UN POMPIERE NELLA PAMPA
di
Stefano Giovanardi
Repubblica — 20 agosto 1985
Del mito-Campana, ormai, si è proprio raschiato il fondo. Per molto tempo esso si è alimentato delle forti suggestioni provenienti da una figura di poeta assolutamente eccentrica, dall' aureola "maledetta" con cui è transitato nella storia letteraria del Novecento, dai molti misteri della biografia, e anche dalle non poche falsità che Campana stesso, preda di una follia di cui non è più lecito dubitare, divulgò involontariamente e contraddittoriamente sul suo conto. O forse è stata la poesia dei Canti orfici, così "ingenua" e complessa insieme, e così inquietante nelle sue punte di maggior rarefazione, a far scattare nei lettori una presunzione di eccezionalità, facilmente ribaltabile (e appigli non ne mancavano certo) sulla vita dell' autore. Ce ne è voluto, insomma, per stabilire una verità storicamente attendibile.
Ma ora, grazie al lavoro compiuto da più parti negli ultimi quindici anni, direi proprio che ci siamo. Nel centenario della nascita del poeta, Gabriel Cacho Millet, uno dei più accaniti investigatori di faccende campaniane, ha dato gli ultimi ritocchi a tale verità. In un volume (Dino Campana fuorilegge, Novecento, pagg. 238, lire 30.000) ha raccolto un cospicuo numero di documenti che fanno ulteriore luce sui nodi biografici più controversi; e in un altro (Souvenir d' un pendu, di prossima pubblicazione presso le Edizioni Scientifiche Italiane) ha messo insieme un consistente corpus di lettere, molte delle quali inedite (soprattutto quelle indirizzate a Campana), che vanno dal 1910 al 1931: fino a un anno prima, cioè, della morte del poeta nel manicomio di Castel Pulci. Allora, la verità: possiamo star certi, intanto, che i numerosi e lunghi viaggi, così aggrovigliati e così confusi nelle datazioni da farli ritenere da parecchi mai avvenuti, sono stati più o meno tutti realmente effettuati. Anche quello nell' America del Sud, che era forse il più misterioso e incerto: dal Registro Passaporti del comune di Marradi risulta che il 7 settembre 1907 fu rilasciato a Campana Dino, di professione "scrivano", un visto per Buenos Aires.
E poichè fino al 1909 non esistono tracce di soggiorni in Italia o in Europa del poeta, è lecito supporre che quei due anni li abbia trascorsi girando in lungo e in largo per la Pampa. Tra l' altro, Campana raccontò allo psichiatra Pariani di aver fatto, in Argentina, "il poliziotto, ossia il pompiere": una frase in apparenza delirante, che contribuì a far considerare l' intero viaggio frutto, appunto, di un delirio visionario. Ma Cacho Millet ha potuto appurare che all' inizio del secolo i pompieri venivano impiegati a Buoens Aires anche per mantenere l' ordine pubblico, e che il reclutamento avveniva di preferenza fra i ceti più bassi, senza andare troppo per il sottile. Il povero poeta, dunque, diceva forse la verità... E tuttavia, pur nella ricchezza dei riscontri offerti dal volume documentario, che ricostruisce (con dovizia di verbali, fogli di via e "module" d' internamento in vari ospedali psichiatrici) i complicatissimi spostamenti del girovago esasperato che fu Campana, permane su tutto una fondamentale carenza di senso.
Si può quasi toccare con mano l'impronta devastante della pazzia, soprattutto in quel continuo andare per poi ritornare, quel "fabbricare fare e disfare" assolutamente privo di salvezze simboliche, anzi vissuto in presa diretta, come una condanna. Lo stesso rapporto di Campana con la società letteraria, finora delineato nei termini della "vittima" impietosamente espulsa per il suo essere "irregolare", risulta, dall' epistolario che sta per vedere la luce, più complesso e articolato. E' vero che Papini e Soffici tutto sommato lo snobbarono; ma è anche vero che personaggi come Emilio Cecchi, Mario Novaro, Giovanni Boine, Giuseppe Ravegnani gli manifestarono stima e amicizia incondizionate, spesso mal ricambiate dai rovesci d' umore del poeta, in genere piuttosto violenti.
A parte le minacce a Papini ("verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia ovunque vi troverò"), che dire di questo messaggio - del resto assai noto - inviato nel 1916 a tal Athos Gastone Banti che aveva parlato male di lui sul Telegrafo di Livorno: "Voi siete un grottesco meticcio negro affatto idiota, perciò dicendomi germanico ho voluto darvi una pedata nel culo"?. Le ferite che presumeva gli fossero inferte, Campana tentava disperatamente e affannosamente di restituirle. C' era parecchio parossismo "agonistico" nel suo squilibrio psichico: un porsi in rapporto con la vita sempre sospeso tra la fuga e la rivolta, che Dino riprodusse anche nel breve e tormentatissimo (ed unico) rapporto d' amore con Sibilla Aleramo, l' ultimo sprazzo vitale prima di entrare definitivamente in manicomio, nel 1918. E lì, in qualche modo, si sentì al sicuro. Ancora nel 1931, dopo tredici anni di internamento, scriveva con distacco al fratello Manlio: "La mia vita scorre monotona e tranquilla. Leggo qualche giornale. Non ho più voluto occuparmi di cose letterarie stante la nullità dei successi pratici ottenuti. Il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere".