Tiziani Salari

 


Tiziano Salari, "Il grande nulla. Percorsi tra Otto e Novecento",

 

L’Avventura Letteraria, Torino, 1998

 

di Tiziano Salari

 

 

L’articolo è stato precedentemente pubblicato come capitolo 7 del libro "Il grande nulla. Percorsi tra Otto e Novecento", L’Avventura Letteraria, Torino, 1998.
 

Dino Campana a confronto con Giacomo Leopardi e con Charles Baudelaire in un contributo inedito su internet, per gentile concessione di Tiziano Salari, autore di "Sotto il vulcano". Studi su Leopardi e altro, Rubbettino, Catanzaro, 2006.


 

Le due poesie di Dino Campana che analizzerò nelle pagine seguenti non fanno parte dei Canti Orfici, ma del Quaderno, (Dino Campana, Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1973) pieno da un capo all’altro di poesie, rinvenuto in una vecchia cassa della casa di Marradi, e di datazione incerta.

Sono i versi più emblematici nel delineare le due facce complementari dell’eros che circola nei Canti Orfici.

Provvisoriamente potremmo definire la prima poesia (Furibondo, 2° tomo, p. 316), espressione della Venere terrestre (o ferrigna) e la seconda (Une femme qui passe, ivi, p. 328) una pura espressione della Venere celeste. Ma in realtà quello che mi sforzerò di dimostrare è la loro convergenza nel misticismo erotico campaniano. Le due poesie inoltre saranno messe a confronto con due grandi testi della poesia lirica moderna: Furibondo con l’lnfinito di Giacomo Leopardi, Une femme qui passe con l’altrettanto celebre "A une passante di Charles Baudelaire".

 

Furibondo

Abbracciata io l’aveva.
Mentre affannoso delle cieche ebbrezze
Sul limitare cieco brancolavo
E accelerati colpi replicavo
Sopra la porta di eterne dolcezze:
All’improvviso sopra la mia schiena
S’alzò e ricadde martellando sordo
E ritmico il suo piede. Fu il ricordo
Dell’attimo fuggente, nella piena
Fantastica l’appello della morte.
Ardendo disperatamente allora
Raddoppiai le mie forze a quell’appello
Fatidico e ansimando la dimora
Varcai del nulla e dell’ebbrezza, fiero
Penetrai, nel fervore alta la fronte
Impugnando la gola della donna
Vittorioso nel mistico maniero
Nella mia patria antica nel gran nulla.

 

Abbracciata io l’aveva

Non sappiamo chi sia la donna ispiratrice. È un corpo forse anonimo, forse venale. “Venne la Notte e fu compita la conquista dell’ancella” (Canti Orfici, La notte, in op. cit., tomo 1°, p. 8). È la ripetizione di una situazione tipica, con la quale si concludono i notturni vagabondaggi di Campana che, secondo Contini, “per un triviale-patetico sbaglio” finivano per cercare la Chimera in un bordello, “all’ombra del noioso schema trino” (G. Contini. Due poeti vociani: Il Campana, in Esercizi di lettura, p. 26), dato che ogni incontro era preceduto dalla mediazione della Ruffiana.

In Furibondo è saltata ogni mediazione, siamo all’atto sessuale, non più proiettato sullo sfondo mitico e favoloso del ricordo, ma rivissuto come atto in sé. Ogni atto sessuale, ogni possesso di donna, ogni conquista di ancella è racchiusa in quella premessa. Abbracciata io l’aveva. Un corpo. Un corpo qualsiasi e ogni volta l’assoluto dei corpi.

L’abbraccio illude con la presenza dell’altro. Della corposa realtà dell’altro. Della carne, della certezza. L’abbraccio mette un punto fermo al vagare. Temporaneamente il desiderio trova un compimento. Abbracciata io l’aveva: la sintesi di ogni abbraccio. Il pieno della presenza. L’abbracciata precede l’io che abbraccia. Lo accoglie passivamente in sé.

