Campana. La maledizione di essere un poeta
Versi estremi. Si stampano i taccuini inediti dell’autore dei Canti Orfici.
Sono la riconferma di un grande genio. La sua vita? Una tragica favola, oggi diventata un best seller.
Solo, nel tempestoso silenzio
di Carlo Bo
Dal Corriere della Sera
15 luglio 1990
Quando Dino Campana morì nel manicomio di Castel Pulci, dove aveva passato ben quattordici anni, nel 1932 la notizia passò sotto silenzio, soltanto il giornale della sera di Firenze ne fece cenno in due righe. Eppure era morto uno dei grandi poeti del Novecento e sotto certi aspetti il poeta puro per eccellenza, un uomo che si era e in maniera tragica identificato con la sua chimera poetica.
C'è una giustificazione però del silenzio e dell'oblio: Campana aveva avuto il suo momento più che di celebrità, di curiosità prima della guerra e soltanto Boine e Cecchi lo avevano saputo comprendere, altri come Papini e Soffici gli dettero qualche credito ma, alla fine, se ne disinteressarono: Campana non poteva convivere con i letterati, così come i letterati non potevano tradire la regola del gruppo e fare di un'eccezione, un esempio.
Oggi è studiato e sarebbe troppo lungo ricordare tutti i suoi esegeti, è una prosperosa famiglia di intenditori che attraverso i Canti Orfici preferiscono leggere tutta la poesia nuova, compresa quella dei grandi (Ungaretti, Montale ecc.). La disposizione critica mi sembra giusta, la poesia italiana del Novecento sarebbe stata diversa se non ci fosse stato Campana, non dico che non sarebbe «stata», dico soltanto che la sua influenza diretta e indiretta è stata capitale.
Per quale ragione? Non faccio nessuna allusione alla leggenda dell'uomo che in fondo ha più disturbato che aiutato la verità, mi riferisco alla natura della sua poesia che è diventata rivoluzionaria al di là e contro le intenzioni dello stesso poeta.
Campana ha lasciato accanto ai suoi testi che di solito erano di derivazione letteraria (molto Carducci e quei poeti stranieri appena frequentati e conosciuti) sempre un margine di dissoluzione e di scomposizione che porta a una forte correzione della sua frase e ne fa il poeta in attesa, uno spirito che a un certo punto getta le armi e aspetta un'altra voce. Per questo lo si è potuto accostare ai romantici minori che per molti versi si erano trovati nella sua condizione di impotenza e di eccesso di forza.
Campana ci appare un poeta che non è mai riuscito a portare a termine quello che comunemente viene detto un componimento poetico, avrebbe voluto essere come gli altri ma non ha mai potuto soddisfare un proposito così semplice. Prendeva a parlare, sostenuto dalla forza, molte volte dalla foga della passione e improvvisamente gli si rompeva la voce, la sua fantasia naufragava, altre volte il discorso deragliava in maniera drammatica.
Campana sta in questa forma costante di contraddizione interiore e non si pensi alla sua follia, ciò che gli accadeva dipendeva dall'intervento di un'altra voce. Qualcosa di simile lo si registra nel suo maggiore fratello e contemporaneo, il Rébora, in effetti per tutt'e due il solo porto consentito raggiungibile era quello del silenzio. Silenzio non come segno di pace, al contrario come figura del dolore e della disperazione.
Rébora avrebbe continuato per altri dodici anni prima di chiudersi in convento, un destino più crudele era riservato al Campana ospite del manicomio, con la sola consolazione di poter parlare con il medico della casa, il dottor Pariani. Campana per queste ragioni non è il poeta maledetto della tradizione letteraria, era il poeta condannato a subire la fragilità e la pena dell'uomo, così come lo vediamo nelle fotografie delle istituzioni. Per la sua grandezza, per la forza nuova della sua voce, Campana va ben al di là delle nostre sistemazioni che sono viziate all'origine; noi procediamo con i testi che ci sono consentiti dalla storia critica, lui viveva e camminava su altre strade, di cui ignorava natura e fine.
Nel decennale della morte, Piero Bargellini pensò di onorare Campana con una celebrazione a cui erano presenti ministri (Bottai) maestri dell'università (De Robertis e Russo) e tanti giovani. Qualche giorno prima avevo assistito alla riesumazione della salma di Campana; per la natura del terreno del cimitero che era vicino all'Arno, dell'uomo non restava più nulla; il cranio, alcune ossa. Quel poco che era rimasto venne poi composto e sepolto in una chiesa che due anni dopo sarebbe stata bombardata durante la guerra.
Ripenso spesso a quella cerimonia d'amore destinato alla morte e la leggo come un fatto simbolico: il corpo era stato distrutto, il sepolcro sarebbe stato violato, restava soltanto il poeta dei Canti Orfici. L'uomo era stato battuto e umiliato dalla vita, il poeta nessuno l'avrebbe fermato più e le sempre nuove fortune stanno a confermare la giusta scelta e la dedizione dei suoi fedeli, di chi sarebbe stato condannato alla parte dello spettatore ammirato e nello stesso tempo di lettore incapace senza ultime armi.