna Chimera tiene tra le sue mani rare il cuore antico del poeta.