Da sinistra: personaggio non identificato, don Francesco Bosi, avv. Giacomo Mazzotti, Lamberto Caffarelli, Diego Babini, Dino Campana, don Stefano Bosi. Foto scattata da Achille Cattani il 3 gennaio 1912, presso la cascata dell'Acquacheta.
Dall'album dell'avvocato Giacomo Mazzotti. Proprietà famiglia Baùsi, Firenze.
ORFEO E IL FOTOGRAFO
(Foto perdute e ritrovate di Dino Campana)
di Stefano Drei
La cascata che il torrente Acquacheta forma presso San Benedetto in Alpe, non lontano da Marradi, deve la sua fama ad una citazione dantesca. Il fragore che l’acqua produce percorrendo quasi in un sol balzo un dislivello di settanta metri viene dal Poeta paragonato a quello del Flegetonte, fra il settimo e l’ottavo cerchio dell’Inferno.
Ma il paesaggio che si offre ancora ai non pochi appassionati toscani e romagnoli che d’estate ne fanno la meta delle loro passeggiate non ha proprio nulla di infernale. Sia il laghetto sottostante, dove confluisce l’altra cascatella formata dal torrente Lavane, sia la soprastante piana dei Romiti hanno un aspetto ameno, quasi arcadico. Dall’ampia piana è possibile dominare la cascata dall’alto, raggiungendo due ampi gradoni di roccia su cui il torrente scorre prima di precipitare in verticale.
C’è anche chi, più incline all’avventura, compie queste escursioni in inverno; e c’era chi d’inverno le compiva un secolo fa, quando la montagna era ancora densa di insediamenti umani. Ce lo testimonia una piccola foto che ritrae sette uomini, vestiti con abiti non particolarmente pesanti, muniti di bastone da passeggio, su uno sfondo in cui ci sembra di riconoscere il primo gradone sovrastante la cascata. Ma il torrente è completamente ghiacciato e la data in calce ci dice che è il 3 gennaio 1912.
I sette sono atteggiati in modi diversi. Si va dal sussiego curiale dell’ultimo a destra all’estro scanzonato del personaggio in primo piano, che esibisce sorridendo barba, baffoni, colbacco, stivali (o ghette?) ed una specie di cornetto da capostazione appoggiato sul ginocchio. Se si esclude quello più in alto, che, con la sua sporta di canapa da cui affiora la bottiglia del vino sembrerebbe un indigeno aggregatosi momentaneamente al gruppo, sono tutti piuttosto giovani. Due sono in piedi, quattro seduti; il settimo, che si adagia sul fianco fin quasi ad appoggiarsi ad un amico seduto, è il poeta Dino Campana.
Così, l’esiguo catalogo dell’iconografia campaniana si può considerare reintegrato: il vuoto lasciato dalla foto dello studente liceale, rivelatasi spuria, viene colmato da quella dell’escursionista. L’immagine di Dino che ci viene qui consegnata appare quasi sovrapponibile alla foto-ritratto più nota e diffusa. Sono identici i baffi, il taglio dei capelli e anche l’abbigliamento; l’espressione è altrettanto seria ma più rilassata. Forse anche quella fu scattata nella medesima circostanza1.
Per identificare gli altri personaggi ritratti e ricostruire un episodio sconosciuto ai biografi occorre compiere un passo indietro e partire da un’altra fotografia in cui appaiono quasi gli stessi personaggi, fotografia nota da oltre trent’anni, ma mai studiata.
La pubblicò Gabriel Cacho Millet nella prima delle sue meritorie fatiche campaniane. Ritrae sei figure in posa di profilo su un terreno in discesa; cinque di loro coincidono con i fotografati dei Romiti: anche gli abiti sono gli stessi. Fissano o indicano non senza ostentazione una meta lontana, forse la sagoma di un monte. Col corno l’ultimo sembra dare il segnale della partenza, o della ripartenza. Un po’ defilato rispetto agli altri, Dino Campana, secondo del gruppo, avvolto in un mantello, scruta l’orizzonte in atteggiamento meditabondo: pare rifiutarsi di mettersi in posa. Una mano ignota ha scritto sulla foto i nomi in corrispondenza di due dei personaggi: “Dino”, appunto, il secondo, “avv. Mazzotti” il quarto. Ci sono anche altre tracce di scrittura non decifrabili. Nessuna indicazione sulla data e sulla località. La didascalia “Dino Campana con alcuni 'notabili' del paese per i monti di Marradi”2 denotava l’impossibilità di andare oltre nell’identificare il gruppo e l’occasione.
