L'ultimo «maledetto»: Dino Campana

 

da: Giulio Ferroni, Il Novecento, Einaudi Scuola, 1991


 

Disperata figura Del tutto atipica e solitaria fu l'esperienza di DINO CAMPANA, inauguratore mitiia della nuova lirica del Novecento e insieme ultima, disperata incarnazione della figura ottocentesca del «poeta maledetto ». Intorno alla sua biografia e alla sua poesia è nato del resto un vero e proprio mito, che ha avuto particolare risonanza in anni a noi piú vicini: un mito che ripropone, anche se in modi diversi e originali, quello di Rimbaud, il poeta «maledetto» per eccellenza, «scoperto» in Italia proprio all'inizio del secolo  e che lo stesso Campana sentiva vicino. Nato a Marradi (Firenze), presso Faenza, il 20 agosto 1885 da un insegnante elementare, Dino Campana fu preda già dall'adolescenza di violenti turbamenti psichici; mentre studiava chimica a Bologna e a Firenze, compì vari viaggi e vagabondaggi in Italia e all'estero (raggiungendo l'Ucraina e la Francia, e spingendosi fino in Argentina e in Uruguay).

Subì vari internamenti di breve durata in manicomio (a Imola, a Firenze, in Belgio); senza terminare gli studi, entrò in contatto con la «Voce» e con gli ambienti culturali fiorentini e si dedicò, oltre che alla poesia, anche alla pittura. Non trovando una vera sistemazione, continuò a errare per diverse città italiane; nel 1913 consegnò ai direttori di «Lacerba», Soffici e Papini, il manoscritto di un libro di poesie dal titolo Il più lungo giorno: ma esso fu perduto da Soffici e Campana dovette ricostruire a memoria il testo, facendolo stampare a Marradi nel 1914 da Ravagli, col nuovo titolo di Canti orfici, e vendendone poi le copie per le strade e i caffè d'Italia. Cercò di arruolarsi volontario nella grande guerra, ma fu riformato; continuò la sua vita errabonda, e nel 1916 ebbe una drammatica relazione amorosa con Sibilla Aleramo.

Nel gennaio del 1918 il poeta fu internato nel manicomio di Castel Pulci, presso Firenze, dove rimase fino alla morte, avvenuta il I° marzo 1932: nel vortice della follia aveva abbandonato per sempre la poesia. Uno psichiatra che lo interrogò piú volte, Carlo Pariani, raccolse le sue testimonianze in un libro pubblicato nel 1938; intanto, soprattutto gli ermetici, rivolgevano una attenzione nuova alla sua opera e varie edizioni facevano conoscere sue poesie inedite, lettere e altri scritti, fino alla scoperta e alla stampa, nel 1973, del manoscritto originale dei Canti orfici, smarrito da Soffici.

Collegandosi alle posizioni piú radicalmente «negative» della cultura dell'Ottocento europeo (da Baudelaíre a Rimbaud, a Poe, a Nietzsche), Campana cerca di scatenare nella poesia (accompagnando ai componimenti in versi anche vari «poemetti in prosa») una volontà anarchica e distruttiva: mira a sconvolgere gli equilibri della comunicazione borghese e a creare folgorazioni, lampi improvvisi, immersioni nel fondo piú oscuro e rovinoso di una realtà « notturna ». Questa aspirazione si sente con forza particolare nei testi estranei ai Canti orfici, soprattutto quelli apparsi su riviste, raccolti sotto il titolo di Versi sparsi, quelli del Quaderno, che raccoglie materiale scritto tra il 1904 e il 1914, quelli contenuti in taccuini e carte varie (che presentano anche redazioni anteriori di testi confluiti nei Canti orfici).

In un «ardore catastrofico», in cui balenano i lampi della follia, questa poesia vorrebbe far emergere «non canti, grida», risolversi in una sola parola contenente tutta la piú aggressiva dístruttività («Io cerco una parola / una sola parola per: / sputarvi in viso, sfondarvi... una parola — dinamite fetida»). La poesia di Campana raggiunge qui un singolare furore espressionistico, appoggiandosi a immagini violente e accese, a bagliori sinistri, a improvvise alterazioni dei movimenti sintattici, a scatti aggressivi e risoluti, a un uso ossessivo della ripetizione, con effetti stravolti dí circolarità. Questo furore agisce col tramite di un linguaggio e di forme che sono ancora di origine ottocentesca, spesso carducciani e dannunziani; cosi più forte ne risulta l'effetto di sconvolgimento, ín una visione esaltata e aggressiva delle cose e dell'io.