Mentre affannoso delle cieche ebbrezze
Sul limitare cieco brancolavo

La cecità è ripetuta due volte. Il desiderio (l’ebbrezza, la lussuria) è cieca, nel suo essere oscura brama, cieca pulsione primordiale. E l’io, che l’asseconda (o meglio, ne è posseduto) è altrettanto cieco. L’io non è più altro che pulsione sanguigna, quella che Rilke chiama, nella terza Elegia, il Nettuno del sangue, des Blutes Neptun (R.M. Rilke, Elegie duinesi, traduzione e commento di Franco Rella, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 55) e Saba antica brama infitta nel cuore dell’uomo (U. Saba, La brama, in Il canzoniere, Torino. Einaudi, 1961. p. 308).

Mentre affannoso. All’atto d’amore si accompagna un’accelerazione del battito cardiaco, non una coloritura fisiologica del mito (Contini cit.), ma un affluire, nel fiume stesso del sangue, delle memorie della specie, della sola ananke che esista: il corpo nel suo turgore fallico asservito al Signore del Piacere (Rilke cit.).

Abbracciata io l’aveva.
Mentre affannoso delle cieche ebbrezze
Sul limitare cieco brancolavo
E accelerati colpi replicavo
Sopra la porta di eterne dolcezze

Campana cerca di rivivere poeticamente dall’interno il mistero dell’atto carnale, sondarlo nella sua oscura profondità. Se, come scrive Céline, “l’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini” (Céline, Viaggio al termine della notte, traduzione e note di Ernesto Ferrero, Milano, Corbaccio, 1992, p. 14) è appunto in questo abbassamento, in questa regressione animale, che si racchiude il nocciolo di ogni spiritualizzazione dell’amore, di ogni processo di sublimazione.

C’è una tremenda serietà in questo brancolare affannoso su un corpo di donna, come se da esso possano venire, insieme al piacere, illuminazione e conoscenza. Un corpo probabilmente chiuso, probabilmente vergine, se oppone resistenza alla penetrazione (e accelerati colpi replicavo).

Attraverso la cieca ebbrezza dei sensi, il poeta è giunto sul limitare di un mistero. Il mistero è una vulva (porta di eterne dolcezze) che deve accoglierlo. Se la vista ci dà conoscenza più di tutti gli altri sensi, e anzi è (secondo Aristotele) la forma stessa della conoscenza (Metafisica, libro I), la cecità preclude la conoscenza. La donna non è un corpo da vedere ma da penetrare.

C’è, in questo abbraccio, in questo affannarsi cieco sopra un corpo di donna, la sparizione stessa della donna, o meglio il suo restringersi a soglia davanti alla quale si indugia, prima di smarrirsi nell’infinito di una regione non mappata. C’è la chiusura di un orizzonte.

Come la siepe leopardiana occlude la vista dell’aperto, dell’ultimo orizzonte, qui è il limitare di una vagina. Il poeta sosta al di qua della “porta di eterne dolcezze” come il poeta dell’Infinito al di qua della siepe. Gli interminati spazi e i sovrumani silenzi di là dalla siepe, che il poeta si finge nel pensiero, non sono forse altro che la sublimazione estrema di quella porta di eterne dolcezze.

All’improvviso sopra la mia schiena
S’alzò e ricadde martellando sordo
E ritmico il suo piede.
(Furibondo)

E come il vento - odo stormir tra queste piante
(L’Infinito)

Vorrei richiamare l’attenzione su questo passaggio, che è a mio parere analogo nelle due liriche. Di fronte al divieto dell’oltre-vista chiusa dalla siepe nell’Infinito, oltrepassamento interdetto dall’imene in Furibondo, avviene un qualcosa - lo stormire del vento in Leopardi, il battito ritmico del piede sulla schiena in Campana - che provoca la crisi, la tangenza del presente con l’eternità.