1 La foto-ritratto apparve per la prima volta in occasione del decimo anniversario della morte del poeta, in tre diverse pubblicazioni. In una di esse, l'“elenco delle tavole” recita: “Dino Campana nel 1912”. Vedi Dino Campana: 1885- 1932 (Testo introduttivo di Marco Valsecchi), All'insegna del pesce d'oro, Milano, 1942. Fu poi ripubblicata infinite volte senza data o con data inesatta. Anche l'esemplare rimasto in possesso degli eredi Campana è una riproduzione, eseguita da uno studio di Palermo. Ma l'originale era probabilmente di Achille Cattani: Dino, avendo fra i compagni di escursione un fotografo professionista, ne approfittò per farsi fare il ritratto; oppure andò a trovarlo nel suo studio faentino qualche giorno più tardi.
2 Dino Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di Gabriel Cacho Millet, All'insegna del pesce d'oro, Milano, 1978, p. 231.
Gennaio 1912. Verso il monte Falterona. Da sinistra: Diego Babini, Dino Campana, don Francesco Bosi,
avv. Giacomo Mazzotti, Achille Cattani, Lamberto Caffarelli. Foto scattata da don Stefano Bosi.
La foto fu poi ripubblicata più volte. La didascalia dell’edizione BUR dei Canti Orfici recitava “Campana in gita sui monti di Marradi con l’avv. Giacomo Mazzotti (il quarto da sin.) e altri amici”3 . L’identità di un personaggio veniva precisandosi, ma nel complesso la foto rimaneva misteriosa. E si trattava di qualcosa di più di una curiosità biografica insoddisfatta, visto il rilievo straordinario che il tema del viaggio in montagna assume nei Canti.
3 Dino Campana, Canti Orfici, Introduzione e commento di Fiorenza Ceragioli, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1989, p. 77.
Eppure, qualche anno prima del libro di Cacho Millet, la foto era apparsa in un’altra pubblicazione, che comprensibilmente era sfuggita agli studiosi e che abbiamo rinvenuto del tutto casualmente. Si tratta anzi di una riproduzione di qualità nettamente migliore: le figure degli escursionisti sono più nitide, si distingue la vegetazione, appare sullo sfondo il profilo di montagne spoglie, non c’è traccia di scritte a mano. Il libro che la accoglie è il secondo volume di un’opera assai singolare: una monumentale autobiografia sotto forma di romanzo illustrato, scritta dal fotografo faentino Achille Cattani che la pubblicò a proprie spese per donarla ad amici e conoscenti. Ad un certo punto della narrazione (siamo nel 1931), il protagonista Ernesto, alter ego dell’autore, rivolgendosi alla moglie, rievoca così un episodio della sua giovinezza:
“Curioso, Anna, quando ricordo la parola “psicanalisi”, sempre più oggi nominata, mi sovviene di Dino Campana, tenuto in un ritiro di alienati di mente. Quando ci penso mi dispiace veramente. Non credo che gli possa servire la psicanalisi con le cure che ne possono derivare, quanto più gli sarebbe giovevole una esistenza indipendente da stentate necessità della vita.
Si è sfibrato con la sua vita randagia, denutrendosi e in lotta col suo animo poetico. L’ho conosciuto alla cascata dei Romiti nell’Appennino toscano.
Fu il 2 di gennaio dell’anno 1912. Il terreno era tutto coperto di neve. Si unì a me e ad altri quattro miei amici che avevano più età di me: l’avv.to Giacomo Mazzotti, i due fratelli Bosi, sacerdoti, un salesiano e Diego Babini, compagno di scuola del mio fratello Giacomo defunto, e stemmo insieme per tre giorni e due notti nella gita alla Falterona, fatta tutta a piedi, partendo da Badia del Borgo in Marradi. Che veduta lassù! ... La mia prima invernale, a circa vent’anni, prima di andare soldato.
Questo Campana mi fece passare quei giorni in una atmosfera poetica come si addiceva a quella natura tanto candida. Quando lo penso ho sempre presente il suo viso, fresco e roseo con gli occhi chiari, azzurri, buoni, coi capelli biondi non bene pettinati e sparsi anche sulla fronte, due baffetti, pure biondi e la figura di media statura robusta e mal vestito; aveva un sorriso buono, felice quando si esprimeva poeticamente che poi cambiava in una risata sonora, sarcastica, quando si toccavano dei temi sociali che avversava e disprezzava, offensivi ai suoi ideali. Mi pareva fidente di sè, era giovane, qualche anno più di me, dominato da uno spirito poetico ribelle alla società, pericoloso alla sua età per la sua salute.
