Maria Corti
MA COSA E' MAI LA CRITICA AL FEMMINILE?
di Maria Corti
da: La Repubblica, 31 maggio 1997
Il non letterato si stupisce del posto che la critica letteraria occupa nella cultura e soprattutto del fatto che agli scolari si insegni che la critica illumina le opere letterarie. Il non letterato si intende di economia, di geografia, di ecologia e prende la critica per un insieme di chiacchiere.
Noi letterati invece leviamo il bicchiere alla critica o meglio ai vari indirizzi della critica che esistono simultaneamente nella repubblica delle Lettere italiana, anche se uno di essi arriva a prendere per un po' la Presidenza; la prese la critica crociana, poi succedettero alla guida della repubblica delle Lettere la stilistica, lo strutturalismo, la semiotica.
Come dire che non esistono Presidenze a vita nella letteratura come nella politica. Oggi il nuovo libro di Alberto Asor Rosa, Genus italicum, Saggi sull'identità letteraria italiana nel corso del tempo (Einaudi, pagg. 810, lire 54.000) si apre con una Introduzione, La nuova critica, nata, tenuta a battesimo e definita dalla lunga e feconda esperienza di Asor Rosa da direttore e contemporaneamente collaboratore della einaudiana La letteratura italiana.
Le opere, collana i cui importanti saggi di Asor Rosa sono passati al nuovo volume. Se si pone per la "nuova critica" un problema di Presidenza, potremmo definirla costituzionale e temperata, in quanto alcuni suoi principi di base risalgono a un po' prima del presente e assommano positive condizioni di esistenza, compresa una manifesta fiducia di Asor Rosa nel "valore mediatorio, intermediario e inevitabilmente maieutico della critica letteraria, e ciò in almeno due sensi".
I quali sono il compito di giunzione tra passato e presente, tra presente e futuro e l'altro fra letteratura e pubblico. Dove il discorso dell' autore ci lascia un po' perplessi è nella definizione della cultura letteraria italiana come "provincializzata" all'interno e priva di modelli esterni. Tale discorso andrebbe a pennello se riferito a una parte degli italianisti, ma non convince più se vi aggiungiamo gli storici della lingua italiana, i filologi romanzi, i comparativisti.
Qui il fervore euristico è manifestamente forte e così la rete di corrispondenze, per esempio, negli studi sulla narrativa sia a proposito della modernissima evoluzione della teoria dei "mondi possibili" sia del rapporto fra immaginario e fantastico (Dolezel, i logici formali, Pavel ecc.).
Alcune delle pagine più acute dell' Introduzione riguardano la fase generativa e le intermedie di un' opera, in ripresa di quanto il critico ha esposto nel saggio sui Canti orfici di Dino Campana, qui riedito. Orbene, Asor Rosa, allorché vuole dare conto di un "senso" annunciato nella genesi creativa dell' opera prima e dispiegantesi in quella che egli chiama l' opera seconda e, per essere più chiaro, giunge a vedere in tali fasi di costruzione dell' opera un possibile influsso interdisciplinare con la scuola archeologica, ci domandiamo se egli non stia approfondendo proprio quello che una pattuglia di studiosi italiani e francesi a sua volta negli ultimi anni approfondisce attorno alla nozione di avantesto o fase generativa del testo.
Citiamo al proposito: "Il significato finale dell' opera è il frutto di progressive intermediazioni, i cui percorsi rappresentano a lungo possibilità di opere notevolmente diverse e perfino alternative rispetto a quella finale (né il punto d'arrivo è stabilito in partenza). C'è persino chi fra i nostri autori, come Dino Campana, sperimentalmente ci mostra come l'opera alla fine avrebbe potuto essere effettivamente diversa come poi è stata". Perché allora affiancare a questa chiaroveggenza la nozione di cultura provincializzata?
Ma non si può compendiare nello spazio di un articolo un libro di ottocentodieci pagine; l' autore ci scusi se di necessità ci si ferma su generali punti di vista, che sono per fortuna anche quelli che consentono un proficuo dialogo, indispensabile fra studiosi. Merita rilievo, perché ha un preciso valore teorico, la preferenza assegnata al vocabolo opera rispetto al tradizionale testo. Vi è un intero capitolo dal titolo Il canone delle opere a spiegarne le ragioni. Asor Rosa parte da lontano, ricollegando il valore semantico del vocabolo "critica" alla trattazione filosofica di Kant e di conseguenza alla duplicità di operazioni della critica, analisi di un oggetto e insieme analisi di se stessa e dei propri metodi.
E' solo a questo punto che si può indagare o meglio individuare l'oggetto della critica letteraria. Il nostro autore opta per il vocabolo opera che gli consente di caricare la nozione di testo di una sovradeterminazione di individualità e di identità, che permettono a loro volta di meglio contestualizzare storicamente l' oggetto.
In testo per Asor Rosa prevale la caratterizzazione linguistica, mentre in opera domina la nozione fabbrile, creativa e un' idea di progettualità. Inoltre tale nozione implicita in opera si collega a un modo di percepire il "classico" dal punto di vista di un "canone dei classici", che è punto di vista letterario, e da quello antropologico di un "gène nazionale".
Questa ultima nozione di "gène" ci riporta subito al titolo del volume, Genus italicum, che non vuole assumere un valore astratto di identità nazionale, bensì aspira a dare significato alla connotazione di "italiana" o "italica" conferita alla nostra gente e alla letteratura. I saggi del volume nelle intenzioni del loro autore tendono a illustrare anche questo: "Capire in che senso le opere studiate si potessero dire italiane, quale significato si potesse attribuire ad una connotazione italiana (o italica, come io preferisco dire e scrivere in un caso del genere)".
L' autore postilla che l'italico, di cui lui parla, si forma e si manifesta piuttosto a livello di "sostrato" che di identità nazionale. Sarebbe offendere l' intuizione del critico dare a sostrato un preciso significato linguistico (come mettere insieme i celti e i messapi, i liguri e i sicani per giungere al genus italicum?).
Asor Rosa fa del vocabolo linguistico un uso analogico e per così dire metaforico, che gli consente di inserirvi il goriziano ed ebreo Michelstaedter, di origine orientale. C' è come una strategia culturale, uno scrollare l'albero di cocco degli antichi in un momento storico in cui ci sentiamo profondamente federalisti. L' autore professa apertamente la sua posizione di intellettuale italiano con una convinzione polemica che sale a carica stilistica contro lo "specialismo asfittico".
Vorrei chiudere con una piccola richiesta di schiarimento all' amico Asor Rosa proprio in quanto teorico e storico della critica. Ho sentito tanto parlare in passato di "scrittura al femminile" e ho sempre risposto, con Madame de Stael, che il cervello non ha sesso.
Ma ora leggo nel volume in questione una formula nuova: "critica letteraria al femminile". Oh buon Dio, cosa vuol dire? L'ultimo dono alla cultura del caparbio e miope maschilismo italiano? O forse è più difficile nel lavoro intellettuale vivere con quelli che ne fanno parte, che agire contro quelli che ne sono contro?