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 Luigi nel 1982

 


 

Luigi Schenoni: Dino Campana

 

Luigi Schenoni, il geniale traduttore di Finnegans Wake di James Joyce, il più intraducibile dei libri, è scomparso recentemente. 

 

 

Ho avuto la fortuna di averlo amico e, nel corso di uno degli ultimi incontri, mi donò una copia di una sua tesina di laurea, che risale alla fine degli anni 50, presentata alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere "Bocconi" di Milano. Era felice di rendere pubblico quel suo lontano lavoro di studente.

In pochi conoscevano Campana e lui era fra i pochi. Mi diceva sempre che Campana lo interessava perchè aveva fatto l'università a Bologna, era in qualche modo "bolognese" come lui. Non considerava Campana un grandissimo poeta, ma in quegli anni lontani anche un riconoscimento come il suo era un segnale importante.

La pubblico con molta emozione, in ricordo di Luigi Schenoni e del suo meraviglioso lavoro di traduttore. Grazie ancora Luigi!

Paolo Pianigiani

 


 

UNIVERSITA’ “LUIGI BOCCONI” MILANO

FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE


I “Canti Orfici”

di DINO CAMPANA

Sottotesi di laurea in italiano di Luigi Schenoni

Relatore:
Chiar. mo Prof. F. GIANNESSI


ANNO ACCADEMICO 1958-59

 


Prima di considerare particolareggiatamente i Canti Orfici di Dino Campana, e di cercare quindi di determinare il loro posto nell’ambito della poesia dello sfortunato poeta di Marradi, sarà bene, credo, ritracciare nelle linee essenziali la vita dello scrittore, data l’importanza che le avventure terrene assumono nello svolgimento della sua attività creativa.

Dino Campana nacque a Marradi il 20 agosto 1885 e dopo un’infanzia serena e tranquilla, che non fece affatto presagire la sua tragica fine, studiò a Faenza prima e a Carmagnola poi, per iscriversi, ottenuta la licenza liceale, all’Università di Bologna, dove risulta come matricola di Chimica per l’anno accademico 1903-1904. Qui egli, per niente portato verso gli studi intrapresi, si abbandona a una vita irregolare, dando i primi segni di quello squilibrio che lo portò alla pazzia: nel 1906 fu ricoverato per quasi due mesi nel manicomio di Imola. Dal 1907 Campana lascia l’Università e comincia quelle peregrinazioni incessanti, ossessive che si concluderanno solo l’anno del suo internamento a Castel Pulci.

Dell’anno seguente è con ogni probabilità il viaggio in Argentina, generalmente collocato prima d’ora nell’autunno del 1913. Gino Gerola, nel suo importante studio su Dino Campana, adduce per questo spostamento tutta una serie di ragioni pienamente accettabili, che sarà opportuno sintetizzare qui di seguito:

1) «Il Papiro», giornaletto universitario bolognese, pubblica nel 1912 la prosa Dualismo, una lettera aperta indirizzata a Manuelita Etchegarray, che il poeta conobbe in Argentina;
2) Nel 1911 Campana racconta a M. Bejor quell’episodio della sua vita come trascorso da qualche tempo;
3) Il fratello Manlio afferma che il viaggio in Argentina di Dino Campane avvenne precisamente nel 1908.
4) Infine Campana stesso, esprimendosi sulla sua vita dalla fine del liceo in poi in questi termini, «Finito il liceo andai a Bologna nella Facoltà di Chimica Farmaceutica per due anni, poi andai a Firenze. Studiai all’Istituto di Studi Superiori per un anno; poi andai in Argentina...» fa supporre che il viaggio sia da collocarsi in un periodo non lontano dalla sospensione degli sudi.
Questo spostamento della data in cui Campana si recò in Argentina è molto importante perché indirettamente fa retrodatare anche l’inizio della sua attività poetica (quella parte degli inediti dal nome Quaderno raccoglie versi composti senza dubbio prima del viaggio oltremare), sfatando l’opinione che tutta la poesia di Campana sia stata compiuta nel giro di pochi anni, opinione avanzata forse per legare il nostro poeta più strettamente ad Arthur Rimbaud, nonostante tutte le apparenze.

Tornato in Europa, Campana continua la sua vita di vagabondaggio, braccato sempre dallo spettro della pazzia: egli ormai si è avviato su questo pericoloso binario, senaza potere più retrocedere, e il 28 gennaio del 1918 viene definitivamente ricoverato nell’Ospedale Psichiatrico di Castel Pulci, dove rimarrà, senza più scrivere, fino alla morte, avvenuta il primo marzo 1932.

L’unica data importante della vita di Campana dopo il suo ritorno dall’America, specialmente per la sua poesia, è il 1914, anno in cui egli fece stampare in una tipografia di Marradi i Canti Orfici, il solo volume di versi che egli curò personalmente in una delle sue soste al paese natale. I Canti Orfici si compongono di un insieme di prose e di poesie variamente articolate intorno agli stessi temi fondamentali, che si ripetono quasi ossessivamente nella poesia di Campana: il viaggio, la sosta, la donna, l’anelito verso una nuova vita.

Il componimento che apre la raccolta ha per titolo La Notte e si divide in tre parti, «La Notte», «Il viaggio e il ritorno», «Fine».Non a caso esso è stato posto all’inizio dei Canti Orfici, poiché in certo modo li compendia, essendo una rievocazione di molti episodi della vita del poeta; e si può anche dire che vi siano insieme tutti i difetti e tutte le virtù di Campana, di modo che leggendo «La Notte» ci si può rendere conto dei valori e delle limitazioni del poeta.

«La Notte» è la sola, delle compsizioni dei Canti Orfici, che abbia una certa unità e complessità di contenuto, e sarà bene qui darne una traccia. Dapprima il poeta rivive il periodo dei suoi studi a Faenza, in seguito egli passa col ricordo a Bologna. Qui abbiamo una testimonianza dell’insorgere in Campana di un prepotente spirito di vagabondaggio: «Poi fuggii...» Fanno seguito la traversata delle Alpi e la rappresentazione della pampa argentina. La seconda parte è dedicata al ritorno dall’America e alla sosta a Genova. Lungo tutta la composizione si intersecano al motivo paesaggistico, descrittivo, figurazioni di donne e di amori del poeta, che raggiungono una parte sempre più importante, tanto che «La Notte» si chiude, nella sua terza parte, su di un ennesimo aspetto di quest’ultimo motivo.

Se si vuole cercare di determinare perlomeno alcuni dei mancamenti di «La Notte» bisogna certamente soffermarsi in primo luogo su quello che è stato chiamato iò «titanismo verbale» di Campana, che non è un tentativo di rinnovere il linguaggio attraverso nuovi accostamenti di termini, ma un gonfiarsi dell’espressione con termini altisonanti poco consoni all’argomento, con ripetizioni che, se possono sltrove dare effetti suggestivi, qui quasi sempre appesantiscono considerevolmente le immagini, come si può vedere dagli esempi seguenti: «lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri», «la linea eroica della grande figura romana femminile», o dal brano seguente, non certo esempio di buon gusto poetico:
E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orgie si crearono avanti al mio spirito. Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle estinte.

Un altro degli insuccessi più evidenti de «La Notte», che si ritroverà anche altrove, specialmente nelle prose dei Canti Orfici, è quel ricorrere troppo spesso a simboli e figurazioni letterarie che non hanno un’intima ragione d’essere nel contesto della composizione, come l’introduzione de «La notte di Michelangelo», «regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano», e delle «barbare travolte regine antiche» di Dante, ed anche il richiamo a Faust d a «le chiare gore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi».

A questi momenti di debolezza fanno però riscontro altri momenti in cui le doti di sottile rievocazione lirica del Campana delle cose migliori si pongono in piena luce. Tale è per esempio il brano in cui viene rievocato il valicamento delle Alpi, con il suo passaggio lievissimo dal fermento delle metropoli alla calma dei monti, il suo senso di velato mistero all’avvicinarsi della natura:

«Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno. Lassù tra gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille ticchiettii le mille voci del silenzio svelata una giovane luce tra i tronchi, per sentieri di chiarie salivo; salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato mistero.»
Ed anche il brano in cui il motivo dell’amore raggiunge il suo culmine, la sua espressione più alata, che è stata giustamente definita da Carlo Bo una «sinfonia in viola»:
 


O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze.

 

Tra le altre prose contenute nei Canti Orfici occupa un posto particolare «La Verna», diario di un pellegrinaggio al santuario francescano e del ritorno a Marradi che il poeta compì nel 1910, tenuto giorno per giorno con l’intenzione di fissare sulla carta le mutevoli impressioni del viaggio. In essa ritorna quell’alternarsi di momenti compiutamente realizzati e di passi non riusciti che è presente pressoché in tutta l’opera di Campana; di nuovo vi è un senso intimo di religiosità, di cui viene permeata tutta la composizione, che si libera più pura e si esprime più efficacemente a contatto con il mistico paesaggio tosco-umbro, avvolto in un’atmosfera senza tempo, come si piò vedere dai due passi seguenti, degni di nota per la loro sospensione magica e per la loro apertura vasta e solenne:

 

Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute.

«Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio, colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grige nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa.

 

Le altre prose dei Canti Orfici ripetono ampliandoli, spesso senza raggiungere i suoi risultati, i motivi di sosta e di viaggio che ne «La Notte» erano stati fusi in una unica visione per mezzo della libera rievocazione lirica. Così abbiamo «Firenze», «Faenza», «Pampa», «Passeggiata in tram in America e ritorno», «Lagiornata di un nevrastenico» e «Scirocco» che hanno per sfondo Bologna, «Piazza Sarzano»una delle più note di Genova.

Forse, in tutto questo complesso di composizioni, Campana trova i suoi momenti migliori quando penetra più intimamente nel paesaggio che lo circonda, facendone un contorno ai suoi sentimenti, al suo anelito di una coscienza cosmica nella quale trascendere i dati della vita quotidiana.

Come ad esempio in «Pampa», dove Campana esprime forse meglio che ne «La Notte» la grandiosità delle ore di tenebra e del cielo stellato:

 

«Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giuochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in distanza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura. Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare».

 

Oppure, anche meglio forse, in «Scirocco», dove, diversamente dalle altre pagine di Campana, sembra circolare, specie all’inizio, un’aria di festa, una gioia di vivere che si veste di forme e colori pienamente rispondenti allo stato d’animo fissato:

 

Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprìi la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvole in corsa al fondo del cielo curvo (non c’era là il mare?) si ammucchiavano nella chiarità argentea dove l’aurora aveva lasciato un ricordo dorato. Tutto attorno la città mostrava le sue travature colossali nei palchi aperti dei suoi torrioni, umida ancora della pioggia recente che aveva imbrunito il suo mattone: dava l’immagine di un grande porto, deserto e velato, aperto nei suoi granai dopo la partenza avventurosa nel mattino: mentre che nello Scirocco sembravano ancora giungere in soffii caldi e lontani di laggiù i riflessi d’oro delle bandiere e delle navi che varcavano la curva dell’orizzonte. Si sentiva l’attesa. In un brusìo di voci tranquille le voci argentine dei fanciulli dominavano liberamente nell’aria. La città riposava del suo faticoso fervore. Era una vigilia di festa: la Vigilia di Natale. Sentivo che tutto posava: ricordi speranze anch’io li abbandonavo all’orizzonte curvo laggiù: e l’orizzonte mi sembrava volerli cullare coi riflessi frangiati delle sue nuvole mobili all’infinito. Ero libero, ero solo. Nella giocondità dello Scirocco mi beavo dei suoi soffii tenui. Vedevo la nebulosità invernale che fuggiva davanti a lui. le nuvole che si riflettevano laggiù sul lastrico chiazzato in riflessi argentei su la fugace chiarità perlacea dei visi femminili trionfanti negli occhi dolci e cupi: sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo melodioso, smorzato nella cadenza lieve ed uguale: poi guardavo le torri rosse dalle travi nere, dalle balaustrate aperte che vegliavano deserte sull’infinito.
Era la Viglia di Natale.


In queste righe si sente veramente che la febbre di Campana non lo aveva ancora raggiunto, o gli aveva concesso un momento tanta è la loro tranquilla serenità; ed anche il motivo della presenza femminile, costante nel nostro poeta, si esprime qui in maniera più distaccatama appunto per questo forse più dolce.
È qui che si può trovare il corrispondente di quelle che sono a parere generale dei critici le più compiute espressioni del genio poetico di Campana, cioè le due poesie che aprono i «Notturni», il gruppo più compatto dei Canti Orfici: «La chimera» e «Giardino autunnale».

Di entrambe queste poesie sono atate ritrovate e pubblicate tra gli Inediti di ampana versioni precedenti, ed un confronto tra di esse e la stesura definitiva dimostra senza ombra di dubbio quale fosse la linea di sviluppo della lirica di Campana, che molti considerano il precursore della poesia moderna: da un’aderenza alla poesia ottocentesca, specialmente dannunziana, verso l’espressione di un modo dempre più originale, dalle caratteristiche piene di promesse, che avrebbe fatto di Campana una delle voci più importanti del secolo se se il tragico destino del poeta avesse permesso il realizzarsi totale di questa evoluzione. «Giardino autunnale» e «La chimera» restano comunque poesie di grande valore intrinseco, e meritano quel posto di preminenza che ormai occupano non solo nel quadro della produzione campaniana, ma in quello della poesia italiana contemporanea.