Ne avevo sentito parlare poco di Dino Campana, nativo di Marradi, studente qui al ginnasio a Faenza, poi girovago insoddisfatto della società che spesso scherniva in sonetti che poi distribuiva nei caffè di Firenze, deridendo quelli che leggendoli mostravano dell’indifferenza, forse dell’incomprensione. Mi dissero che erano liriche un pò ermetiche, da poeta bohemien, un po' pagano.
Era ben lucido di mente in quei giorni, sempre poeta su quanto si osservava, felice lo vedevo quando contemplando gli uscivano parole espressive, non nuove... come pareva le volesse dire. E’ stata la stanchezza del suo vivere, insofferente delle convenzioni sociali alle quali doveva pure chinare il capo per vivere, umiliandosi in lavori avvilenti che faceva casuali all’estero, quali: Lo scopino, lo sguattero e quel che gli capitava, non escluso di avere provata la prigione, sotto una tortura morale sfibrante. Conosce lingue, almeno per spiegarsi: inglese, francese, tedesca e russa, apprese durante il suo peregrinare come uno zingaro nei vari stati fino alla Pampa. Ma adesso è ricoverato in un luogo di cura per ammalati di mente. Non voleva essere un vagabondo e desiderava un riconoscimento della sua vocazione. Adesso ci vuole ben altro per avere un riconoscimento4.”
4 Achille Cattani, Idealità. La vita di Ernesto ed Anna, Tipografia Faentina, Faenza, 1974, vol. 2, pp. 314-316. Il testo (che abbiamo trascritto conservando i piccoli errori dell'originale) prosegue con considerazioni sull'inutilità per Campana della reclusione in manicomio.
Dei fratelli Bosi, sacerdoti di Castelbolognese, “due giganti di un metro e novanta”, almeno uno gli fu vicino nelle sue battaglie all’interno del mondo cattolico. Si tratta di don Francesco (1882-1969), parroco di Valsenio presso Casola, autore di una monografia su Alfredo Oriani.6 Il fratello don Stefano (1880-1940), parroco della pieve di Misileo, appare solo nella foto dei Romiti; nell’altra evidentemente sostituiva Cattani dietro l’obiettivo.
Il primo da sinistra nella foto «del Muraglione», seduto al centro vicino a Dino in quella dei Romiti, è Diego Babini (Faenza, 1886-1974). Era stato allievo del Ginnasio Torricelli dal 1897 al 1902; dai registri risultava domiciliato in via Bondiolo 4, dunque nell'Istituto Salesiano. Quindi per tre anni compagno di collegio di Dino, seppure in classi diverse. In seguito avrebbe intrapreso l'attività di orafo, assai stimato per perizia ed onestà, succedendo al padre Alfredo e all'omonimo nonno Diego nella bottega situata sotto il loggiato detto appunto degli Orefici (di fronte al Duomo). Nonostante zoppicasse vistosamente per un infelice intervento ortopedico subito ad un anno di età (la menomazione appare anche dalle foto, si veda la postura del piede sinistro), fu un pioniere dello sport faentino, prima come atleta (praticò nuoto e ciclismo), poi come dirigente: fu tra i fondatori del Club Atletico Faenza. Fu anche appassionato di montagna ed attivo sostenitore delle attività dei salesiani7. Oltre alla passione per la montagna, lo legava ai fratelli Bosi anche una parentela. Dobbiamo queste informazioni al dottor Domenico Bosi, per parte di padre nipote dei due sacerdoti e per parte di madre nipote di Diego Babini (che sposò una sua zia materna, di cognome Magnani). Il dottor Bosi è prodigo di aneddoti relativi ai suoi zii. In particolare lo zio Diego gli raccontava di essere stato più di una volta compagno di Dino in montagna, di avere assistito in varie occasioni alle sue stravaganze ed anche di avere subito da lui scherzi goliardici. Raccontava di essersi svegliato un mattino con il capo tutto imbrattato di nero: era stato Dino durate la notte, con un sughero bruciato.
Anche nelle foto è Babini il più vicino a Dino che ai Romiti sembra quasi appoggiarsi a lui.
