Il manoscritto ritrovato

Il più lungo giorno di Dino Campana

 

Roberto Maini

da

Biblioteche oggi – luglio-agosto 2005

 

Il 4 marzo l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze nella persona del suo presidente Edoardo Speranza ha consegnato il manoscritto del poeta Dino Campana alla Biblioteca Marucelliana, nelle mani della sua direttrice Maria Prunai Falciani.

Perduto da Ardengo Soffici nel dicembre 1913, ritrovato tra le sue carte nel giugno del 1971, il 18 marzo 2004 era stato acquistato dall’Ente Cassa di Risparmio nel corso dell’asta tenutasi presso la sede romana di Christie’s.

L’Ente ha voluto corrispondere a un sentimento comune che ne suggeriva, oltre l’acquisizione, un’adeguata collocazione pubblica e, pur non rinunciando alla proprietà, ha affidato il manoscritto alla Biblioteca Marucelliana che, per vocazione istituzionale e tradizione di studi, si è mostrata estremamente sensibile al percorso umano e artistico di Dino Campana.

Pubblichiamo di seguito una sintesi dell’intervento che Roberto Maini ha tenuto a conclusione dell’evento nel corso del quale sono intervenuti Carla Guiducci Bonanni, presidente dell’Associazione amici dei musei fiorentini; Franco Scalini, segretario del Centro studi campaniani “E. Consolini”; Domenico De Robertis, dell’Università degli studi di Firenze; Stefano Giovannuzzi, dell’Università degli studi di Torino.

Alla conferenza stampa tenutasi nella stessa giornata era intervenuto Luciano Scala, direttore generale per i beni librari e gli istituti culturali.

L’evento è stato seguito da un altro momento significativo, presso la tomba del poeta nella Chiesa di S. Salvatore e S. Lorenzo a Badia a Settimo, con l’intervento del priore Carlo Maurizi, dell’attore Stefano Tamburini, che ha letto alcuni brani tratti dal manoscritto, e con un concerto per violoncello e pianoforte di Vittorio Ceccanti e Simone Gragnani. Alla celebrazione avrebbe dovuto partecipare il poeta Mario Luzi, scomparso qualche giorno pri ma: del poeta è stato letto un ricordo di Dino Campana. (N.d.R.)

Qualche anno fa, ricordando in una lettera la parte da lui avuta nella gestione del ritrovamento di Il più lungo giorno, Mario Luzi terminava con queste parole:

“Non è vanità ma memoria di una grande emozione”

Emozione che prende ogni volta che parliamo di Campana, della sua poesia e della sua vita. Emozione grande che si rinnova facendoci rivivere la storia drammatica di questo manoscritto “prezioso incunabolo della nostra poesia moderna”, per citare ancora Luzi, quando sul “Corriere della Sera” del 17 giugno 1971 dette l’annuncio del ritrovamento tra le carte di Soffici del quaderno perduto nel dicembre 1913.

Sembrò allora la fine di quello che Campana aveva vissuto tragicamente come un sequestro, nella consapevolezza che “immenso è il carico che deve essere posto in salvo ed io sono agli estremi”. Sembrò la fine, ma solo in parte.

Oggi, dopo un drammatico, e protrattosi in modo ingiustificato per quasi cento anni, sequestro, il suo quaderno, la “sola giustificazione della mia esistenza”, come scrive a Emilio Cecchi, ha, grazie all’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, una destinazione pubblica, che raccoglie e completa il suo bisogno di essere stampato:

 

Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di es- sere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi. Non sono ambizioso ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto la- cerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata.

 

Così il 6 gennaio 1914 a Prezzolini, quando ancora non sa che Soffici ha smarrito il suo quaderno durante un trasloco da una stanza all’altra, “confuso nel gran sottosopra”. Il più lungo giorno entra ora in Marucelliana, come Campana entrava nel suo errare nelle biblioteche d’Europa e del nuovo mondo.

“Entravo, ricordo, allora nella biblioteca”: sono parole sue, titolo della mostra qui tenuta nel 1985, parole tratte da Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), presente nei Canti Orfici ma non nel quaderno.

Dualismo – Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita Tchegarray, l’“adorabile creola da-gli occhi neri e scintillanti come metallo in fusione”, era stata pubblicata in prima stesura su un nu- mero unico dei goliardi bolognesi, “Il Papiro” dell’8 dicembre 1912, assieme a Montagna – La Chimera e Le cafard (Nostalgia del viaggio).

