Alfredo Luzi su Matacotta

 

L'anacoluto della vita

 

Biografia e poesia di Franco Matacotta

 


 

da: Incontri transnazionali.
Modernità, poesia,sperimentazione, polilinguismo
Le Monnier, Firenze, 2005, pp.177-183. 

 

 

Nel poemetto "La peste di Milano" che dà il titolo al volume pubblicato nel 1975, la ribellione di Matacotta contro la dimensione falsamente necessitante della civiltà tecnologica e capitalistica, è raggrumata nell’accusa rivolta alla città, dove egli si era recato, attratto dal mito del progresso sociale ed economico :

.......E’ qui proibito l’anacoluto della vita. Senz’armi, non val la pena vivere.

Ma la rivendicata autonomia dalla logica del profitto e il diritto, forse anche ludico, all’utopia, non hanno in Matacotta una esclusiva valenza ideologica.

Se si vuol concedere qualche credito alla testimonianza autobiografica, costituita dal romanzo "La lepre bianca", pubblicato nel 1946, pur tenendo conto della dilatazione che l’immaginario ha apportato nei minuti fatti della vita quotidiana del bambino, e poi adolescente, Franco, bisogna riconoscere che la scelta della poesia e della libertà come vessilli della propria esistenza è stata, in Franco Matacotta, piuttosto precoce. Egli, assumendo Leopardi a modello ideale (e stilistico), scrive:

Nella stanza chiusa e boreale la mia mente volteggiava nell’alone di splendidi miraggi. Crescevano i quadernetti dei miei versi. Sognavo la gloria... Leggevo,annotavo... Studiavo da solo, con taciturno accanimento... Finché un giorno, passeggiando in una parte deserta della campagna,scopersi, in una pagina che mi era rimasta fino ad allora indecifrata, queste straordinarie parole: "Nulla si crea e nulla si distrugge". Io avevo trovato improvvisamente la segreta chiave dell’esistenza... a non perciò la poesia mi aveva abbandonato. La poesia.
L’unica arma ch’io potevo vibrare ormai con felicità nei miei assalti perpetui verso l’assoluto. Parole, nelle quali io accoratamente prendevo la mia rivalsa sulla cieca brutalità della vita, melodiosi simboli, con cui rivestivo e addolcivo i lineamenti bruschi del mondo.

Per quanto attiene alla sua formazione culturale, lo stesso Matacotta, nella inedita "Confessione di un figlio della vecchia Europa", dichiara di aver avuto un’educazione letteraria squinternata in tutti i sensi. A nove anni "il Capitale" di Marx... per gli esercizi di analisi logica... Più tardi ebbi in mano Hugo e Tolstoi. Al Liceo comprai lo "Zarathustra" di Nietzsche. Più tardi fu Emerson a innamorarmi... poi Whitman, col suo canto terrestre mentre la conoscenza della letteratura francese è favorita dall’amicizia con Acruto Vitali, poeta sangiorgese, accanito lettore di Baudelaire e Rimbaud.

Quando, terminati gli studi liceali, si iscrive all’Università di Roma e conosce, nel gennaio del ‘36, Sibilla Aleramo, Matacotta ha appena 20 anni. Il sodalizio con Sibilla, che durerà fino al 1947, assume anche il carattere di un connubio tra vita e letteratura. Nella soffitta di via Margutta egli legge "tutti i manuali della iniziazione amorosa: D’Annunzio, Valéry, Omar Kajam, Sand, Barrett, Colette, Lawrence".

A Capri,come è documentato dal diario di Sibilla, "Un amore insolito", rilegge Leopardi, traduce Lucrezio, un poeta al quale rimarrà sempre fedele (ci sono brani di traduzione tra i suoi materiali), legge Rilke, Heine, Hölderlin: poeti dai quali trae quel senso di nostalgia della bellezza radicata profondamente in un presagio cosmico di distruzione.

In quegli anni sta elaborando la tesi di laurea (discussa nel luglio 1939) su Giuseppe Ungaretti o della parola come mito, che in un primo progetto, poi abbandonato, doveva comprendere anche la poesia di Campana e della Aleramo. E, dieci anni più tardi, pubblicherà una raccolta di inediti campaniani, tratti da lettere in suo possesso, "Taccuino", (Amici della poesia, Fermo, 1949).

Un sostrato letterario, dunque, quello di Matacotta, fitto e variegato, che giustifica in pieno l’estrazione colta del suo esercizio stilistico, come hanno notato Alvaro Valentini e Giuliano Manacorda.

I "Poemetti", pubblicati il 20/12/41, (Edizioni di Prospettive, Roma), che raccolgono poesie scritte tra il 1936 e il 1940, sono ricchi di suggestioni leopardiane, dannunziane, ungarettiane, mallarmeane, intessute, fra l’altro, su una concezione della poesia come forma privilegiata di conoscenza che rinvia ai classici latini, in particolare a Virgilio ed Ovidio. C’è un intreccio tra una tecnica d’impronta ermetica (forte carica metaforica, sinestesie, immagini di serra calda, uso del segno motivato, allitterazioni) ed una tematica che deriva da una sorta di classicismo panteista, in un continuo tentativo di fondere mito e realtà, antropos e cosmos. Predomina l’invocazione, sviluppata con una serie di apposizioni sinestetiche e articolata in una costruzione ampia e complessa della strofe, dove trovano spazio le antinomie morte - vita, silenzio - voce, gravità - levità.

