Bigongiari e Ungaretti a Fortedeimarmi nel 1959
Un articolo di Piero Bigongiari su Dino Campana,
in occasione del centenario della nascita del Poeta Orfico
da: "La Nazione", Firenze, 7 Settembre 1985
Se il centenario della nascita di Dino Campana non lasciasse altre tracce di rilievo, dovremmo rallegrarci che esso ha coinciso, se non l’ha provocata, con questa edizione esemplare dei Canti Orfici, per le cure e il commento di Fiorenza Ceragioli, presso l’editore Vallecchi. E chi altro meglio di lui, che pubblicò a suo tempo, nel ‘28, a cura di Bino Binazzi, la Vulgata di questi Canti Orfici e altre liriche, dopo l’edizione originale di Marradi del ‘14, avrebbe avuto il diritto di farlo? Su quella edizione, seppure non priva di mende e fonte di recriminazioni da parte dello stesso poeta ormai recluso a Castel Pulci, la mia generazione ha letto Campana, lo ha amato e riconosciuto grande poeta.
Ora la Ceragioli restaura, con questa sua, il testo della prima edizione, l’unica curata ed approvata dall’autore, dotandolo di tutti gli strumenti critici e filologici per cui la lettura di Campana entra davvero in una nuova fase, pur con tutto il lavoro critico ed esegetico trascorso su un testo, quanto basilare, altrettanto difficile e controverso, senza dimenticare quanto Falqui, Ramat, Domenico De Robertis e tutti gli altri hanno fatto di benemerente per arrivare a una precisione di lettura che si afferma in lutti i suoi aspetti, critici, linguistici e culturali. Personalmente sono lieto che la Ceragioli, già nota per suoi studi leopardiani, ricercatrice presso la cattedra di Linguistica tenuta da Emilio Peruzzi nella Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, facente capo all’Istituto di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea da me diretto, sia stata stimolata a questo lavoro proprio da un seminario su Campana da lei tenuto nell’ambito dei miei corsi, tra cui appunto uno sulla poesia campaniana.
E al solerte lettore segnalo, della Ceragioli, proprio uno studio, Restauri campaniani, uscito, in concomitanza con l’edizione di cui si tratta, su «Paradigma» 6, dove tra l’altro compare anche uno studio quanto mai attento e sottile Sul ritmo di Campana, di una mia allieva. Felicita Audisio. Come si vede, Campana non è stato dimenticato.
Né posso non ricordare quando, nel ’42, in pochi fedeli assistemmo all’inumazione delle spoglie mortali del poeta — poche ossa sottratte al terreno umido presso l’Arno - nella Badia a Settimo, a specchio di Castel Pulci, nella ferace pianura, e successivamente, in seguito ai danni procurati dai bombardamenti bellici alla Badia, all’ulteriore traslazione delle spoglie martoriate del poeta nella vicina cappella: anche allora, in pochi ma buoni testimoni della grandezza del poeta. Per cui ci pare poco meno che opinabile il disegno di riportare a Marradi le irrequiete reliquie mortali che ci pare, lì a Badia a Settimo, abbiano trovato quella sola quiete che è permessa ai poeti: quella dell’immortalità e non delle tardive ammissioni dei loro contemporanei. Questo suggeriamo agli amministratori di Marradi, che ha già la gloria di aver dato i natali e la produttiva inquietudine al poeta, quella che lo ha portato qua e là per il mondo a cercare di riconnetterne le fila orfiche che lo costituiscono come un tutto unico, ferocemente e teneramente genetico per l’uomo nuovo alla cui nascita per tutta la vita il poeta aspirò nel suo peregrinare di terra in terra. Marradi, e mi duole dirlo, almeno finora non era riuscita a imboccare la strada giusta, occupata piuttosto a reclamizzare insieme a se stessa i suoi piccoli dissensi con iniziative, quanto meno, poco confacenti, che a pensare seriamente al risarcimento della memoria del suo infelice e grande figlio. Ma forse, e ce lo auguriamo, le cose stanno cambiando.
Ma ritorniamo all’edizione da cui sono partite queste nostre divagazioni: ci pare, con essa, — e in attesa della promessa (da Domenico De Robertis) edizione critica, che i Canti Orfici possano entrare tra i classici della nostra letteratura, trattato com’è questo testo in tutti i suoi aspetti e dotato, appunto come un classico, di tutti i sussidi di lettura; per cui anche nella scuola, come certi commenti al Foscolo, al Leopardi, al Manzoni, o più vicina a noi quelli dell’opera della Triade finiseculare, potrebbero essere adottati de plano.
La Ceragioli è solertissima guida all’ermeneusi testuale. Né si potrebbe in questo senso desiderare di meglio. Così come ci pare giusto che, nella conservazione del testo della princeps, non intervengano le correzioni sporadiche che il poeta apportava negli esemplari donati agli amici, che non costituiscono un sistema correttorio coerente. Talora, nella spiegazione, soprattutto nella ricostruzione diretta del discorso poetico, ci pare che la commentatrice non tema di rischiare un impoverimento della complessità delle risonanze semantiche e fonosimboliche che il poeta ottiene proprio nella tessitura iperbatica attraverso cui il polisenso può allargare nell’ambiguità delle risonanze il proprio campo d’azione all’interno stesso dei significali ottenuti con questo mezzo, che è d’altronde figlio della metrica endecasillabica nascosta nei poèmes en prose degli Orfici.
Talvolta la ricostruzione non ci pare così evidentemente appetita dal contesto, come per esempio nella nota introduttiva a Piazza Sarzano, in cui, riportando la lezione simile in Taccuinetto Faentino da «Una doppia vita»: «L’orologio qui non aggancia il tempo leggendario all’eternità della piazza» ecc., la commentatrice costruisce e intende così: l’orologio non aggancia il tempo leggendario della piazza all’eternità. Non sono sicuro che questa sia la mira di Campana, qui in riferimento alla Piazza Maggiore di Faenza, rapportato a Piazza Sarzano, in cui si ripete la sequenza del1’«eternità della piazza»; «l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza». Ci pare, se non andiamo errati (il che, si badi bene, è possibilissimo, nell’opinabilità in cui sfocia l’ambiguità campaniana), che il poeta voglia contrapporre il tempo - leggendario, quasi anche da leggere come chronos sul quadrante dell’orologio —, all’eternità propria della piazza come luogo in cui invece del tempo si sospende il corso: la piazza come visione rispetto alla visibilità del tempo transeunte, e di quello che il tempo transeunte contiene. Così in Piazza Sarzano «l’orologio verde» che «come un bottone aggancia il tempo all’eternità della piazza» finisce per essere il trait - d’union tra il tempo cronico e l’eternità in cui la visione si esplica come tale piétinant sur piace sul luogo dell’azione visiva, rendendo il visivo visione. Sulla scia di tale onda ectodica ed ermeneutica, vorremmo augurarci che il centenario portasse seco almeno l’impostazione critica, se non la pubblicazione, di una Pleiade campaniana, magari a cura della stessa Ceragioli, sullo slancio acquisito con questa edizione, presso lo stesso Vallecchi o nei Meridiani mondadoriani: che comprendesse tutto quello che Campana ci ha lasciato, compreso Il più lungo giorno, il Taccuinetto Faentino, il Fascicolo Marradese e tutti gli inediti e le lettere reperibili.
Ma tanto basti a indicare i meriti della studiosa, di cui tutti i lettori del poeta dovranno d’ora in poi saperle grado, e a confermare come il sospendersi del corso del tempo nella poesia campaniana abbia spesso un’origine iconica in cui la materia plastica pare voler captare al limite dell’ineffabile il suo ribollire figurale, e il tempo vedi le iterazioni verbali sembra spaziarsi come musica, cioè acquistare una durata in cui il mutevole è nuance ai limiti della sua disperante identità, quasi a mordere nell’identità il diverso dell’alterazione spaziale del tempo. Queste «son note musicali che facevo io», come dice il poeta recluso al suo medico, il Pariani, che l’interrogava a Castel Pulci, mentre forse il suo occhio spaziava sulla mossa e ondulata pianura di Signa dove probabilmente presentiva nella morte il suo unico riposo vitale.