5 G. Mazzotti, L'anticlericalismo cattolico in Italia: note e appunti di critica, Firenze, La giustizia sociale, 1908. Su Giacomo Mazzotti, vedi L. Bedeschi, Cattolici democratrici all'alba del Novecento in Val Lamone: la seminagione murriana da Faenza alla bassa, Imola, University Press Bologna, 2006 e L. Bedeschi, Un'isola bianca nella rossa Padania: momenti e figure del cattolicesimo democratico faentino, Urbino, Quattro venti, 1992. A Bedeschi Mazzotti risulta nato a Fognano (Brisighella), ma per l'anagrafe la sua città natale è Faenza, in cui volle anche essere sepolto.
6 Francesco Bosi, Alfredo Oriani, Editrice Ancora, Brescia, 1934. Una testimonianza indiretta di don Francesco Bosi sulla morte di Alfredo Oriani fu raccolta da Sergio Zavoli. Sergio Zavoli, Campana, Oriani, Serra, Cappelli, Bologna, 1959, pp. 16-18. Per i rapporti con Mazzotti, vedi L. Bedeschi, Cattolici democratrici all'alba del Novecento in Val Lamone, cit., p. 39. In un numero della citata Rivista bibliografica appare anche un articolo a firma F. Bosi.
7 Vedi M. Rosetti, Diego Babini (1886 - 1974), in «2001 Romagna», Faenza, 82, marzo 1997, pp. 46-50.
C’è poi l’autore del libro, Achille Cattani (Faenza, 1893-1991). Allora giovanissimo, avrebbe rilevato alla morte del padre Giuseppe (1929) il suo avviato studio fotografico e sarebbe diventato durante una vita quasi centenaria il più apprezzato fotografo faentino del Novecento, sperimentatore di tecniche originali e maestro riconosciuto di tutti gli altri fotografi della città.
Nel 1912 si trovavano già in commercio da qualche anno le macchine fotografiche portatili, a pellicola. Di una di queste il giovane Cattani si servì per documentare in maniera innovativa la sua avventura appenninica. Naturale che abbia poi inserito nell’autobiografia l’unica immagine in cui egli è ritratto, avendo affidato la macchina a don Stefano; era comunque evidente che durante la lunga escursione doveva averne scattate altre.
Ci siamo messi quindi alla ricerca di queste altre foto. Il ricchissimo archivio di Achille Cattani non è più a Faenza: poco prima di morire egli lo cedette ad un “Centro Studi e Archivio della Comunicazione” con sede a Parma. Ne facevano parte quasi certamente anche i negativi di quella e delle altre fotografie scattate durante la gita. Ma nonostante i ripetuti tentativi, non siamo riusciti a sapere nulla della sorte di tutto questo materiale.
Ha avuto un esito più fortunato la ricerca negli album di famiglia dell’avvocato Mazzotti, grazie alla straordinaria cortesia delle nipoti, sorelle Baùsi. Uno splendido album di inizio secolo ha restituito nove piccole fotografie, classificate dal nonno con un medesimo numero che rimanda all’annotazione “Sulla Falterona 2 Genn. 1912”8. Scenari diversi: bosco, prato, crinale abbondantemente innevato. Stessi personaggi, o quasi: agli escursionisti elencati da Cattani, si aggiunge in tre foto il montanaro con la sporta; in quattro anche un cacciatore (o un militare?) con fucile, in una un cane. Mazzotti è sempre al centro, Cattani non appare in nessuna altra foto; Dino solo in quella “dei Romiti”. Ma alcune foto sono state ritagliate per adattarle agli spazi dell’album e il poeta potrebbe essere rimasto vittima delle forbici.
Spicca ancora in tutte il personaggio barbuto: l’unico di cui Cattani non fa il nome definendolo genericamente “un salesiano”. Intendeva certamente con questo termine “un frequentatore, uno dell’ambiente dei salesiani”. Non “un padre salesiano”: con quel look, in quegli anni in cui anche il compostissimo abbigliamento dei reverendi Bosi appariva trasgressivo.
Una ricerca nell'archivio fotografico dei salesiani di Faenza ci induce a proporre anche per lui un’identificazione: il personaggio è Lamberto Caffarelli (Faenza, 1880-1963)9, musicista. Anzi “musicista poeta pensatore”, come recita l’epigrafe che campeggia sulla casa dove consumò in estrema indigenza la sua vecchiaia. Sono persuasi che si tratti di lui anche alcuni di coloro che lo conobbero; citiamo in particolare padre Albino Varotti, musicologo, che lo frequentò negli ultimi tempi e ne raccolse le confidenze. Padre Albino afferma anche che Caffarelli gli disse di avere conosciuto Dino Campana; e anche Sibilla Aleramo10.