La simbologia dell’acqua, del labirinto, del volo (nell’ultima parte il mondo dei Poemetti è frequentato da molti angeli) testimonia di un doppio registro di tonalità, una perdurante dimensione tellurica, genetica, vitalistica ed, insieme, di una tensione metafisica espressa anche da una struttura che tende al continuum, anche se la sua circolarità è rotta da un fitto intermezzo di interrogativi, di sospensioni temporali, di parentesi d’attesa. Un pensiero poetante, qui tutto simbolico e archetipico, che tornerà, con tutt’altra motivazione poetica e con più forte motivazione epistemologica, molti anni più tardi, negli Inni, dedicati al figlioletto morto. E forse l’immagine che sintetizza il momento culturale e storico dei "Poemetti" potrebbe essere quella di "Icaro" (Lauro De Bosis aveva pubblicato nel 1930 il suo "Icaro", una sorta di prefigurazione poetica del proprio destino), individuo-eroe pronto al sacrificio - morte pur di levarsi in volo:

..........................................Cade
la bianca luna della cera,acerbo
E’ il frutto del vento,più non l’addento
Colla mia bocca! Oscuro si fa il lume
Del sole, muore, l’aria mi si spacca
Come una nube alla mia fiamma d’acqua.
Ahi non gelo, calore della morte!
Addio, tetti felici della patria
A me perduta. Nel funereo manto
In cui m’abbatto, la mia cera è il pianto.
O primi gigli presso i morti piedi
E funeste viole. Non la terra,
Nella dorata immensità, ma quella
Vagante luce di purpurea stella!

Verso la metà del 1942 sono già in fase d’elaborazione i testi che formeranno il volume di "Fisarmonica rossa" (Darsena, Roma, 1945), un’opera che segna la radicale opzione di poetica a favore del realismo.

Ma il distacco psicologico dall’esperienza di vita e di poesia finora accettata supinamente e vissuta come rifugio del proprio io che,gratificato dal suo destino d’eccezionalità,ritiene giustificabile un isolamento dorato con la scrittrice famosa, con quel tanto di edipico che si riscontra nel rapporto Matacotta - Aleramo, è precedente alla scrittura e viene fatto risalire, dallo stesso Matacotta, alla metà del 1940:

Per la prima volta, nella mia vita, si formò quel giorno una reazione concreta, dentro di me, contro quel mondo aristocratico. Conversandone con Bella, m’accadde di pronunciare una parola che non avevo mai ancora pronunciata, almeno in quel preciso nuovo senso, dico la parola classe, dandole un senso strettamente economico e sociale, non più numerico o altro senso del genere. Dissi classe dei poveri, e solo più tardi scopersi che questa parola classe noi generalmente l’adoperiamo per dire classe scolastica o classe 1918 quando si parla di soldati, ma questa parola aveva un altro senso almeno da un secolo, ma un senso di cui in Italia tutti parevano essersi dimenticati, e Bella fece il nome di Marx e io dissi che Marx lo avevo adoperato il primo anno di ginnasio in casa per fare gli esercizi di analisi logica, un vecchio libro spaginato del nonno e che dopo d’allora la parola classe era scappata via dal mio vocabolario come una tignola spaventata... Era come una specie di balbettio nuovo, in una lingua nuova. Ero molto impressionato. Le domande si accavallavano via via di giorno in giorno, settimana dopo settimana... A quale classe, dicevo, appartengo io, per esempio? A quale classe Bella? A quale classe appartiene questa donnicciuola che viene a prestarci i servizi?... Non sapevo rispondere nemmeno sulla classe alla quale appartenevo io stesso, gli anni i libri la cultura le esperienze facevano fumo addosso alla mia origine.....
Tu, dico a Bella, a che classe appartieni?
Bella mi guardò, un poco compatendomi per quel mio arzigogolare su un problema che secondo lei mancava di fondamento. A quale classe debbo appartenere, dice lei. A nessuna classe. I poeti non appartengono a nessuna classe. Perché questo è il destino sublime della poesia, essere al di sopra delle classificazioni umane... Essa accettava in sé senza nemmeno discuterlo questo assioma romantico e disperato...Tutta la poesia contemporanea faceva eco a questa congettura arbitraria, cantando paradisi perduti e la disperazione di un mondo nel quale la sola speranza era la parola lirica che oscilla come una colomba sopra l’universale diluvio. Non una fede, una certezza di redenzione umana o comunque di liberazione dalla povertà dell’angoscia. I poeti cantano per se stessi, sono uomini soli. A tale dichiarazione di rinuncia suprema io stesso m’ero sottoscritto.

Con parole che riecheggiano molto da vicino la polemica vittoriniana dell’editoriale sul primo numero del "Politecnico" e con una similare forma rivendicativa di una cultura d’intervento che riconosca il valore della socialità anche nell’espressione letteraria e lo ribadisca nei confronti del potere politico, Matacotta scopre in se stesso la dicotomia tra scelta sociale e mestiere di poeta.

Egli avverte la distanza determinatasi tra il suo passato e il suo presente:

Ero fuggito ai miei severi impegni di uomo, avevo tradito il mio mondo nativo la mia razza di popolano la mia classe di uomini semplici.Avevo abbracciato la fede di una cultura che non solo non m’apparteneva ma era in perenne stato di contraddizione con la gente da cui ero nato. E questa contraddizione io la sentivo in me con evidenza sempre più acuta, quando prestavo al gioco della cultura borghese le risorse della mia natura primitiva e selvaggia le mie ribellioni le mie disperazioni e quella cultura se ne impadroniva.

Di fronte al problema della guerra egli lancia la sua denuncia:

Dicevo, dolci piedi nudi, dolce legno del volto, dolce profondità di sguardi. A tal punto l’oppio della poesia addormenta. A tal punto i poeti sono ciechi raggomitolati in se stessi come gatti. Deformano la verità del mondo drogandola con la musica.

E la guerra divampava in Europa.

Matacotta avverte l’inutilità di una fuga nel dominio riservato della poesia, intravvedendo l’ipotesi di una scelta in cui trovano il punto massimo di fusione il pensiero e la prassi:

Hoelderlin si rifugiò nella Grecia. Baudelaire invitò l’uomo a un viaggio per un paese di voluttà. Rimbaud s’imbarcò sul battello ebbro lontano dai parapetti d’Europa. E via via, Rilke, Valéry, Hoffmannsthal, sono stati tutti grandi fuggiaschi. E anche Mallarmé dette il suo addio coi fazzoletti. E anche Ungaretti...E’ la solitudine la strada. Ce n’è un’altra? Forse c’era. Forse quello era il momento preciso della grande strada da prendere, la strada della lotta della ribellione aperta, sebbene quella strada fosse già stata percorsa da un altro poeta che Bella diceva di somigliarmi, Lauro De Bosis, il giovine poeta antifascista che era partito in aereo verso il cielo di Roma, aveva lasciato cadere sulla città una pioggia di volantini di propaganda, poi s’era eclissato verso il mare, forse inseguito dagli aerei fascisti e fatto precipitare.

In una sorta di ricerca psicanalitica sollecitata quasi da una dichiarata consapevolezza di orfano, Matacotta individua i suoi modelli di riferimento nei poeti della rivoluzione russa, amati sia per aver pagato di persona il loro coinvolgimento con le speranze ribelli dell’ottobre bolscevico sia per la carica di anarcoide contestazione, di ribellismo libertario, in fondo, di nichilismo:

Sprovveduti di esatte cognizioni politiche, il comunismo si identificava per noi in quel tempo colla tragedia del diluvio del 1917. Della grande azione rivoluzionaria noi comprendevamo soltanto il primo atto, quello della distruzione. E in questa scena del diluvio, noi facevamo entrare i nostri eccessi immaginativi, lo scandalo e il libertinaggio, come reazione forsennata al decrepito mondo borghese del quale facevamo parte. Nella nostra esaltazione, noi facevamo un sol fascio di tutti quei poeti, Gumiliov, Briussov, Blok, Jessenin e Majakowskj.

Nella primavera del ‘42 Matacotta viene richiamato alle armi e inviato in Sardegna. Nel silenzio di quei luoghi, nel deserto sardo della torrida estate di quell’anno (di cui, più tardi, Matacotta lascerà testimonianza nei versi di "Naialuna") si avvia la genesi morale, spirituale, tematica e di linguaggio di Fisarmonica rossa:

In quelle improvvisazioni bizzarre in mezzo alle quali io nascondevo insieme coi miei compagni la durezza della naja venivo riacquistando una sorta di nativo vigore, una fresca prontezza nei rapporti col prossimo dopo anni di distacco... Il mio istinto di popolano tornava a riaffiorare impetuoso di là da tutte le sovrastrutture della cultura borghese... Cessai di scrivere. Mi ribolliva dentro come un nuovo grumo di voci, detestavo adesso la grassa sierosa musicalità dei miei versi di prima, sentivo nuovi scatti. Tutto dentro di me prendeva il colore della collera, il ritmo rugginoso e sordo della ribellione.

Tornato nelle Marche, Matacotta ritrova un suo linguaggio poetico in cui la nuova realtà è presente con tutta la violenza dei suoi argomenti e la cultura letteraria acquisita viene forgiata alle ragioni sociali della poesia in modo che gli espedienti retorici siano finalizzati per una maggiore aderenza della scrittura agli esiti morali del discorso.

E’ come se la cultura decadente, la tradizione letteraria borghese, facessero da base, da trampolino di lancio, alla nuova parola poetica, un punto costante di riferimento contro cui lanciare la propria carica ideologica ma che occultamente si fa struttura portante di immagini ardite, di un linguaggio vivido ed essenziale:

Di nuovo scrivevo versi. Con parole nuove, forti. Li scrivevo durante le mie galoppate in bicicletta di giorno o di notte, nei momenti più impensati. Le immagini mi nascevano nelle volate a capofitto per le discese delle colline o girando pei campi o seduto sulle logge delle case coloniche col bicchiere del vino cotto in mano aspettando i PW. Annotavo i versi in fretta sul taccuino e lo nascondevo sotto la tuta. Incrociando i camion tedeschi, la sola preoccupazione era di salvare quel fascio di foglietti segnati a lapis dove era la mia vita e la mia disperazione d’allora, e anche la disperazione della gioventù italiana, il sangue la fede l’amore di quanti combattevano per sopravvivere.

La voce della poesia si risuscitava nel mio petto col suo clamore più forte di quello dell’acqua colla sua sovrana intangibilità, più sovrana della luna, colla sua forza più forte della morte, di tutti gli odi, dei lutti, delle miserie degli uomini.

"Fisarmonica rossa" esce nel settembre ‘45 e segna la frattura con la poesia precedente.

La violenza della "pars destruens" caratterizza queste odi dedicate alla disperazione della guerra, queste canzoni ritmate sulla cadenza delle marce dei patrioti, ricche di un epos drammatico che si concentra nella negatività come correlativo di una non-esistenza (già nella prima poesia Ottobre 1942 è denunciata una perdita d’identità che non attanaglia soltanto l’io del poeta ma assume una connotazione storico-sociale: Nessun organo vuole più.... Non se ne può più.... No, non vogliamo più.... Non abbiamo più...).

Ma nel contempo si fa strada la dimensione rivoluzionaria e utopica condensata in una visionarietà epifanica, quasi che il poeta-testimone, trasformatosi in poeta-vate, fosse capace di interpretare i fatti della quotidianità come segni dell’imminente Apocalisse:

Vedo le spiagge asiatiche
Corse di fuochi azzurri in un bagliore nero
E l’Europa balzare dalle acque selvatiche
In groppa al vivo toro dell’antico mistero
....................................................................
Sono suonati i profetici corni
E’ scoccata la dodicesima ora
Scaglia, toro dei giorni,
Il martello di sangue all’aurora
(Ode alla Russia )

Accanto ad una opzione stilistica per il realismo dantesco, per l’invettiva, convive una sorta di naturalismo panico dove si avvertono le tracce di una cultura letteraria stratificata che passa attraverso Virgilio, Lucrezio, Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, e tutto il filone del simbolismo francese e tedesco. Così come il topos lunare, quello che Matacotta ha chiamato il suo "commercio con la luna", ininterrotto dai "Poemetti" fino a "lo spicchio di luna" del "Canzoniere d’amore", pur privo di una componente idillico-romantica, è sempre una traccia della persistenza del modello leopardiano, fosse anch’esso letto con la lente del ribelle e del visionario.

E mentre a livello sociologico agisce su Matacotta un meccanismo di proiezione verso gli archetipi culturali e politici più radicati nelle attese utopiche di quegli anni: l’America di Faulkner, Steinbeck, Dos Passos, e la Russia di Majakowski e Esenin, il reticolato stilistico e metrico rinvia al clima rarefatto della fucina decadente ed ermetica della poesia europea. Versi lunghi alla Whitman, echi dannunziani, simboli rimbaudiani come "il vascello" o mallarmeani come "l’Orsa", suggestioni montaliane ("su questo cielo di vetro"), richiami da Ungaretti e dai surrealisti.

Ma tutte queste impronte sono come amalgamate dall’impeto della rinnovata coscienza morale del poeta.

Nell’aprile del 1946 Franco Matacotta pubblica il romanzo "La lepre bianca" (N.E.I.), la cui elaborazione è durata 10 anni.

L’iter accidentato del testo segue di pari passo la vicenda dell’"amore insolito" di Franco e Sibilla e ne scandisce quasi il ritmo, in una sorta di continuo scambio simbolico tra gesto e segno, tra storia (individuale, di coppia, sociale) e parola.

"La lepre bianca" è, nello stesso tempo, un diario, un’autobiografia, e un recupero memoriale e affabulatorio dell’infanzia.

Matacotta sente il desiderio di far luce nel difficile e complesso rapporto del suo io con il nucleo familiare. Cosicché La lepre bianca è una sorta di scrittura ontogenetica che veniva a prodursi grazie alla volontà di recuperare, attraverso una memoria estremamente analitica (ma anche fantasmatica, onirica) la circolarità, l’unitarietà del proprio esistere.

Il romanzo è anche la storia di una trasgressione, sempre riemergente e mai condotta a termine, contro ogni norma che, in nome dell’ordine collettivo e della ragione sociale, tenda ad imporre dall’esterno un limite al desiderio di affermazione della soggettività primaria. Nelle sue pagine s’ascolta il grido di ribellione e disubbidienza di un individuo che rivendica il diritto alla propria autonoma personalità:

Ribelle, io sono nato: non l’ho imparato da nessun libro, da nessuna esperienza. Anarchico, selvaggio di fronte alle costumanze domestiche, all’ipocrisia di quella legge che viene chiamata del sangue, io lo sono stato costantemente, per elezione e per destino.