Fu il ricordo
Dell’attimo fuggente, nella piena
Fantastica l’appello della morte
(Furibondo)

Io quello infinito silenzio a questa voce
Vo comparando
(L’Infinito)

Non sembri inopportuno l’accostamento tra l’Infinito, uno dei più grandi testi della poesia moderna, e Furibondo, un testo minore della poesia di Campana, a sua volta un poeta sul quale i critici non sono ancora pervenuti a una valutazione unanime. Il naufragio nell’infinito può essere immaginato al di là della siepe, o ricercato nel corpo di una donna.

Lo stormire del vento, che richiama al tempo presente, e fa rifluire la mente dal presente all’eternità, e dall’eternità al “suono” dell’ora che si sta svolgendo, quale platonica immagine dell’eterno, non è dissimile dal piede della donna che batte ritmicamente sulla schiena a ricordare “l’attimo fuggente”, “nella piena fantastica” di un rapporto sessuale, dilatando disperatamente la tensione come se al colmo del piacere fosse rinchiuso il nocciolo stesso della morte.

 

Ecco come un poeta contemporaneo, Ottavio Paz, nella Duplice Fiamma (Milano, Garzanti, 1994, riprodotta parzialmente in Le opere, Torino, Utet, 1995, pp. 465-481), esprime la stessa percezione d’infinito in un rapporto amoroso.

“L’incontro erotico comincia con la visione del corpo desiderato. Nudo o vestito, il corpo è una presenza: una forma che, per un attimo, è tutte le forme del mondo. Non appena abbracciamo quella forma, non la percepiamo più come presenza, e l’afferriamo come una materia concreta, palpabile, che entra giusta tra le nostre braccia e che, nondimeno, è illimitata.

Abbracciando quella presenza, smettiamo di guardarla ed essa non è più presenza. Dispersione del corpo desiderato: vediamo solo due occhi che ci guardano, una gola illuminata dalla luce di una lampada e che subito torna alla notte, il luccicore di una coscia, l’ombra che scende dall’ombelico al sesso. Ciascuno di questi frammenti è vivo in sé ma allude alla totalità del corpo. Quel corpo che, d’un tratto, diviene infinito.

Il corpo della mia compagna smette di essere una forma e si converte in una sostanza informe e immensa, nella quale, nello stesso tempo, mi perdo e mi ritrovo. Ci perdiamo come persone e ci ritroviamo come sensazioni. Man mano che la sensazione diviene più intensa, il corpo che abbracciamo si fa sempre più immenso. Sensazione d’infinitudine: perdiamo corpo in quel corpo. L’abbraccio carnale è perdita del corpo.

È altresì l’esperienza della perdita d’identità, dispersione delle forme in mille sensazioni e visioni, caduta in una sostanza oceanica, dissoluzione dell’essenza. Non c’è forma né presenza: c’è l’onda che ci culla, la cavalcata per le pianure della notte.

Esperienza circolare: inizia con l’abolizione del corpo della compagna trasformato in una sostanza infinita che palpita, si dilata, si contrae e ci rinchiude nelle acque primordiali; un attimo dopo, la sostanza svanisce, il corpo torna ad essere corpo e ricompare la presenza. Possiamo soltanto sentire la donna amata come una forma che occulta un’alterità irriducibile o come una sostanza che si annulla e ci annulla".

Sensazione d’infinitudine, esperienza circolare, alterità irriducibile dell’altro corpo. È lo stesso processo che, in forma più stravolta, tenta di dirci (forse balbettarci) Campana in Furibondo, con una preveggenza psicoanalitica che coglie in profondità il senso dell’esperienza erotica.

Ardendo disperatarnente allora
Raddoppiai le mie forze a quell’appello
Fatidico [...]

L’appello fatidico richiama al senso di finitudine dell’essere per la morte. Il corpo della compagna, prima di ricadere nella sua “alterità irriducibile”, risponde con quel battito ritmico del piede sulla schiena del compagno, quale possibilità di pienezza, di fusione, di eternità dentro l’attimo fuggitivo.