Legandosi alla tradizione simbolista, Campana insegue le corrispondenze e le analogie nascoste tra le cose, ma nel loro disordinato fluire sente come un senso di oppressione, costretto e «confitto nel masso» di una realtà che gli viene incontro in vertiginosi movimenti ascendenti e discendenti, come qualcosa che si eleva in prospettive visive che fanno smarrire ogni controllo, che esplodono e precipitano (palazzi e strade, archi, ponti, torri, vette e abissi). La poesia sorge «su dalla febbre elettrica del selciato notturno», dagli aspetti piú inquietanti dei paesaggi naturali e dalle forme notturne e perverse della vita cittadina, in cui l'amore si intreccia con il crimine, conducendo alla dimora «del nulla e dell'ebbrezza» (tra i molti componimenti notevoli si ricordino Notturno teppista e Furibondo).

Rispetto alla più sconvolgente aggressività di questi componimenti sparsi, i Canti orfici (testi in versi e in prosa) tendono a organizzarsi su di una misura tragica e sublime, che, come suggerisce il titolo (che allude agli antichi misteri orfici)1, ambisce a offrire una conoscenza dei caratteri più profondi e segreti della realtà. Dedicata paradossalmente «a Guglielmo II imperatore dei Germani» la raccolta ha un sottotitolo in tedesco, Die Tragödie des letzten Germanen in Italien (La tragedia dell'ultimo Germano in Italia), che suggerisce (sulle orme di Nietzsche) un incontro «tragico» tra lo spirito nordico e «negativo» della cultura tedesca e lo spirito solare e mediterraneo di quella italiana. La «tragedia» tende a comporsi in modi letterariamente controllati, ad affermare faticosamente una dignità stilistica e un proprio valore culturale superiore.

E ciò riduce la carica aggressiva dell'immaginazione di Campana, la fa tendere verso un piú tradizionale equilibrio lirico, che si allarga verso una varia tematica storica, religiosa, moraleggiante: vi dominano i motivi del viaggio (con figurazioni affascinanti di paesaggi e di città), della ricerca, dell'iniziazione. Squarci e lampi improvvisi sconvolgono però la misura della parola poetica, sembrano far crollare improvvisamente la base stessa della poesia e della visione. Emergono figure mitiche, sinistre guardiane del precario equilibrio dell'universo, come la Chimera (figura, questa, particolarmente amata da Campana): si afferma la fascinazione della notte nelle sue pieghe piú minacciose (La notte e Notturni sono i titoli delle due prime sezioni del libro); il paesaggio, gli aspetti visivi, la voce che cerca di catturarli, franano in rovinosi grovigli, in indefinibili bagliori, in improvvise inspiegabili rivelazioni. Si avvertono echi laceranti di sogni e schegge del passato; dietro i luoghi (città come Firenze, Montevideo, Faenza, Bologna, Genova, freschi e stregati paesaggi appenninici, come quello del «diario» in prosa La Verna) agisce minaccioso l'antico lavorio della distruzione, come in un'inarrestabile storia della morte.

Le cose stesse, i sentimenti, i gesti, sembrano negarsi nell'atto stesso in cui vengono nominati. La stessa persona del poeta si stacca dalla sua parola, si scinde e si fissa in allucinanti figure di estranei, in ombre, cadaveri, immagini di «altri» (un solo esempio: «Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo»). Per Campana il mondo è un metallico e limaccioso teatro dell'alienazione, della perdita di sè, che può essere detto solo da una scrittura allucinata e senza coscienza, scritta con « il sangue alle dita ».


1) Orfismo/Orfico. Con riferimento al mitico cantore e poeta Orfeo (cfr. 3.4.12) e a una religione misterica dell'antica Grecia (di cui era ritenuto fondatore Orfeo), si usano questi termini per designare una poesia e una musica che intendono presentarsi come rivelazione assoluta, fondazione di civiltà, sintesi del valore profondo e originario della vita, in contatto con il mistero e con la magia; in Italia un mo-dello essenziale in tal senso è dato dai Canti orfici di Campana (cfr. 10.7.2). Col nome di orfismo o di cubismo orfico si definisce anche un movimento pittorico sviluppatosi in Francia nel secondo decennio del Novecento, che, staccandosi dal cubismo (cfr. DATI, tav. 216), svolge nuove ricerche sulla luce e sul colore e cerca una analogia con la musica (il suo rappresentante più noto è Robert Delaunay, 1885-1941).