Eppure la scrittura fa costante affidamento su di una parola levigata, in cui il rigore formale sembra utilizzato per stabilizzare e raffreddare il calor bianco delle metafore e dei simboli. In un impianto narrativo che segue la tradizione del Bildungroman, utilizzando temi da romanzo gotico e da letteratura romantica (la metamorfosi, l’eros, le esumazioni, la carne, la morte, il diavolo, appunto), Matacotta recupera dannunzianesimo e leopardismo.

Ancora nel ‘46, sotto lo pseudonimo di Francesco Monterosso usato già per alcune poesie pubblicate in riviste e poi raccolte in "Fisarmonica rossa" e successivamente per l’intero Canzoniere di libertà, Matacotta pubblica La terra occupata. "Coro parlato di contadini" (Nuove Edizioni Popolari, Roma).

"L’occupazione delle terre", proprio nel 1946, anno del «Lodo De Gasperi», rappresentava un momento di lotta politica contro lo strapotere dei padroni e dei latifondisti. Matacotta eleva a simbolo di riscatto sociale uno dei tanti episodi di ribellione verificatisi allora e conclusi drammaticamente con l’uccisione di contadini da parte della polizia che non esitava a sparare sui dimostranti. E certo non gli sfugge il valore epico di un evento strettamente legato alle condizioni storiche e morali del paese.

Ma la tragica vicenda di lotta contadina deve trovare una sua corrispondenza ideologica in una struttura poetica che sia segno della partecipazione collettiva al trionfo della speranza in un mondo libero e giusto. Ne derivano l’adozione della tecnica corale (a più voci), il ritmo cadenzato dei versi che nel succedersi delle rime baciate ripropongono l’andamento del canto popolare, l’anafora ossessiva.

Soprattutto nel "Pianto della madre sul figlio ucciso" emerge l’assunzione del modello, culturale e sociale insieme, di Jacopone da Todi e del suo lamento della Madonna, intessuto di immagini in cui la sensibilità popolare è rappresentata con un linguaggio di grande sapienza retorica e desunto dalla tradizione colta:

Figlio, tutto scurito dalle more
figlio,la vena più grossa del cuore
figlio, appoggiato ancora a bere
ma sulle braccia non ti so tenere.
Sangue più rosso della melagrana
bocca più dolce delle melerose
vene più verdi dell’erba murana
petto bramato da tutte le spose.

Nel 1948 Matacotta pubblica "Naialuna" (Amici della Poesia, Fermo), smilzo volumetto di versi che raccoglie i componimenti scritti tra il 1941 e il 1942, e che si ricollega idealmente alla fase preparatoria di Fisarmonica rossa, quando il giovane artigliere, non ancora giunto alla consapevolezza ideologica, si rende tuttavia conto della capacità d’incidenza della parola poetica, se questa è calata nel sangue e nel cuore degli uomini.

Come ha scritto Alvaro Valentini, i versi di "Naialuna" "testimoniano anzitutto un primo modo di ‘resistere’. Il poeta (e la sua luna) sopravvivono nel soldato (e nella sua naia): ma sopravvivono al prezzo di una incipiente lacerazione".

Qui il paradiso della memoria (c’è un frammento tradotto del "Paradiso perduto" di Milton) si scontra con l’inferno della vita militare in Sardegna (terra rovinosa e nuda popolata di serpi), la leopardiana nostalgia della giovinezza con l’altrettanto leopardiano tema del morto giovane ("Richiamo del bambino di Milis"), che s’innesta tra l’altro sulla linea Catullo-Foscolo, la speranza di un’acqua fecondatrice con la certezza di un’aridità senza scampo.

Ma è soprattutto la scoperta della compresenza di vita e morte nell’esistenza, di bene e male nel contingente, ad avviare Matacotta verso una poesia di più forte impronta filosofica ed esistenziale ("Qui non c’è fiore senza veleno").

Tuttavia, forse perché la voce del poeta non ha ancora raggiunto una sua autenticità, in "Naialuna" è trasparente la filigrana delle fonti: il D’Annunzio panico, il Petrarca della memoria come luogo della conoscenza, ma anche Pascoli, Gozzano, Montale, e infine Garcìa Lorca delle saghe popolari, la cui eco è profonda in Donne nel fiume, dove l’andamento di canzone popolare a rima baciata si alterna a quello, altrettanto popolare, del contrasto amoroso. Con "Ubbidiamo alla terra" (Edizioni del Girasole, Roma, 1949), che raccoglie poesie scritte tra il 1946 e il 1947, Matacotta sembra tornare ai prediletti temi dell’orfismo romantico, da Novalis a Campana attraverso Nietzsche ("Frammento alla notte", "Vagabondi"), al naturalismo un pò misterico di Pascoli (Cessa di bussare vento, La sera della domenica), filtrato magari dal Leopardi delle "favole antiche", della nostalgia per il primigenio accordo tra natura e cultura.

Ma sempre più evidente si fa la scelta, nel gioco delle isotopie ricorrenti, per una poesia che ponga domande sulle ragioni ultime e sulle finalità etiche dell’esistere del mondo e nel mondo ("Perché ti chiamo?"; "per chi risplendi tu, fuoco del sole?"; "Per chi brilli, fiore?"; "Per chi sei fatto, sole?"; "Per chi sospiri tu,vetro di voce?"; "Questo mare di sangue perché, sole ?").