8 Annotazione sull'album; ma la data è anche su cinque delle foto: 2 gennaio oppure 3 gennaio 1912.
9 L’immediata impressione di somiglianza si rafforza nell’osservazione dei dettagli. In tutte le foto Caffarelli solleva, come per un tic nervoso, il sopracciglio sinistro. Giovanni Cattani testimonia anche l’abitudine di Caffarelli giovane di vestirsi sempre di nero. Abbiamo poi raccolto la documentazione di stretti rapporti, in quegli anni, di Caffarelli con i salesiani di Faenza e con Mazzotti, alle cui riviste egli collaborava.
10 Caffarelli dovette comunque conoscere Sibilla Aleramo più tardi, quando ambedue frequentarono la Società Teosofica Indipendente di Roma. Vedi G. De Turris, Esoterismo e fascismo, Roma, Edizioni Mediterranee, 2006, p. 385.
Lamberto Caffarelli nel 1912. Particolari di due foto scattate durante l’escursione
Oltre all'evidente somiglianza11, altri indizi confermano l'ipotesi: Caffarelli in questi anni era in stretti rapporti con Giacomo Mazzotti, avendo collaborato fra 1909 e 1910 alla Rivista bibliografica da lui diretta. Inoltre, benché non fosse un ex allievo, frequentava assiduamente l'ambiente dei salesiani faentini, nel cui teatro furono più volte eseguite le sue musiche. Per citare solo l'indizio cronologicamente più pertinente, in quello stesso 1912 Caffarelli pubblica per la «Libreria Salesiana Editrice» un opuscolo di musica con dedica ad un sacerdote che all'epoca esercitava il suo ministero fra i salesiani di Faenza12.
Lamberto Caffarelli in un ritratto di Giannetto Malmerendi e in una foto degli ultimi anni
11 L’immediata impressione di somiglianza si rafforza nell’osservazione dei dettagli. In tutte le foto Caffarelli solleva, come per un tic nervoso, il sopracciglio sinistro. Si potrebbe obiettare che le foto ed i ritratti che circolano di lui, tutti di epoca notevolmente posteriore, ce lo mostrano malinconico e dimesso, ma chi lo ha conosciuto ne ricorda anche le improvvise accensioni di allegria, specie quando si trovava con i pochi amici. Egli stesso si definisce in una lettera «motteggiatore sarcastico». Giovanni Cattani (figlio del fotografo Achille), che fu un suo ammiratore, riferisce anche che, da giovane, Caffarelli appariva sempre vestito di nero.
12 L. Caffarelli, Per la festa di Maria Ausiliatrice, Faenza : Libreria Salesiana Editrice, 1912.
Lamberto Caffarelli13 è un personaggio che in quanto a stravaganza non ha nulla da invidiare a Dino Campana. A Faenza, soprattutto come compositore, contò e conta ancora diversi estimatori: la sua musica viene ancora eseguita, gli vengono dedicato studi, articoli, tesi di laurea. Purtroppo la sua fama non ha mai valicato le mura della città natale e di ciò il primo responsabile fu lui stesso: ostile ad ogni compromesso fino all'autolesionismo, disinteressato al successo, anzi in fuga da esso e votato al culto dell'opera d'arte intesa come tensione verso l'assoluto.
Eppure le occasioni per affermarsi anche davanti ad un pubblico più ampio non gli mancarono, soprattutto negli anni immediatamente precedenti alla grande guerra, anni in cui partecipò su diversi fronti al dibattito culturale, non solo faentino: fu vicino sia al movimento delle avanguardie (Balilla Pratella, l'estensore del manifesto dei musicisti futuristi, fu suo amico ed estimatore) sia al gruppo di cattolici democratici di Giuseppe Donati, pubblicando su riviste culturali saggi e recensioni di argomento filosofico. A Faenza ebbe rapporti anche con il cosiddetto cenacolo baccariniano e qui probabilmente conobbe Campana.
Caffarelli aveva frequentato il ginnasio in seminario. All'esame di quinta al Torricelli, aveva ottenuto un dieci allo scritto di Italiano, ma era stato bocciato per non essersi presentato agli orali. Nell'episodio si rivela già tutto il carattere dell'uomo. Aveva poi conseguito il diploma di composizione al liceo musicale a Bologna ed era stato nominato maestro di cappella ed organista nella cattedrale di Faenza.
