Ardengo Soffici
Paolo Pianigiani: Due punti di vista
Dino nel dicembre del 1913, si reca presso la sede della rivista “Lacerba”, a Firenze per incontrare i due direttori, Ardengo Soffici e Giovanni Papini, ai quali presenta e affida il manoscritto delle sue poesie dal titolo Il più lungo giorno, sperando in una pubblicazione, almeno di qualche testo, nella rivista. Soffici, ultimo depositario del quaderno, in un trasloco lo smarrisce; verrà ritrovato tra le sue carte solo qualche anno dopo la sua scomparsa, nel 1971.
Il momento del primo incontro - qui descritto proprio da Soffici - corrisponde, dunque, all’inizio della lunga e tormentata vicenda del manoscritto, che conteneva testi che, insieme ad altri, confluiranno nei Canti Orfici. Dopo lo smarrimento del “taccuino”, Campana li riscriverà basandosi su altri manoscritti e li pubblicherà nel 1914 presso la tipografia Ravagli di Marradi.
La testimonianza di Soffici, quasi una cronaca in diretta, è del 1931.
Uno strano individuo
da: Ardengo Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Vallecchi Editore, Firenze 1931, pp. 109-112
Un mattino d’inverno del 1913, io e Papini andavamo alla tipografia Vallecchi in via Nazionale, dove si stampava Lacerba, per dare un’ultima occhiata alla composizione e all’impaginazione - non sempre agevole - della rivista. Prima ancora che fossimo entrati nello sgabuzzino a vetri che faceva da sala di redazione per noi e insieme da ufficio direttoriale dell’amico editore, questi ci venne incontro sin sulla porta e c’indicò un individuo seduto sur un canapè nero di tela cerata, nel corridoio, il quale - ci disse - era poc’anzi venuto e desiderava di parlarci. La persona in parola, che intanto s’era alzata in piedi e ci guardava, era un uomo giovane, di una venticinquina d’anni, tarchiato, con capelli e barba di un biondo acceso, la faccia piena e di color roseo, illuminata da un paio d’occhi celesti, che esprimevano a un tempo sincerità e timidezza come quelli di certi bambini o di gente campagnuola, cui quella di città mette in soggezione.
Nell’insieme la sua figura somigliava curiosamente a taluni ritratti di Rubens, specie a uno che esiste nel museo di Napoli e del quale mi ricordai in quell’istante; ma ciò che maggiormente colpì non solo me ma anche l’amico mio, fu il resto di quello sconosciuto, e cioè com’egli era vestito. Privo di un qualsiasi soprabito che lo riparasse dal gran freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava un pentolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola, simile a quelle fatte in casa che portavano i contadini e i pecorai di mezzo secolo fa, i piedi diguazzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambe ercoline sventolavano i gambuli di certi pantaloni troppo corti per lui e d’un tessuto incredibilmente leggero, giallastro, a fiorellini azzurri e rosei, uguale in tutto alle mussoline onde si servono i barbieri di paese per i loro accappatoi, e le massaie povere per le tendine delle finestre che danno sulla strada.
Gli domandammo chi fosse e che cosa volesse da noi. Con voce esile e lamentevole, tenendo gli occhi a terra e le mani rosse e gonfie di geloni pendule lungo i fianchi, ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, averne il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista. Lo pregammo di aspettare qualche minuto, di darci il tempo di controllare il lavoro tipografico, chè poi saremmo usciti insieme per parlare con più comodo.Finita la nostra funzione, uscimmo infatti con lui; e giù per via Nazionale, dove la sizza gelata ci tagliava il viso e faceva sventolare quei suoi strani calzoni, poi per via dell’Ariento, riprendemmo e continuammo il nostro discorso. In verità non era possibile giudicare lì su due piedi con che specie di uomo avessi che fare, ma il personaggio c’interessava per più versi, e gli esprimemmo concordi la nostra simpatia e il nostro desiderio di compiacerlo.
Quanto ai suoi scritti, gli dicemmo che ce li facesse avere quando voleva, mentre noi avremmo poi giudicato e risposto se facessero al caso nostro. Campana tirò allora fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compre e vendite, e lo consegnò a Papini.Tirammo avanti fino al Canto dei Nelli, e lì ci fermammo tutti, non avendo altro da dirci. Il freddo terribile ci faceva battere i piedi e lacrimare gli occhi: il nostro nuovo amico tremava come una foglia e si soffiava nelle mani, ridendo nervosamente tra una soffiata e l’altra. All’improvviso ci salutò e sparì di passo lesto verso piazza Madonna.
Così invece ricorda Dino lo stesso episodio:
Lettera di Campana a Emilio Cecchi del marzo 1916,
in “Dino Campana, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931, con documenti inediti e rari",
a cura di Gabriel Cacho Millet,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985, pp. 139-141
Venuto l’inverno andai a Firenze all’Acerba a trovare Papini che conoscevo di nome.
Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava (?) ma era molto molto bene e mi invitò alle giubbe rosse per la sera.
Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo.
Costetti ci ha il mio ritratto d’allora a Firenze. Per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l’avrebbe stampato sull’Acerba. Ma non lo stampò.
Io partii non avendo più soldi (dormivo all’asilo notturno ed era il giorno che loro [Papini e Soffici] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato nelle mani di Soffici.
Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi a riscriverlo a memoria, giurando di vendicarmi se avevo vita.