Nel 1953 Matacotta riunisce nel "Canzoniere di libertà" (La Nuova Strada, Roma) tutte le composizioni di carattere civile e politico. Ripubblica Fisarmonica rossa e La terra occupata; inserisce le nuove sezioni "I sette dolori del partigiano", "Il Poeta impegnato"; aggiunge quattro Canti ("Canto del torrente", "Canto mondiale della gioventù", "Canto di Luca Moro", "Canto d’Aprile"), aggiunge il "Coro di cavapietre" e "Coro di spazzini all’alba".

Tornato allo pseudonimo di Francesco Monterosso, Matacotta si affida ad un populismo di maniera, che presenta tutti i limiti di un prodotto di laboratorio.

Se le liriche di "Fisarmonica rossa" si salvavano proprio per la loro violenta soggettività, per quel loro riferirsi ad un groviglio unico ed individuale di emozioni e sensazioni, le poesie del Canzoniere risultano invece velleitarie nel volere aprirsi verso una simbolizzazione corale e collettiva della storia di un intero popolo.

La voce del poeta perde d’autenticità perché le sue parole sono come in prestito alla lotta di classe, all’ideologia. L’utopia visionaria e rivoluzionaria non ha più l’intensità di certe immagini di "Fisarmonica rossa". Scorporata dall’esperienza personale e assurta a certezza del futuro, essa si riduce a retorica politica, a falsa coscienza.

Certo, sul piano stilistico, si amplia tutto il sistema della iterazione, della scansione ritmica della canzone popolare, delle sequenze nominali, ma si perde il valore mitopoietico che aveva fatto delle metafore di "Fisarmonica rossa" i suggelli roventi di un tentativo di sintesi fra natura e storia, fra estetica ed etica.

Se "Canzoniere di libertà" è legato ad un momento di grande impegno politico (iscrittosi al Partito Comunista Italiano, per molto tempo Matacotta aveva svolto funzioni a livello di dirigenza periferica non senza contrasti con il direttivo centrale), "I mesi" (pubblicato, ancora con lo pseudonimo di Francesco Monterosso, da Schwarz, Milano, nel 1956), è un volume in cui Matacotta rimedita la sua storia privata come un valore testimoniale di una più ampia socialità.

La vita dell’uomo, la sua esistenza quotidiana, fatta di microeventi, di ricordi, di rapporto con la natura, è anzi l’elemento minimo ma fondamentale della dialettica storica ed è qui collocato nel ritmo biologico e naturale di un’intera cosmogonia. Il poeta è tutto impegnato nel trovare un rapporto armonico tra la sua condizione e quella degli altri uomini, tra il suo stato e quello del paesaggio umano in cui vive.

In "Canto di maggio" la simbologia del rifiorire della natura si fonde con quella politica del Primo Maggio, così come il trionfo della rosa propone un legame con "Rosa, mia sposa". O, in "Canto di giugno", la descrizione della trebbiatura nelle Marche procede anche per suggestioni fonico-induttive, attraverso l’inserimento di noti stornelli marchigiani cantati dai mietitori; mentre in Canto di settembre il ricordo del sacrificio dei martiri di Cefalonia acquista una più profonda drammaticità con le continue allusioni all’epos classico.

Matacotta recupera, e non solo nell’ambito tematico e iconico,il Petrarca civile di "Italia mia" (Canto di dicembre), il Leopardi utopico e sociale della "Ginestra" (Canto di novembre), il Manzoni dell’"Adelchi", ma anche, sul versante più strettamente stilistico, certe procedure retoriche della scuola toscana e dello stilnovismo: l’uso del señal: (come nel caso di "rosa") e l’identificazione tra natura e sentimento ("e per chi ama ogni mattino è maggio").

Ma la scoperta dell’amore come motore dell’umanità, fatta da Matacotta dopo la violenza e la rabbia di Fisarmonica rossa, necessarie per recuperare almeno una iniziale condizione di purezza, è oscurata dagli eventi storici degli anni futuri, da "quelle piccole cose d’Ungheria" (XXI) "piccole come piccola la morte, "la grande morte degli uomini vivi".

La rivolta antistalinista di Budapest dal 23 ottobre al 4 novembre 1956 e la successiva repressione da parte dell’Unione Sovietica, rimettono in discussione il problema della libertà in un sistema comunista, anzi nel sistema per antonomasia, essendo considerata l’URSS lo Stato guida del comunismo internazionale.

Franco Matacotta subisce, come molti intellettuali comunisti di allora, una profonda crisi di coscienza. I "Versi copernicani", pubblicati da Vallecchi nel 1957, rappresentano il momento della rivoluzione copernicana rispetto al sistema tolemaico dell’ipse dixit e del totalitarismo ideologico.