[...] e ansimando la dimora
Varcai del nulla e dell’ebbrezza, fiero
Penetrai, nel fervore alta la fronte
Impugnando la gola della donna
Vittorioso nel mistico maniero
Nella mia patria antica nel gran nulla.

Se il laico e sensista Leopardi si lascia naufragare nell’infinito dolcemente, fino a confondersi col nulla (e dopo l’empito dell’ispirazione poetica proseguire nello Zibaldone la riflessione, in un commentario interminabile, sul rapporto infinito-piacere-nulla), il nietzschiano Campana brucia, per così dire, nella copula, mai così seriamente e affermativamente vissuta ed espressa come in questi versi, la possibilità di un ritorno a una fonte di conoscenza che non sia l’estinzione nel “gran nulla” della patria antica.

Se esaminiamo la lirica di Campana alla luce della psicoanalisi, sia di matrice freudiana che junghiana, essa ci appare come un commento perfetto alla tesi che il coito, ogni coito, è un tentativo, dapprima brancolante e poi sempre più nettamente orientato e infine parzialmente riuscito, dell’Ego di ritornare nel corpo materno, situazione in cui la rottura, così penosa per l’essere vivente, tra l’Ego e l’ambiente esterno non si è ancora veriticata” (Ferenczi, Thalassa, Roma, Astrolabio, 1965, p. 37).

Ma il ritorno di Campana nella patria antica, nel grande nulla, è anche qualcosa di diverso da questa regressione thalassale in cui ontogenesi e filogenesi si fondono nel destino biologico della specie. Il suo nulla, il suo infinito, sono meno fisiologici di quanto alcuni critici abbiano ritenuto. Il “mistico maniero” è qualcosa di diverso e di più del ritorno edipico ed incestuoso, attraverso il corpo della vergine, nel corpo materno, o alle origini marine della vita.

 

È, per così dire, quella di Campana, espressa nella sua essenzialità in questa lirica, che viene a costituire il nocciolo più interno ed essenziale della sua ricerca poetica ed esistenziale, una via carnale allo spirito. La noche oscura del misticismo, illuminata dallo splendore del nulla che è lo stesso amore divino, nello spogliarsi di ogni residuo legato all’io psicologico e alla carnalità, raggiunge attraverso l’ascesi, lo stesso nulla che è al fondo della notte campaniana della carne.

Ma questo nulla che illude con la stessa pienezza “dell’Anima liquefatta dal puro Amore” divino (Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1994, p. 157), appaga l’anima che ritrova se stessa nello spirito, e si accende e si estingue a misura che si accende e si estingue la fiamma del desiderio.

“Ogni peccato attira un castigo: tornando dal rapimento, ci troviamo come prima davanti a un corpo e a un’anima di nuovo estranei. Allora nasce la domanda rituale: a cosa pensi? E la risposta: a nulla. Parole che si ripetono in interminabili gallerie di echi” (Ottavio Paz, op. cit.).

E tuttavia il nulla di Campana è anche diverso da questo stordimento, da questa leggera ottusità, da questo appagamento dei sensi, da questo non pensare che fa seguito a ogni atto d’amore.
E non è neppure lo scacco, sempre rinnovato, lungo una via crucis le cui stazioni sono scandite nei Canti Orfici, di una sessualità che si esalta rivivendo una squallida realtà trasfigurata dal mito.


La visione dionisiaca del mondo, che Campana ha assimilato da Nietzsche, e che consiste nel dire sì alla vita in tutte le sue manifestazioni, si è fusa, in lui, con un senso cristiano e creaturale del sacro, rivissuto quale nostalgia della poesia di Dante e dei paesaggi dell’antica pittura. Ma per Campana il cielo non è “deturpato dall’ombra di Nessun Dio” (Pampa, in Canti Orfici, cit., p. 71).