È da questo momento che Campana non è più un uomo inedito, grazie a una piccola brigata di amici, universitari e no, che avevano come punto d’incontro a Bologna il Bar Nazionale ma anche la Biblioteca universitaria. Anche di quella brigata sentiamo di raccogliere l’eredità.

Allora io entravo nella biblioteca, io che non potevo, io che non volevo pensare a voi. Le lampade elettriche oscillavano lentamente. Su da le pagine risuscitava un altro mondo, sorgevano imagini antiche che ondeggiavano con l’ombra del paralume, e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile, divina, nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino.

Sarà un altro numero unico “Il Goliardo”, datato Bologna 18-19- 20 febbraio 1913, a pubblicare Torre rossa – Scorcio: “Ricordo una vecchia città rossa di mura e turri- ta” è l’incipit dei Canti Orfici, che saranno pubblicati da lì a un anno e mezzo.

“Lacerba”, la rivista di Papini e

to a loro presso l’amministrazione di Lacerba”. La richiesta non ha ri- sposta: Soffici ha smarrito il qua- derno durante un trasloco da una stanza all’altra, confuso nel gran sottosopra. È l’inizio del sequestro terminato oggi.

Campana si rifugia nel silenzio dei suoi monti e in qualche mese ri- scrive il libro che intitolerà Canti Orfici, il suo unico libro. Il 7 giu- gno 1914 firma il contratto per la stampa con il tipografo marradese Bruno Ravagli, grazie alla sotto- scrizione di cui si fece garante e promotore l’amico Luigi Bandini, che poi intraprese la carriera nelle biblioteche pubbliche statali.

A settembre il libro è in vendita a Firenze presso la Libreria della Voce e la Libreria Gonnelli. Ai pri- mi del 1916, in previsione di una ristampa, ritorna a chiedere a Soffici e Papini con inusitata vio- lenza la restituzione dei suoi ma- noscritti. Campana rivive la perdi- ta del manoscritto in modo tragico. “Le scrivo perché mi mandi il famo- so manoscritto che mai e poi mai le perdonerò di avermi sequestrato” (a Soffici il 5 gennaio del 1916); “Se entro una settimana non avrò rice- vuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni sono ver- rò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi trove- rò” (a Papini il 23 gennaio dello stesso anno). Due anni dopo, il 12 gennaio 1918, entra in manicomio dove muore il 1° marzo 1932. Punto di arrivo, questa consegna a un’istituzione pubblica, ma soprat- tutto continuazione di un impegno da parte della Marucelliana, che Enrico Jahier, uno dei suoi presti- giosi direttori, fratello di Piero, de- finì “il tipo più antico di attivissima biblioteca democratica”.

Impegno gravoso ma di grande emozione, non solo di noi bibliote- cari, ma degli studiosi, dei poeti, della comunità a conservare, studia- re e valorizzare il più affascinante manoscritto del Novecento italiano.

Soffici, era uscita poco prima, il 1° gennaio 1913. Dino Campana fini- sce di comporre Il più lungo gior- no non prima del 1° agosto 1913. Ai primi di dicembre, in momenti diversi, lo consegna a Papini pres- so la rivista “Lacerba”. Nel marzo del 1916, in una lettera a Emilio Cec- chi, così ricostruisce quel dramma- tico momento:

Venuto l’inverno andai a Firenze all’Acerba [sic] a trovare Papini che conoscevo di nome. Lui si fece da- re il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il gior- no dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspetta- va (?) ma era molto molto bene e m’invitò alle giubbe rosse per la se- ra. [...] Per tre o quattro giorni an- dò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l’avrebbe stam- pato sull’Acerba. Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dor- mivo all’asilo notturno ed era il giorno che loro facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista [12 dicembre 1913 al Teatro Verdi] incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato nelle mani di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi a riscriverlo a memoria, giurando di vendicarmi se avevo vi- ta. [...] Gli abbandonavo in mano quello che era la sola giustificazio- ne della mia esistenza.

Ai primi di febbraio del 1914 scri- ve a Papini e Soffici “di lasciare i manoscritti miei che ho consegna-

6 Biblioteche oggi – luglio-agosto 2005