Matacotta rivendica il diritto all’esercizio della poesia come simbolo di libertà, ma la difesa di questa va realizzata nei minimi gesti, nella prassi quotidiana. Le immagini dell’acqua ferma, dello stagno, il ritorno della nebbia e della notte contro cui lottano la luce e l’alba sono tutti correlativi oggettivi del ritorno della violenza, dell’oppressione, dell’intolleranza:

......Ahi libertà, morire
di te, di quest’aurora
vissuta per l’amore.
(XIX)

Torna a riproporsi nella sua purezza l’ideale di libertà e fratellanza della Resistenza, entro cui s’inserisce anche la parola poetica come pronuncia d’impegno sociale:

Solo chi ha visto ed ha capito è puro.
Il suo problema è
Seminare il deserto.
Una generazione viene
Che porta fiori freddi.
Dall’inverno ha inizio la primavera
(XXVII).

"Gli orti marchigiani" (Rebellato, Padova, 1959) segnano invece il ritorno ad uno spazio esistenziale ben definito (non a caso nel volumetto il poeta fa largo uso di deittici: "qui, questi, sto in mezzo agli orti"), quello della tranquilla, ma solo in apparenza, provincia marchigiana. Perché se è vero che qui gli echi della cronaca e della grande storia giungono attutiti (spenti gli ardori resistenziali, dilapidate le speranze di un profondo rinnovamento politico e sociale), è altrettanto vero che qui è possibile avviare, attraverso i ricordi personali, una speculazione intellettuale sugli enigmi dell’esistenza, comprendere, a contatto con la natura, il senso della vita e della morte:

...................................E da qui vedo
prossimo,ma remoto come un triste
sogno che ad occhi aperti mi ha angosciato
coi coni d’ombra delle strade, il roco
strepito delle piazze fulminate
di campanili a picco, l’oro vedo
della città, quella lubrica selva
di nomi. Qui noi ci chiamiamo a un cenno
del capo. Siamo bruschi, freddi, soli
come le gocciole.Ma uniti, caldi,
enormi come la pioggia. Parliamo
una lingua di schegge, una cadenza
ch’è di fanciulli eterni. Ma la morte
è qui la fine di una vita, il tempo
di una compiuta favola. Si muore
d’aver vissuto. Perché qui si vive,
ogni minuto, di speranza. Ed io
sono tra questi..........
(Gli orti marchigiani).

Vita e morte sono gli assi portanti del discorso degli Orti: l’una presuppone l’altra, il valore dell’una è dato dalla ineluttabilità dell’altra: "Amavo la morte perché credevo nella vita". Certo, la traccia leopardiana, anche per ragioni toponomastiche, è molto marcata: paesaggi, squarci, feste paesane, quieti dopo la tempesta, mare e colline, sono quelli leopardiani, così come lo sono gli orti, i vicoli, le vecchie, i fanciulli, le voci, gli odori. Ma nulla di idillico, nemmeno nella continua nostalgia della giovinezza.

"Tornato qui tra questi paesi densi", Matacotta s’accorge che anch’essi stanno cambiando sotto la spinta dello sviluppo industriale. Tra città e campagna il confine non è più netto: la periferia si dilata e dilaga. C’è dunque negli "Orti marchigiani" come un’impronta pasoliniana che ricorda in certi tagli di inquadrature, in certe descrizioni di periferia e dei garzoni che in essa vivono, i versi delle "Ceneri" di Gramsci. Il punto di contatto tra storia collettiva e storia personale è ancora una volta nel vincolo dell’amore. Matacotta, recuperando anche certe influenze ungarettiane (vedi Alla foce dell’Ete), si sente ora in armonia con il suo mondo ("La città mi ha respinto perché io ho odiato la città"; "Sono tornato a casa, ho ritrovato le mie dolci persone"), anche se sa che la lotta è una condizione necessaria dell’esistere ("Sempre si vive di resistenza alla vita").

L’ideale resistenziale non ha ora solo valore politico e bellico ma anche gnoseologico e teleologico.

Nell’ottobre del ‘59 Matacotta parte improvvisamente per Milano. Egli desidera conoscere la grande città, fare nuove esperienze, cullare nuove chimere. Dopo aver conosciuto l’ambiente romano e quello della provincia marchigiana, ora Matacotta vuol fare i conti con la città dello sviluppo industriale, del lavoro, dell’efficienza economica.

Ma l’8 luglio del 1960 il primogenito Massimo, non ancora dodicenne, viene trovato morto nella sua stanza, nella casa dei nonni, ad Ancona, con una cinghia appesa alla finestra e stretta attorno al collo. Il dolore per la morte del figlio segnerà indelebilmente la vita e la poesia di Franco. Sedici anni dopo la pubblicazione degli "Orti", Carlo Antognini pubblica per le edizioni L’Astrogallo di Ancona il volume di Matacotta La peste di Milano e altri poemetti (1975), che raccoglie poesie scritte tra il 1959 e il 1961 e che comprende "I milanesi", gli "Inni" (dedicati al figlio morto), "I corvi di Poe".

Nella prima sezione il poeta lancia la sua invettiva anticapitalista contro una città labirintica, che vive in una "oscurità vaginale ricolma insaziata", utilizzando la componente descrittivo-enumerativa come segno stilistico di una denuncia contro la sede di una peste antica, rinnovata dalla civiltà tecnologica e occultata da un attivismo che non mira al bene comune ma al proprio rendiconto personale.