E anche se Nessun Dio si è fatto carne, nulla donna, per avvicinarci a Lui, il possesso della prostituta-vergine (ma si può ancora chiamare possesso una via iniziatica al nulla?) rimane per Campana un’esperienza del numinoso, come ha scritto Adriano Tilgher per l’lnfinito leopardiano, “nel senso peculiare che Otto dà a questa parola: l’esperienza di un ineffabile che è oltre il piano ordinario della vita e che attrae e impaura, affascina e inorridisce, invita e respinge insieme, esperienza di una realtà che è oltre la superficie dell’empiria e in opposizione a questa profana si può chiamare sacra; esperienza non religiosa (mancando qui ogni personificazione mitica) ma numinosa” (Adriano Tilgher, Esperienze numinose in La filosofia di Leopardi, cit., p. 173).

Se dimentichiamo che gli scenari dei Canti Orfici nascono da questo Gran Nulla sempre ritrovato ad ogni penetrazione nel “mistico maniero”, e che da qui sgorga quel carattere estatico nel quale consiste la peculiarità della poesia campaniana, sfugge il senso complessivo di un sapere, di una vita che, a mio parere, possono trovare un parallelo nel concetto di dépense di Georges Bataille e della sua concezione dell’erotismo.

Dell’erotismo campaniano si può dire, come dell’erotismo in genere per Bataille, che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte, fino, più che a una similitudine, a una identificazione tra effusione erotica e misticismo.

In Furibondo si realizza lo stesso percorso che Bataille ha delineato per il suo libretto scandaloso, scritto con lo pseudonimo di Pierre Angelique, Madame Edwarda.

“Al termine di questa patetica riflessione che, in un grido, annulla se stessa, ritroviamo Dio. È questo il significato, è questa l’enormità di questo libretto insensato: questo racconto mette in gioco Dio stesso, nella pienezza dei suoi attributi; e questo Dio nondimeno è una donnaccia di malaffare del tutto simile alle altre. Ma ciò che il misticismo non ha potuto dire (dal momento di dirlo veniva meno). lo dice l’erotismo: Dio non è nulla, se non è superamento di Dio in tutti i sensi: nel senso dello essere volgare, non quello dell’orrore e dell’impurità; infine, nel senso del Nulla... (G. Bataille, Madame Edwarda in "Tutti i romanzi", Torino, Boringhieri, 1992, p. 156).

 

La seconda lirica, anch’essa esterna al corpo compatto degli Orfici, è di datazione incerta, Une femme qui passe, pur rivelando una certa goffaggine metrica, è importante nel delineare l’aspetto complementare dell’eros campaniano, anch’esso presente nei Canti a lato dell’amore carnale, e che potremmo definire vuota aspirazione alla purezza, o slancio platonico, stilnovistico o francescano che si spezza inibito o impotente a raggiungere l’idea o l’immagine di cui si dovrebbe nutrire per acquietarsi in qualche forma di appagamento spirituale.

È una via questa, per Campana, bloccata alla radice e che genera, per contraccolpo, la via carnale allo spirito. Fin dal titolo, si avverte sullo sfondo la presenza ispiratrice della lirica di Baudelaire "A une passante", in modo molto più diretto di quello che ho ipotizzato per "Furibondo" richiamando l’lnfinito leopardiano. Ma le varianti sono altrettanto e più importanti delle affinità, e a partire dallo stesso titolo.

A "une passante" è dedicata la lirica baudelairiana. Il poeta si rivolge a una sconosciuta incontrata in mezzo alla folla, ma ben individuata, e riconosciuta come un’interlocutrice del messaggio. "Une femme qui passe" è il titolo di Campana. Non è la stessa cosa. Il poeta non si rivolge familiarmente alla passante. La sua donna è più impersonale. Campana non si rivolge "A une femme qui passe", ma intorno a "Une femme qui passe" intesse la sua sognante meditazione.

