Enrico Falqui
IL MANOSCRITTO RITROVATO
Ormai ci si era rassegnati a considerare chiusa per sempre, e nel peggiore dei modi, la storia del manoscritto originario dei Canti orfici. Triste e drammatica, se mai ve ne fu di somigliante presso di noi. All'ingrosso è più o meno risaputa da tutti coloro che s'interessano alle faccende della poesia; e da tutti è stata, fino ad oggi, compianta, tranne in fondo dai due ai quali è giocoforza attribuirne la responsabilità. Consegnato dal Campana a Papini e a Soffici affinché lo aiutassero a pubblicarlo, e da Papini a sua volta trasmesso a Soffici, nell'inverno del 1913, quel manoscritto fu perduto e quanto rovinoso sia stato per Campana lo smarrimento è documentato da lettere e testimonianze innumerevoli. Se volle, a sue spese, stampare i Canti orfici in una tipografia di Marradi nel 1914, dovette ricomporli e ricostruirli a memoria. Con quale sforzo e strazio si lascia immaginare.
La seconda edizione, con la giunta di « altre liriche », fu curata dall'amico Binazzi, nel 1928, con i tipi del Vallecchi. E alla terza provvedemmo noi, con qualche miglioria, nel 1941, presso lo stesso Vallecchi, e continuammo a revisionarla nelle successive ristampe, giunte alla sesta, cui sono da aggiungere le due economiche di Vallecchi e di Mondadori. Ma della seconda, quando gli fu mostrata nel manicomio di Castel Pulci (dove si trovava dal 1918 e dove restò fino alla morte nel 1932), il Campana osservò che per « i continui errori » era « irriconoscibile », rispetto alla prima. Ma è apprezzamento non riscontrabile, in termini tanto rigorosi, con i testi alla mano.
Dove invece — data la disperazione dell'autore per lo smarrimento — poteva essere plausibile che il testo della prima edizione risultasse irriconoscibile, era nel confronto con la lezione originaria non più ritrovata. Perciò, al rimpianto dell'autore, che ne esigeva minacciosamente la restituzione, si era, nel lungo giro di anni da allora, venuto aggiungendo quello di tutti gli estimatori della sua poesia, desiderosi di conoscerne la nozione giusta. Era da ritenere, infatti, che in essa avrebbero finalmente trovato chiarimento molti dubbi e soluzione molti problemi di espressione e di composizione intorno ai quali soltanto all'autore spettava dir l'ultima parola. Ultima, ma che, per l'opposto, in questo caso, si riteneva dovesse corrispondere alla prima. Come non deprecare ch'era andata smarrita? Difatti non ci trattenemmo dal farlo ripetutamente, ad ogni occasione, senza mai trovarci a corto d'argomenti, vuoi sul fatto in sé vuoi sulle conseguenze. Un rimpianto che si sarebbe rinnovato e prolungato all'infinito, poi che nessuna speranza poteva più sussistere, dopo tanti anni, di rimediare al danno.
E qui avrebbe avuto malinconicissimo termine la storia del manoscritto, se la mattina del 7 giugno 1971, nella pagina letteraria del « Corriere della sera », da un articolo di Mario Luzi trionfalmente sventolato su cinque colonne, non avessimo appreso che il famoso manoscritto era stato ritrovato. Dove? Fra le carte di Soffici, nella casa di Poggio a Caiano. Per merito della vedova, signora Maria, durante il riordinamento della « grande quantità di carte, manoscritti, opuscoli, corrispondenza lasciata dal marito ». Come non gridare al miracolo? A distanza di sessantanni, quasi casualmente, e forse anche nello stesso posto dov'era stato abbandonato e dimenticato (nonostante il molto parlare e scrivere, discutere e polemizzare che ne conseguì), è stato rinvenuto quello che ben a diritto va considerato uno tra gli incunaboli più preziosi della nostra poesia moderna.
Non par vero che tanto manoscritto si sia potuto salvare e senz'altro intervento, senz'altro aiuto che quello della buona sorte. A proteggerlo sono state unicamente la dimenticanza e, dobbiamo aggiungere fuor di scherzo, la trascuraggine di chi lo aveva ricevuto in consegna. Adesso non ci si può augurare se non che, dalle mani degli eredi di Campana (e precisamente della vedova del fratello Manlio, signora Elisa) in cui ora si trova, passi presto in custodia definitiva di una Biblioteca nazionale, e sia magari quella di Firenze. Anche a conferma di un valore che la critica non mancherà, comunque, di riconoscergli.
Ciò non toglie che qualche sorpresa e qualche delusione il manoscritto, una volta in nostre mani, ce l'abbia riserbata. Innanzi tutto la diversità del titolo: II più lungo giorno, originariamente ricavato da un passo della terza parte (Il ritorno) dell'iniziale poemetto in prosa: La notte, modificato ed eliminato nella lezione Ravagli del '14. Secondariamente, delle poesie e prose incluse nella prima edizione a stampa ne mancano quindici. E i titoli di quelle presenti nell'autografo non sempre corrispondono a quelli della citata prima edizione, né a quelli delle due del gruppo aggiunto dal Binazzi nell'edizione del '28 né a quello dell 'una compresa nel cosiddetto Quaderno.