«Giardino autunnale» è una quanto mai sobria descrizione di Boboli e della città sullo sfondo nell’ora del tramonto, in autunno, dominata dal colore rosso dorato dell’occidente; ma è anche la rievocazione di quella visione che il poeta cerca invano nel mondo, della Chimera simbolo di tutte le sue aspirazioni:


Al giardino spettrale al lauto muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto
Ella m’appar, presente.


Anche qui come nei passi precedentemente citati, ma in forma più sottilmente lirica, scandita su di un piano più rarefatto, è l’espressione di un sentimento, di uno stato d’animo, che viene posta su di un piano di rilievo; ma in questo caso esso è tutto articolato sulle linee del paesaggio, e centrato indirettamente. Di esso però il paesaggio è profondamente contaminato, e lo lascia facilmente trasparire, in modo che tra di esso e lo stato d’animo del poeta vi è unìintima fusione, con risultati molto suggestivi per l’esito della poesia.
Con «La Chimera» si raggiunge il culmine di quella ricerca assidua ed ossessionante che Caìmpana sempre continuò dell’ideale assoluto che traspare al di là delle apparenze ingannevoli del presente, e di cui si può avere qui soltanto una vaga intuizione. Questa «figurazione dell’inespresso», come è stata chiamata, si carica però di significazioni e simboli concreti, ed è anche stata riconosciuta come la Madonna delle Roccie di Leonardo; comunque, l’interpretazione più convincente sembra essere quella che vede nella Chimera la poesia stessa, e nella lirica di Campana un inno alla poesia da lui sempre ardentemente ricercata:

 

Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina della melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.


«La Chimera», oltre ad esprimere compiutamente uno dei più significativi motivi di Campana, è anche testimone dei suoi momenti migliori dal punto di vista della tecnica poetica; la parte iniziale, senza pause eppure svolgentesi con ritmo sicuro e per niente arruffato, dimostra che Campana poteva raggiungere una intima corrispondenza tra forma e materia, e tutta la poesia acquista un alto valore poetico obbedendo, come fa, ad una sintassi sua particolare, una sintassi interna che sorregge il discorso poetico e gli dà una sua coerenza ben più valida, una sintassi che, unita alla musica crescente dei versi, contribuisce a creare per «La Chimera» una suggestività che ben pochi sanno negare.

Se l’opera di Campana acquisterà fama e rinomanza più vaste, resistendo all’usura del tempo, sarà soprattutto per queste sue composizioni, e per quelle degli «Inediti» che si distaccano per i risultati raggiunti, come «Donna genovese», «Tre giovani fiorentine camminano» ed altre, insieme a numerosi frammenti sparsi qua e là; al di fuori di questo, essa dà nell’insieme una impressione di incompletezza, di evoluzione troncata, che è confermata da molti abbozzi ritrovati, ed anche dalle vicende passate da quella che dovrebbe esserne la parte più omogenea e compiuta, cioè i Canti Orfici, di cui all’atto della pubblicazione il poeta non riuscì a riavere il manoscritto, da lui affidato a Soffici ed a Papini per un giudizio, e che dovette quindi riscrivere completamente affidandosi alla memoria, con quale pregiudizio si può vedere confrontando ad esempio «Frammento» con «Firenze cicisbea», che di quello è la versione completa ed antecedente.
È comunque per ciò che di meglio ha compiuto che si deve giudicare un poeta, e Campana merita un posto se non di primo piano certamente notevole in quel delicato periodo di transizione verso un rinnovamento della tradizione poetica che furono i primi decenni del secolo presente.

 



 
B I B L I O G R A F I A

 

1) Edizioni delle opere di Campana

 

- Dino Campana, Canti Orfici, F. Ravagli, Marradi 1914

- Dino Campana, Canti Orfici, a cura di Bino Binazzi, Vallecchi, Firenze 1928

- Dino Campana, Canti Orfici, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze 1941

- Dino Campana, Inediti, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze 1942

- Dino Campana, Canti Orfici e altri scritti, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze 1952

 

2) Studi sull’autore
   

- M. Beior, Dino Campana a Bologna, 1911-1916, Ste, Bagnacavallo 1943

- Carlo Bo, Otto studi, Vallecchi, Firenze 1940

- G. Boine, Plausi e botte, Guanda 1939, 3a ed.

- M. Costanzo, Corazzini, Michelstaedter, Campana, Pinnarò, Roma 1949

- Gino Gerola, Dino Campana, Sansoni, Firenze 1955

- Oreste Macrì, Caratteri e figure della poesia contemporanea, Vallecchi, Firenze 1956

- F. Ravagli, Dino Campana e i Goliardi del suo tempo, Marzocco, Firenze 1942

- A. Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Vallecchi, Firenze 1931