Une femme qui passe

Andava. La vita s’apriva
Agli occhi profondi e sereni?
Andava lasciando un mistero
Di sogni avverati ch’è folle sognare per noi
Solenne ed assorto il ritmo del passo
Scandeva il suo sogno
Solenne ritmico assorto
Passò. Di tra il chiasso
Di carri balzanti e tonanti serena è sparita
Il cuore or la segue per una via infinita
Per dove da canto a l’amore fiorisce l’idea.
Ma pallido cerchia la vita un lontano orizzonte.

Il poeta sosta in contemplazione di una donna che cammina, raccolta in se stessa, in una via cittadina, e si perde a fantasticare quale mistero di sogni avverati si nasconda dietro quel passo solenne ed assorto della sconosciuta.

Diversamente che la passante di Baudelaire “longue, mince, en grand deuil, douleur majesteuse”, la passante di Campana guarda serenamente di fronte a sé. Non è pallida, nervosa, irrequieta come la parisienne che emerge dalla folla e incrocia lo sguardo del poeta.

Campana non incrocia lo sguardo della sua passante. Non vi è contatto, riconoscimento, estasi, “amore non tanto primo quanto all’ultimo sguardo”, choc (Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. cit., p. 101), come nel sonetto di Baudelaire.

Un éclair... puis la nuit! Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître.
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?
Ailleurs. Bien loin d’ici! Trop tard! Jamais peut-être
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

Non è folle, per Baudelaire, sognare una felicità con la bella sconosciuta. Per Campana sì.

Andava lasciando un mistero
Di sogni avverati ch’è folle sognare per noi.

Per Baudelaire gli sguardi si sono, sia pure per un istante, incontrati. In quell’incontro di sguardi è avvenuto un mutuo riconoscimento e il poeta si è sentito rinascere, ha bevuto in quegli occhi “la douceur qui fascine et le plaisir qui tue”, una possibile salvezza. In Campana non c’è sguardo, non c’è riconoscimento.

La donna è assorta in se stessa, colma di sogni già avverati. Lo sguardo vivificante della donna, da Dante a Baudelaire, da Beatrice alla Passante, è negato al giovane Faust di Marradi. È negata la fusione dell’anima e della carne, dell’amore e dell’idea.

II cuore segue la sconosciuta che, come la passante di Baudelaire nella “rue assourdissante”, scompare Serena “di tra il chiasso di carri balzanti e tonanti”, la segue per una via immaginaria e infinita di platonica identificazione tra realtà e idea, di cui forse l’anonima è portatrice, ma da cui il poeta si sente escluso.

Non è la donna della canzone leopardiana (Alla sua Donna), una delle eterne idee che sussiste come possibilità nella mente ma disdegna di incarnarsi, non è lo choc baudelairiano di un incontro amoroso bruciato “non tanto al primo quanto all’ultimo sguardo”: due, a loro modo, certezze di compimento, nella loro impossibilità.

“Ma pallido cerchia la vita un lontano orizzonte”.

Esclusione, rinuncia, rassegnazione. Il platonismo campaniano è troncato sul nascere. Montalianamente, fuggire “l’idea che non s’incarna” non è, per Campana, una scelta. Non vorremmo tirare in ballo, qui, la biografia: il catastrofico incontro con Sibilla Aleramo che, qualche anno dopo, provocherà il definitivo crollo psicologico del poeta. Restiamo nella zona degli Orfici, della poesia, della salute.

La chiusura dell’orizzonte a un rapporto d’amore di reciprocità (“per dove da canto all’amore fiorisce l’idea”), non blocca, anzi favorisce l’apertura sensuale e affermativa, in senso nietzschiano, al mondo. Al privilegiamento dell’altra via conoscitiva che passa attraverso il “mistico maniero” della vergine e della prostituta, della prostituta-vergine.

