EVARISTO BONCINELLI
di
ORIO VERGANI
da:
L'Illustrazione Italiana, settembre 1946, rubrica "Le Arti"
Riprendendo sotto i miti colori del settembre queste note d’arte parliamo di un altro artista scomparso, la cui morte è stata segnalata con tre righe in un solo quotidiano milanese, ma il cui «caso» fu molto discusso e il cui ricordo non sarà certamente cancellato nella storia dell’arte contemporanea.
In un manicomio toscano, dov'era ricoverato da una ventina d'anni, è morto dunque anche alla triste vita fisica cui la malattia lo aveva condannato dopo che si era spento il suo spirito creativo, Evaristo Boncinelli.
Aveva passato i sessant'anni, e ignorava, ormai, di essere stato, in gioventù, un ardito e potente scultore, figlio non indegno della grande tradizione della sua gente.
Il male che aveva ucciso il suo cervello lo faceva vicino, nel nostro ricordo, a un altro artista, il pittore trevigiano Rossi, chiuso anche lui in una casa di cura da quasi vent'anni, e la cui opera, rivalutata da Nino Barbantini e da Giovanni Comisso, è stata ripresentata anche in questi ultimi tempi a Milano, quando abbiamo avuto occasione di parlarne, in queste stesse pagine.
Il pittore era stato, tra i giovani veneti del suo tempo, il primo ad aprir l’animo ai suggerimenti del post-impressionismo, e, sopratutto, ad accettare la grande lezione di Van Gogh e quella più immediata del primo cubismo, Evaristo Boncinelli era stato, invece, sempre fedele, spiritualmente e manualmente fedele, alla tradizione.
I toscani sono sempre stati ascoltatori attentissimi del vero interpretato attraverso una comprensione che accetta i limiti della realtà e la esalta attraverso l'intimità della visione.
Boncinelli era stato lo scultore della povera gente, l'interprete di una serie di maschere del disperato mondo quotidiano. A differenza di Lorenzo Viani, che guardò anche lui al mondo dei poveri e dei «vàgeri» attraverso un allucinante sintetismo pittorico, Boncinelli si fermò minuzioso e crudele sulla più dura realtà dei suoi modelli.
Poverissimo, non poté affrontare la grande statuaria e forse fu un bene perché nei grandi sviluppi plastici certe sue qualità di spietato realismo si sarebbero forse perdute. Fu scultore di poveri diavoli, come gli venivano incontro dalla campagna, da quella campagna che non ha voluto per lui arcadici e idillici modelli, ma una serie aspra di personaggi di tragica e dura sembianza umana. Fu lo scultore del dolore, presago forse della lunga attesa cui sarebbe stato sottoposto prima di giungere alla liberazione finale del suo spirito.
Le sue opere, dopo la sua scomparsa dalla vita attiva, furono ripresentate varie volte, e le vedemmo anche in una saletta della Biennale. Accanto al lieve florealismo di Libero Andreotti, maestro della giovane scuola fiorentina, il mesto realismo del Boncinelli rappresentava, della tradizione toscana, la tendenza meno elegante, ma forse più profondamente viva.
Nell’arte del Boncinelli non c'è nessuna concessione alle suggestioni esteriori che portano quasi sempre al decorativismo.
C’era un’intima e pacata solennità nella sua interpretazione della natura dolente: un’angosciosa solennità. A Firenze, in quei tempi, vicino ad Andreotti, cresceva la grande sensuale forza plastica di Graziosi, che doveva esaurirsi in un puro piacere di plasmatore.
Boncinelli insegnava una dura sofferenza, guardando in faccia, senza retorica, una dura intimità del suo tempo.
C'è da augurarsi che, in queste ore in cui bisogna raccogliere e salvare tutto quello che è salvabile, a cominciare dal patrimonio d’arte che documenta la nostra epoca, l'opera di Evaristo Boncinelli sia finalmente raccolta in modo perenne.