Quasi un uomo

 

di Natalia Ginzburg

 

da La Stampa

 

domenica 5 febbraio 1978

 

 

A Gabriel Cacho Millet, drammaturgo argentino, dobbiamo il monologo Quasi un uomo, evocazione della figura del poeta Dino Campana. A Mario Maranzana dobbiamo la versione italiana, l'adattamento, e l'interpretazione del monologo. Quasi un uomo, io l'ho visto al Teatro Flaiano di Roma, l'altra sera.

Dino Campana nacque a Marradi, nel 1885. Ebbe una vita nomade, tormentata e miserabile. Fu internato una prima volta in manicomio, a Imola, quando aveva ventun anni. Studiò chimica, senza profitto («non ne capivo nulla»). Viaggiò l'Europa e l'America e visse dei mestieri più diversi. Fu carbonaio, fuochista, sterratore, pompiere, vendette stelle filanti nelle fiere. I suoi versi, i canti orfici, uscirono nel 1914, e pochi se ne accorsero. Egli usava vendere copie del suo libro nei caffè («ero povero»). Soltanto nel '28, all'uscita della seconda edizione, lo raggiunse la fama. Egli era ormai da anni nel manicomio di Castel Pulci, a Firenze. Qui morì, di una setticemia, nel '32.

Nel monologo Quasi un uomo si immagina che un gruppo di persone sia venuto a visitare il poeta nel manicomio, e in silenzio lo ascolti fantasticare, vaneggiare, ricordare. Il monologo è fatto di squarci di versi e prose, tratti dai Canti orfici, di frammenti di lettere, e di interpolazioni. Passano nella memoria del poeta volti e attimi della sua vita, ora chiari, e ora deformati e lacerati dalla sua allucinazione: le notti nei ricoveri, i vagabondaggi, la miseria; gli esseri che ha amato, gli esseri che ha detestato; quelli che l'hanno offeso, quelli che l'hanno chiamato genio; passano sogni e spettri.

Giovanni Papini, che non gli restituisce il manoscritto, e a cui egli manda lettere minacciose; Sibilla Aleramo, a cui fu legato da una tempestosa relazione. Divampano, nel suo delirio, il dileggio, le collere, le esecrazioni e gli affetti. Mario Maranzana recita, nelle spoglie del poeta, con passione e con sobrietà, e il testo di Cacho Millet è degno di stima. Esso lascia però, o almeno a me ha lasciato, un senso di disagio. La figura umana è cosa delicata, e a toccarla, ad aggiungervi anche soltanto qualche particolare, qualche minimo eccesso di colore, va in polvere.

Forse Campana è morto da troppo pochi anni; forse la sua poesia e la sua esistenza sono ancora troppo poco note, per osservarle dalla platea d'un teatro; è questo un modo di indurre la gente a leggerlo e a conoscerlo, certo; però io non credo che sia, questo modo, il migliore. Io non amo, a dir vero, questo tipo di spettacolo: trovo che non è mai chiaro dove comincia e finisce Campana, dove Maranzana, dove Cacho Millet; e benché Maranzana reciti con misura, non un momento mi ha sfiorato, nell'ascoltarlo, l'idea che egli fosse Campana e pensavo sempre che Campana era non so dove e altrove.

Avrei molto preferito che si ricordasse Campana senza alcuna finzione scenica, semplicemente leggendo i suoi versi. Tornata a casa, mi sono riletta, nel volume dei Canti orfici, una nota di Enrico Falqui. Nelle parole di Campana, qui riportate, appaiono la sua voce e il suo volto, ben più limpide che in ogni ricostruzione teatrale. La sua voce suona così triste, cosi assorta, cosi schiva. Quando il critico Binazzi lo compiange «come un infelice di genio» Campana risponde: «Io no, signore, non sono infelice». Alle espressioni del critico, «la sua angoscia senza limiti», e «tragico asilo», Campana dice: «Quello non è vero. Io vivo tranquillo. Sono frasi giornalistiche. Sono cose naturalmente per reclame».

Al critico, che lo paragona a «una meteora dalle miriadi di colori sotto i cieli alquanto bigi del futurismo prebellico» Campana risponde: «Ogni tanto scrivevo dei versi balzani, ma non ero futurista. Io facevo un poco di arte». Non c'è spettacolo teatrale che riesca a dare la desolazione, il pudore e l'orgoglio di quell'imperfetto. Né c'è spettacolo teatrale che riesca a dare un accento così lucido, cosi accorato, così veritiero. Meglio rileggere, a casa, le sue parole scritte: «Avevo qualche arte, ma poi non ne ho più». «Ho dei giorni lucidi e dei giorni che non ricordo». «Sissignore, divenni pazzo completamente». «Il verso libero futurista è falso... Io facevo un poco di arte».