 



Prospectus campaniano

1. L’amore per Campana non è conoscenza, come per la tradizione cortese o neo-platonica. L’amore è smarrimento, naufragio, perdita di sé. Porta di eterne dolcezze. Piacere. Ma insieme nulla. Ritorno al nulla.

2. Il “mistico maniero” è l’orizzonte pronto per l’annientamento. Non c’è ironia e non c’è sentimentalismo in Campana. Non c’è neppure compiacimento descrittivo, pornografia. Nella copula si reduplica specularmente con una meta certa (il nulla) l’errare indefinito nell’orizzonte sconfinato del paesaggio d’arte italiano o della pampa non protetto o illuminato dalla luce di nessun dio.

3. Il corpo della donna, in Furibondo, rivela difficoltà di penetrazione, potrebbe essere il corpo di una vergine. La patria antica è l’antico ventre materno avvolgente al quale si ritorna nel coito. Il corpo di Furibondo è anche il grembo incestuoso della madre ritrovata.

L’appello del corpo (il battito ritmico del piede della donna sulla schiena dell’uomo durante il coito) non è un richiamo di generazione e di fertilità, ma di morte. Eros e Thanatos. Amori sterili. Lunga teoria degli amori sterili chiama Campana gli amori della Ruffiana.

4. Metafisica dell’amore. Metafisica del paesaggio italiano, come in De Chirico.

5. Interiorizzazione della copula. Il coito osservato dall’interno. Il godimento come ricerca del dolce naufragio. Il mare dell’infinito leopardiano concentrato in una vulva. Il coito descritto esteriormente, nella sua meccanica, è pornografia.

6. Mistico maniero. Patria antica. Grande Madre. Morte.

7. La razionalità (la mostruosa ragione) è soppressa. Il coito è totale abbandono. Da dove viene e dove va. Dal nulla al nulla. Fuori dal tempo. Il nulla è per definizione fuori dalla successione temporale.

8. Campana non usa mai termini allusivi per definire l’atto sessuale. E neppure ironica distanza. Curiosità, stupore, ecc. sono gli atteggiamenti di fronte alla Lussuria (il cui lato di povertà, aridità, emarginazione sociale, vuoto, non è mai visto come negativo).
È un approccio ansioso ma non colpevole. La cecità travolge anche il senso di colpa.
Saltano le inibizioni, in Campana non ci sono inibizioni (se non, forse, linguistiche).
Parallelo con Sbarbaro, che esce da ogni atto di Lussuria svuotato e colpevolizzato.

9. La nostalgia dell’assoluto, della patria perduta, accende la sensualità. Ma la ricerca appare cieca, guidata (sorretta) da impulsi altrettanto ciechi e inafferrabili. Misterioso circolo della vita e della morte. Il nulla è l’approdo di ogni misticismo, anche di quello sessuale.

Il massimo della vicinanza proietta nel massimo della distanza.
Non dobbiamo mai dimenticare che le circostanze degli incontri sono miserabili (bordello, sera di fiera, carceri, manicomi ecc.), ma che la trasfigurazione poetica fa diventare questi luoghi degli assoluti.
Nichilismo campaniano. Entusiasmo campaniano. Mescolanza.

10. Lo spirito viene raggiunto attraverso la carne. E questo spirito si trasfonde nel nulla, è nulla. Il corpo dell’amata non è una via alla salvezza. L’eterno femminino non porta verso l’alto.
Nell’amore i copulanti si fondono nell’Uno, ma questo Uno è il nulla.
Ma questo nulla è comunque una conquista, lo spirito raggiunto attraverso la carne.
Non è un caso che la figura dell’androgino abbia dominato per un certo periodo la fantasia di Campana. Nel bacio, nell’amplesso ci si incontra con se stessi.
Sempre.
Non esiste l’oggetto d’amore che sia anche soggetto.
Eppure nell’atto d’amore avviene uno scambio.
La condivisione del piacere è il richiamo (l’appello) della morte nella piena fantastica dell’amore. Vita e morte.
La vita che nella sua pienezza è morte.