Nel 1912 Caffarelli era ancora un giovane di belle speranze. Stava componendo libretto e musica di un'opera lirica, il Galeotus, che l'anno successivo fu inviata, forse a sua insaputa, alla casa musicale Sonzogno. Il lavoro piacque ai critici della prestigiosa casa musicale; Sonzogno invitò Caffarelli a Milano e lo convinse a firmare un contratto assai conveniente. L'opera fu messa in cartellone per il novembre 1914 al teatro Adriano di Roma; a Caffarelli fu riconosciuto un generoso anticipo; egli si impegnò però ad apporre all'opera alcuni tagli. Non riuscì però mai a mantenere l'impegno; dopo sei anni anzi l'opera era cresciuta di un atto; così la messa in scena non avvenne mai e il contratto fu rescisso consensualmente.
La sua ricerca filosofica ed artistica, da sempre sorretta da forti motivazioni religiose, si orienterà in seguito verso direzioni sempre più esoteriche ed eterodosse. All’epoca che ci interessa frequentava ancora gli ambienti cattolici, ma la sua ricerca spirituale si andava già orientando verso l’occultismo e la teosofia. Dopo un incontro con Rudolf Steiner aderirà al movimento antroposofico di cui diventerà uno dei più convinti sostenitori. Fu probabilmente la comune adesione al movimento steineriano a metterlo in corrispondenza con il poeta Arturo Onofri14.
Dimessosi dall'incarico di organista della cattedrale, sarà per qualche anno direttore della scuola comunale di musica che verrà però chiusa nel 1925 dal regime fascista. Da allora incomincerà per lui una lunga parabola discendente: si troverà praticamente senza più mezzi di sostentamento, che non fossero le sovvenzioni caritatevoli di amici, che ne ammiravano l'ampia cultura e l'originalità dello spirito critico. Delusioni affettive, una naturale propensione alla malinconia ed alla rassegnazione fatalistica faranno il resto: si ridurrà in condizioni di estrema indigenza, sopportata con distaccata ironia. Su questo povero genio di provincia che trascorse gli ultimi anni di vita in una casa piena di libri e di topi è ancora viva a Faenza una varia ed irrispettosa aneddotica. Alla sua morte, la biblioteca comunale ha acquisito una collezione di seimila volumi, dedicati in gran parte alle discipline occulte ed esoteriche, e una grande quantità di manoscritti, in minima parte editi.
13 Su di lui vedi Amedeo Casanova, Lamberto Caffarelli: Vita, catalogo delle opere, scritti, bibliografia, Stab. grafico F.lli Lega, Faenza, 1964; Giovanni Cattani, Lamberto Caffarelli e i suoi inediti, Stab. grafico F.lli Lega, Faenza, 1975; Ennio Golfieri, Lamberto Caffarelli: un enigma esistenziale, “Torricelliana”, Bollettino della società torricelliana di scienza e letteratura, 41, Faenza, 1990, pp. 267-288; Anselmo Cassani, Il magazzino dell'esoterismo: una prima ricognizione del fondo Lamberto Caffarelli, in La biblioteca comunale di Faenza. La fabbrica e i fondi, a cura di Anna Rosa Gentilini, Studio 88, Faenza, 1999, pp. 292-329. Al ricco catalogo di testi esoterici esposto da Cassani, aggiungiamo una notizia di interesse campaniano: Caffarelli possedeva ben due copie, di cui una consumatissima e con numerose sottolineature, del Romanzo di Dio della “pitonessa” Margherita Carnecchia Lewis. Vedi Lettera CXXXI.
14 Di Onofri la biblioteca faentina conserva lettere inviate a Caffarelli e volumi con dedica autografa.
Si tratta quindi di un gruppo composito, con interessi intellettuali assai differenziati. Tutti nomi finora sconosciuti ai biografi di Campana: il più giovane (Cattani) ha diciotto anni; il più anziano (Mazzotti, forse l’organizzatore della gita) trentadue. Elemento aggregante per buona parte di loro la provenienza dall’istituto salesiano ed anche dal liceo Torricelli di Faenza; per tutti l’amore per la montagna.