Evidentemente la raccolta è in bella copia. La chiarezza e l'ordine della scrittura lo attestano, anche se qua e là non mancano cancellature e aggiunte, correzioni e modifiche, soppressioni e inserzioni, dovute, più che all'incontentabilità, alla fatalità dell'autore. Ma indipendentemente dal loro esame particolareggiato, che non è qui di nostra spettanza e che altrove non mancherà di tenere occupata la critica, già qui, senza discostarci troppo dai limiti che ci siamo imposti relativamente alla storia del manoscritto, già qui possiamo avanzare l'osservazione conclusiva che la vera prima edizione della prosa e delle poesie di Campana, riveduta e corretta e autorizzata dall'autore stesso, è e resta quella dei Canti orfici. Il manoscritto di Il più lungo giorno ce ne presenta e ce ne offre una parziale lezione antecedente, che a parer nostro non è, nel suo insieme, da preferire a quella stampata in Marradi nel 1914. Giova dirlo, perché al contrario si credeva per certo che l'avrebbe degradata e sostituita. Non per nulla, poco addietro, abbiamo fatto cenno ad una specie di delusione derivata in noi dal sopralluogo e dal confronto tra le due lezioni. Delusione — si badi bene — rispetto all'illusione che, in tanti anni, s'era venuta consolidando in noi e che ci aveva sempre più portato a rimpiangere nel manoscritto una perfezione perduta. A tanto può, a volte, spingere l'amor di poesia. Nel caso in questione, ad accrescere il rimpianto, oltre al già assodato valore dell'opera nello svolgimento poetico italiano del nostro secolo e oltre alla mancata possibilità di renderlo ancora più forte, c'era stata la disperazione e quasi l'ira funesta dell'autore quando il manoscritto non fu più ritrovato.
Come non temere che alcunché d'incerto e di approssimativo si potesse essere insinuato nell'affrettata ricomposizione e ricostruzione dell'opera, e che vi fossero subentrate e rimaste incompiutezze e insufficienze? Quali e quante varianti non erano state imposte all'autore proprio dalla misera condizione di urgenza in cui era venuto disgraziatamente a trovarsi, senza volersi rassegnare alla perdita del testo originale e anzi sforzandosi di rimediarvi facendo appello, per ricomporlo, a tutte le risorse della sua memoria? E dunque non era consigliabile procedere più cautamente nelle affermazioni critiche riguardanti momenti e passaggi e raccordi, soste e riprese di quei « canti » la cui primitiva integrità chissà come era stata ricostituita a memoria da un autore quasi delirante? Sennonché, ora che il manoscritto è stato ritrovato e restituito, a lettura ultimata, non si può non convenire con il Luzi nel ritenere che quasi certamente « il ripensamento dei suoi poemi — chi sa favorito anche dalla tremenda operazione mnemonica — orientò Campana nel senso di una maggiore condensazione, di una più decisa fusione, di una più forte intensità ritmica. È un po' come se la ricca materia avesse subito un processo di decurtazione a cui non è estranea la sua propria forza di memorabilità ».
Noi sappiamo, per averlo potuto documentare attraverso lettere e testimonianze, con quanto sforzo e dolore Campana dovette impegnarsi nel lavoro di ricostruzione. E quanto gli urgesse di ultimarlo, sentendosi incalzare dalla morte e volendo lasciare un segno del suo passaggio. Ma dei diciassette componimenti dei Canti orfici appena quattro erano già stati pubblicati, e poteva disporre, pur variando, come fece, della lezione. Tutti gli altri? I due lunghi poemetti in prosa: La notte e La Vernai Quantunque non trascurabili, le differenze di lezione tra il testo manoscritto e il testo a stampa non sono tali da dover escludere che nella ricostruzione Campana si sia servito di una copia rimasta in sue mani, anzi che di una brutta copia o di un abbozzo. Altrimenti la sua « forza di memorabilità » avrebbe davvero dello spettacoloso. Un'intera raccolta riscritta a memoria? E in così breve tempo? Si consideri che il manoscritto fu smarrito nell'inverno del '13 e l'edizione a stampa fu pubblicata nell'estate del '14. Il contratto con il Ravagli reca addirittura la data del 7 giugno; ed è di pugno del Campana.
Ma da una lettera, in data 6 gennaio 1914, si è appreso che, prima ancora di accordarsi con Ravagli, il poeta si era rivolto all'editore Vallecchi, o aveva pensato di rivolgersi, perché s'ignora se la lettera fu inviata. Segno dunque che il testo era, fin da allora, già pronto per la consegna. Della quale fu invece incaricato l'amico Ban-dini con un biglietto che ha qualcosa di testamentario, sprezzante e rassegnato, umile e orgoglioso. Eccolo: « Mi trovo disperato e sperso per ti mondo. Ti mando il m* noscritto che spero sarà comprensibile. Esso testimonia qua h cosa in mio favore forse testimonia che io non ho meritato la mia sorte. A chi altro mandarlo? Tu mi hai conosciuto e mi hai compatito, spero che lo farai ancora. … Sarà quello che sarà: sarà quello che deve essere ».