11. Il possesso (ma si può ancora chiamare possesso una via iniziatica al nulla?) avviene al termine della notte. Della “notte oscura”.
Attraverso la donna Dio si è fatto carne per avvicinarci a Lui?
È possibile anche questa interpretazione. Campana non è forse anche il poeta degli ermetici?

12. Campana non è mai osceno, neppure quando si rivolge alla troia dagli occhi ferrigni.
Il sesso femminile è caratterizzato con parole poeticissime. Porta di eterne dolcezze. Mistico maniero. Patria. Nulla.
Abbattimento della distanza. Da qui il fatto che l’amore può essere soltanto venale, sdoppiato tra la prostituta e la passante (Une femme qui passe) irraggiungibile.

13. O. Paz, La duplice fiamma. “...il platonismo è l’opposto della visione cristiana: l’eros platonico cerca la disincarnazione, mentre il misticismo cristiano è soprattutto amore per l’incarnazione...
Il rovescio dell’eros platonico è il tantrismo, nei suoi due grandi rami: quello indù e quello buddista. Per l’adepto dei tantra, il corpo non manifesta l’essenza: è un cammino d’iniziazione. Più oltre non c’è l’essenza, che per Platone era un oggetto di contemplazione e di partecipazione: alla fine dell’esperienza erotica l’adepto raggiunge, se buddista, la vacuità, uno stato in cui il nulla e l’essere sono identici; se indù, uno stato simile, ma nel quale l’elemento determinante non è il nulla, ma l’essere...
Quantunque sia un rito spiccatamente carnale, l’erotismo tantrico è un’esperienza di disincarnazione”.
Per il buddista, come per Campana...

14. Ferenczi, Thalassa. “Il desiderio di Edipo è l’espressione psichica di una tendenza biologica assai più generale che spinge gli esseri viventi alla stato di calma di cui godevano prima della nascita”. La donna di Furibondo è una vergine. “I primi tentativi di coito non sono che violazioni cruente” (Ferenczi). Anche in Furibondo la penetrazione sembra una violazione cruenta. Impugnando la gola della donna... “Il coito è anche una ripetizione a livello individuale della lotta dei sessi” (lo stesso).

Regressione thalassale. Per Ferenczi è l’idea di un desiderio di ritorno verso l’oceano abbandonato in tempi antichi. Il coito tenta di ristabilire l’esistenza acquatica all’interno della madre per mezzo del pene. La madre è in realtà il simbolo dell’oceano. E il coito, nella sua essenza, non è altro che la liberazione dell’individuo da una tensione penosa e, simultaneamente, la soddisfazione dell’istinto di ritorno alla madre e all’oceano, antenato di tutte madri. Grande madre. Grande nulla. II nulla. “Lo stato della coppia è caratterizzato, durante l’orgasmo e dopo, da un considerevole restringimento o anche da una completa abolizione della coscienza” (lo stesso).

15. Campana è un poeta difficile. Per poter entrare nel mondo visionario di Campana occorre un’iniziazione al misticismo. Se il testo poetico è un organismo che produce silenzi (O. Paz), grande è il silenzio che si apre quando finisce un testo di Campana.

 



Tiziano Salari vanta una ricca produzione si saggi e di raccolte poetiche. Tra le monografie critiche vanno almeno segnalate:

Il grande nulla. Percorsi tra Ottocento e Novecento, Prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti (Torino, 1998);

Le asine di Saul (Verona, 2002);

Il grido del vetraio, in collaborazione con Mario Fresa e con un saggio di Flavio Ermini (Salerno, 2005).

 

Tra le raccolte poetiche più significative vanno ricordate:

Alle sorgenti della Manche, Prefazione di Giorgio Luzi (Torino, 1995);

Il pellegrino babelico, Prefazione di Giuliano Gramigna (Verona, 2001).