Avevamo già notizia di due escursioni di Campana al Falterona: questa si colloca in mezzo alle altre due. La prima, compiuta in solitaria, seguendo un percorso diverso da quello indicato da Cattani, risale al settembre 1910 e ha il suo diario nella sezione La Verna dei Canti Orfici. Di un’altra, che risale al 1917, abbiamo notizia da Luigi Orsini, che la raccontò quindici anni più tardi in un articolo su "Il Popolo d’Italia", poi citato anche da Pariani. Orsini, giornalista e scrittore, mentre compiva insieme a Giuseppe Cicognani una gita in più tappe da Faenza a Badia Prataglia, incrociò Dino Campana “che, purtroppo, agonizzava ormai nelle strette della pazzia”, faceva “discorsi vaghi, incoerenti, frammentari, propri di una mente turbata” e per un breve tratto si accompagnò a loro.
Cattani e Orsini (il primo più attendibile del secondo, proprio perché più naif) convergono nel descrivere un Campana che vive l’esperienza del viaggio in montagna in funzione di poesia: anche se è ben diverso il Campana del 1912, nel pieno della gestazione del suo capolavoro, da quello che nel 1917, ormai vacillante, ossessivamente cita se stesso. Mentre Cattani rievoca “parole espressive” di Dino, Orsini racconta: «Campana rigirava quel ritornello penoso che aveva la monotonia di un arcolaio: “de l’alba non ombre nei puri silenzi - de l’alba - nei puri pensieri - non ombre - de l’alba non ombre”».15
Sono versi appartenenti alla prima delle Immagini del viaggio e della montagna nei Canti Orfici. Versi che però un filo congiunge anche all’escursione di cui ci stiamo occupando. Secondo Enrico Falqui, la prima delle poesie pubblicate nella sezione Taccuini, abbozzi e carte sparse della sua raccolta di documenti campaniani, quella che reca il titolo Sulle montagne - dalla Falterona a Corniolo (Valli deserte), risale al febbraio 1912.16 Sarebbe dunque di appena un mese posteriore all’escursione. Corniolo si trova nell’alta valle del Bidente, nell’Appennino forlivese, in una posizione incompatibile con il viaggio solitario del 1910 descritto nei Canti Orfici, mentre può ben darsi che Campana, con o senza i suoi amici, di ritorno dal Falterona nel gennaio 1912, sia passato di lì. Probabile quindi che spunto primo per la composizione di Sulle montagne... sia un momento di questo viaggio di ritorno.17 Ma Sulle montagne... non è che il primo nucleo, o il primo nucleo superstite, di un testo poetico che ne Il più lungo giorno prenderà il titolo di Alba, e poi nei Canti Orfici diventerà la lirica in questione: con ampie rielaborazioni e integrazioni, certamente, tanto che nella parte finale apparirà perfino una natura estiva. La poesia dei Canti Orfici ha sempre origine da un dato primo di esperienza; non di rado dalla contaminazione di più esperienze lontane e diverse,18 così come più bozze concepite separatamente possono confluire in uno stesso testo. Questo è vero in particolare per un testo come Immagini del viaggio e della montagna che, nel titolo stesso, nella disposizione grafica (vedi le ampie pause rimarcate dai puntini di sospensione), vuole suggerire una molteplicità di scorci, una pluralità di movimenti (anche nel senso musicale del termine) distinti e successivi.
L’escursione al Falterona con i vecchi amici dei salesiani di Faenza è certamente una di queste esperienze. Dunque, il “Borgo” che “pare e dispare” viene identificato da diversi commentatori in Marradi19, ma, almeno nella prima ideazione, è Corniolo. La prima persona plurale che risuona entusiasticamente nel primo e nel terzo movimento non può essere spiegata solo con il riferimento letterario a “due anime”,20 ma scaturisce innanzitutto dal fresco ricordo di una avventura esaltante vissuta in compagnia. E forse nella “tromba” che squilla a valle echeggia il cornetto da capostazione di Lamberto Caffarelli.
15 Luigi Orsini, Itinerari spirituali. Divagando, “Il Popolo d'Italia”, 3 febbraio 1932. Poi in Campana dal vivo: scritti e testimonianze sulla vita e sulla poesia, a cura di Pedro Luis Ladrón de Guevara Mellado, Centro studi campaniani Enrico Consolini, Marradi, 2002, pp. 139-143.