Milano è una città di morte così come i suoi fiumi (il Lambro e l’Olona) trasportano morte, i resti di un mondo inesorabilmente in decomposizione, incancrenito da un male che è assenza d’amore. Ma c’è già nei Milanesi una prosodia molto attenta, fatta di assonanze e rime interne, una perizia metrica che risulterà essenziale per sostenere l’ampiezza di respiro e la complessità strutturale degli Inni, costruiti su una serie di asserzioni, immediatamente contraddette da un fitto reticolo di incisi negativi.

Il colloquio ininterrotto con il figlio morto si trasforma in soliloquio con un tu in cui si identifica l’alter-ego di Matacotta. La parola chiave resta quella leopardiana di giovinezza, perduta dal fanciullo morto e dal Matacotta vivo ma indissolubilmente legato a quella morte. Giovinezza come nostalgia ma anche come rimorso:

Lo dirai tu. Tu devi dirlo a me.
Che è questo sospiro disperato.
Che è, insospetta, prima del sospiro,
la giovinezza. Che è quest’asprezza
di vivere ciascuno tra bei vani
rimpianti la sua fretta di morire.
Dimmelo. Non rimandare a domani
questo feroce iato della vita.
(Inno sesto)

In un ritmo avviluppante, a spirale ("la spirale è il fine"), nell’insistenza degli interrogativi, Matacotta accede ad una forma di poesia filosofica, in cui il pensiero che si rinchiude su se stesso dà alle parole una dimensione teoretica se non proprio metafisica. Tra il caso e la necessità (lemmi che ricorrono spesso negli Inni, e Matacotta aveva certo letto Democrito), la poesia si presenta come insopprimibile esigenza di nominare le cose per conoscerle e farle vivere:

Che hai, che fai, ora che è andato il vento,
che non ti stanchi mai, singhiozzo, sogno,
sospiro disperato? L’hai chiamato
dappertutto. Non gli hai dato un momento
di tregua. Adesso lascialo. Lo sai
quanto male gli fai con il tuo pianto.
Tanto quaggiù non lo riavrai più mai,
se non illuderti vorrai di questo
spesso muro. Dal recesso ove tu
accartocciato ti disperi, rompi
l’oscuro involucro d’un ieri senza
pietà. Compi il tuo gesto. Fa’ che presto
segua il suo giro destinato questo
tuo oggetto di sospiro, in questo lento
muto universo. Ama la tua sola
salvezza, la parola. Chiama il vento!
(Inno settimo)

Il nesso storia-esistenza non basta più: bisogna arrivare ai nodi dell’essere, sentito come valore tramite un persistente rimpianto dell’unità, percezione di una mancanza continuamente riproposta dalla morte.

In una sorta di misticismo naturalista e laico in cui convergono panismo, orfismo e ilozoismo, il poeta accede all’idea cosmica di "uno spazio senza fine oltre l’etere convesso" ed è pronto ad ammettere che "l’inesistente esiste / un po’ più in su dello spazio dello sguardo" (Inno settimo).

L’esperienza letteraria di Matacotta, almeno per quanto riguarda le opere edite, si conclude con Canzoniere d’ amore (L’Astrogallo, Ancona, 1977).

Dopo venticinque anni dal Canzoniere di libertà, espressione di lotta politica, di impegno politico e civile, un canzoniere privato, legato alla nuova scoperta della donna. Matacotta non è cambiato. E’ tornato, con tono più domestico ed umano, ai miti che nei Poemetti aveva sviluppato in proiezione cosmica: la grande madre terra, la fecondità della natura, amore e morte; ma ora tutti concentrati nella realtà di una donna con cui si coniugano esperienza esistenziale e scrittura poetica. Ma in più c’è la disperata calma di chi sa che anche nei giochi luminosi del sesso c’è il presagio di morte:

fragilità, sapienza del vacuo, dell’effimero
essere di non essere. La morte dici. Ma
può essere l’amore. Morire d’essere vivi
( Ti cerco nel possesso).

C’è la messa in gioco della vita fin dentro la morte. Come ha scritto Bataille, "in ogni caso, fondamento dell’effusione sessuale è la negazione dell’isolamento dell’io, che conosce il pieno soddisfacimento soltanto estenuandosi, oltrepassando se stesso nell’abbraccio in cui la solitudine dell’essere si perde".

L’eros di "Canzoniere d’amore" ha sempre la traccia della disperazione, di una continua nostalgia del profondo che nell’atto sessuale è sublimata e insieme perduta. La ‘voluptas’ propagatrice di vita nell’universo, che dà forma alla terra, al mare, al vento, dà invece all’uomo il senso drammatico della differenza, della morte.

Ma anche in quest’opera il legame con la grande poesia ‘borghese’ è facilmente rintracciabile: Leopardi, Pascoli, Ungaretti, Montale. Sembra quasi che il destino poetico di Matacotta sia quello di trovare un’autenticità della propria voce, facendo perno sulla distanza psicologica che lo divide dalle fonti del suo magistero linguistico e espressivo.

Matacotta muore nell’aprile del 1978, "poeta e cittadino dimenticato".

   
   
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