16 Dino Campana, Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze, 1973, I p. 225 e II p. 375. Va però precisato che la datazione è problematica. Falqui pubblicò la poesia una prima volta sulla rivista "Omnibus" (19 novembre 1938) sulla base di una trascrizione di Manlio Campana il quale presumibilmente gli fornì anche la datazione. Quando poi Falqui entrò in possesso dell'autografo (costituito da una lettera con cui Dino proponeva alla redazione della rivista "La lettura" questa ed un'altra poesia), ne pubblicò la riproduzione fotografica, nell'appendice all'edizione 1942 degli Inediti, ma conservò la trascrizione precedente, che conteneva alcuni errori fra cui una data a piè di pagina che nell'autografo non c'è affatto. Più correttamente Cacho Millet (Lettera VI, in Dino Campana, Lettere di un povero diavolo, Firenze, Polistampa, p. 9) mette fra parentesi quadra la data. In ogni caso la data, dovunque sia stata ricavata, potrebbe riferirsi solo alla stesura della lettera e non alla composizione della poesia.
17 Una ricostruzione del tragitto si trova in un libro in cui confluiscono alpinismo e critica letteraria: Giovanni Cenacchi, I Monti Orfici di Dino Campana, Edizioni Polistampa, Firenze, 2003, p. 218. L'autore però non si è reso conto che Pariani, quando parla di un “secondo viaggio” di Campana al Falterona, sta citando Orsini e si riferisce sempre all'episodio del 1917.
È probabile che le escursioni di Campana alla Verna ed al Falterona siano state anche più di tre. Rimane ad esempio da collocare, se vero, l'inquietante episodio narrato dalla zia Gina Diletti Campana: “Un'altra volta alla Verna portò via la borsetta ad una signora”. Vedi, Souvenir d'un pendu, cit., p. 248.
Ma il Falterona ed altre montagne appenniniche erano mete di frequenti escursioni invernali anche da parte degli intellettuali della Voce. In una lettera, Scipio Slataper racconta una “gita magnifica [...] sul Falterona” compiuta insieme a Giani Stuparich il 14 e 15 gennaio 1912: pochi giorni dopo Dino. Un incontro mancato ed anche un'occasione mancata: Slataper, benché giovanissimo, era ben più inserito negli ambienti culturali ed in quel periodo fungeva praticamente da direttore della "Voce". Vedi Scipio Slataper, Lettere, Fratelli Buratti Editori, Torino, 1931, vol. III, p. 131.
18 Un esempio in un passo in prosa: l'incontro con l'ex compagno di scuola Oddone Assirelli, ne La giornata di un nevrastenico. Dino ha osservato le studentesse sotto i portici, si è seduto in un caffè tentando invano di scrivere, è tornato per via. A questo punto prosegue così: “Mi ferma il mio antico compagno di scuola [...] con un sorriso sempre più lercio”. Nel Fascicolo marradese, prima bozza del testo in questione, Campana aveva in un primo tempo scritto “Ricordo il sorriso lercio del mio antico...”, poi corretto con “Incontro il mio antico...”. Le successive correzioni fondono in un continuo esperienze diverse, dando unità (proprio nel senso delle unità aristoteliche) alla giornata del nevrastenico Dino. Vedi la riproduzione del manoscritto in I portici della poesia: Dino Campana a Bologna (1912- 1914), a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Gabriel Cacho Millet, Patron, Bologna, 2002, p. 69.
19 Identificazione peraltro motivata dalle innegabili analogie con la lirica omonima del Quaderno.
20 Riferimento che non si vuole comunque negare. A questo proposito è stato citato Goethe. Ma le catene spezzate, il risveglio nella luce e soprattutto le “ombre [...] non ombre” rimandano esplicitamente al settimo libro della Repubblica di Platone, al mito della caverna: uno dei testi fondanti della cultura occidentale, ma anche una narrazione che si presta ad interpretazioni esoteriche e, perché no, orfiche. Con tutte le cautele d'obbligo, non si può escludere che, nel raccontare come un'esperienza iniziatica l'avventura vissuta con gli amici, Dino Campana abbia subito qualche suggestione da Lamberto Caffarelli.
19 dicembre 1909. Diego Babini (con il costume della FERT, la società sportiva dei salesiani di Faenza) dopo la vittoria nel Cimento di Arno, gara invernale di traversata del fiume
Babini (Faenza, 1886 - 1974) si aggiudicò tre edizioni del Cimento.
don Francesco Bosi (Castelbolognese, 1882-1969)
don Stefano Bosi (Castelbolognese, 1880-1940)
avv. Giacomo Mazzotti (Faenza, 1879 - Firenze, 1953)
Achille Cattani (Faenza, 1893 - 1991)