Tra strade e chiese di Montesangiusto, ragazze al deschetto del calzolaio
La stranezza di una industria marchigiana che
dalla prima guerra europea fu affidata alle donne
di Franco Matacotta
Pubblicato su "La Voce d'Italia", 12 Ottobre 1941, pag. 3
MONTESANGIUSTO, ottobre.
Cento casette, un campanile, una cinta antichissima di mura. Monturano, Santelpidio, Montegranaro, Montesangiusto: quattro piccole patrie della calzatura italiana a mano. Non che vi sia sconosciuta la lavorazione meccanizzata, anzi da qualche anno vi funzionano grandi laboratori, che tentano di seppellire nell'ombra l'altra industria nativa, che è stata e rimane la singolarità e l'orgoglio di quei luoghi.
Un'industria gelosissima, tutta raccolta nell'ambito della famiglia, che si tramanda di padre in figlio e di madre in figlia come una religione, e che ostinatamente resiste. Resiste con una protervia tutta marchigiana. Questi lavoratori della calzatura a mano si ritirano via via sempre più nell'interno del paese, nelle profondità dei vicoli, dietro uno spigolo, magari dentro un cortile, mentre dintorno alle mura, per le strade di circonvallazione le fabbriche crescono e rombano sempre più forte e minacciose.
Lavoratori, ho detto. Ma no, anzi, lavoratrici. Perchè la stranezza di tale industria marchigiana è precisamente questa: che fin dagli anni della prima grande guerra europea, quando gli uomini partirono per il fronte e le donne li sostituirono sui deschetti del lavoro con una destrezza e una abnegazione che han dell'eroico, la manodopera è fornita ormai quasi esclusivamente da elementi femminili. Gli uomini preferiscono semmai andare ad abbracciare le loro macchine nelle fabbriche dintorno alle mura, vivono nei luminosi laboratori moderni, e le donne se ne restano lassù nel labirinto dei vicoli bui, con le case sul capo.
Un fetore di pelli, di colla e di tinture avvolge il volto decrepito di questi paesi. Ragazze col grembiule sudicio e incartapecorito, dal quale spunta un fiocco azzurro o un merletto del vestito, stanno a gruppetti di tre quattro dinanzi all'uscio di casa, accanto al deschetto. Cominciano bambine, verso i dieci anni, a battere su « lo cippitto » i ritagli di pelle di vacca di montone di vitello che sono accatastati nelle ceste. E crescendo d'anni, crescono di esperienza e di grado: tagliatrici, trapuntatrici, bloccatrici. Tutto il giorno tirano lo spago, incollano, trapuntano.
Battono sul ferro poggiato sopra le ginocchia incallite. E le mani, dal dorso gonfio e roseo e dalla palma dura e inzaccherata, reggono martelli e trincetti. Alla grazia che trincetti! Curve sul lavoro, colle facce scure dai duri zigomi selvaggi, coi capelli setolosi e il sorriso candidissimo, le tagliatrici preparano il pezzame per il fondo della scarpa e vibrano le lame con aria di scotennatrici. Le orlatrici dentro le stanze trapuntano sulla macchina il « dritto » colla fodera. E cantano dolcemente, vincendo il crepito del pedale. Le bloccatrici rispondono dalla strada bloccando la calzatura sulla forma di legno; rispondono con un canto a bocca chiusa, lugubre come l'ululo del vento che logora le fessure, stringendo fra le labbra le bollette per inchiodare il fondo di cuoio.
Infine, quelle addette al lavoro di finisaggio raffilano col coltello la pianta della scarpa, la strofinano colla carta vetrata, la tingono col negrofumo, la lucidano colla cera. Tolta dalla forma, la calzatura è pronta; mancano i piedi per calzarla. Ed ecco che sopraggiunge il grossista a rilevarle. E contratta per la settimana ventura, pretendendo dalle lavoranti fino dieci paia di scarpe da bambino al giorno. Un sudar nero per quelle adorabili creature!
Sono ragazze per lo più sode e freschissime, d'uno straordinario candore, che consumano il tempo della loro giovinezza fra il deschetto della strada ed il banco della chiesa. Qualche « bellezza » raccoglie intorno alla sua persona il fior fiore della gioventù maschile. E sta come l'ostensorio fra i cori degli angioli. Angioli incrostati di colla e di negrofumo, per lo più taciturni, con un cipiglio tra ironico e stupefatto negli occhi, ultimi campioni d'una razza troppo ardita e savia per poter credere nella parola. Preferiscono lo stupore e il silenzio.
E se qualcuno più svagatello s'azzarda di avviare un discorso magari contenuto e misteriosetto per via delle ragazze che gli sono accanto e mettono nell'aria pallida e stantia il loro alito profumato, ecco che gli anziani brontolano dai loro deschettì poco discosti, e starnazzano come fosforescenti uccelli notturni, facendo col braccio gesto di avventarsi. Solamente è lecito il cantare. E la voce poggiando su due o tre cadenze sole si leva tetra e disperata, con il sibilo e lo stridore delle bloccatrici meccaniche che fanno funebrissimo bordone.
Intorno alla fonte
A mezzogiorno, le ragazze cessano di battere su « lo cippitto » e vanno a togliere l'acqua. Scambiano quattro chiacchiere con le amiche intorno alla fonte; poi, se ne risalgono la costa con la brocca sul capo. Olivastre, severe, ieratiche, come le vergini delle icone. E nel vederle avanzare lentamente nei vicoli stretti e sgretolati, fra le cimase che pare stiano per crollare, cogli in quelle braccia armoniosamente rialzate sul capo il senso dell'antica cariatide. Consumato il pasto frugalissimo, si prendono perfino il lusso d'una piccola siesta.
Gli uomini si scelgono un posticino tranquillo e soleggiato per lo più ai piedi d'un palazzo. A Montesangiusto, per esempio, usano strafarsi ai piedi di quello che il cardinale Niccolò Bonafede, vescovo di Chiusi, celebre nel paesino per una certa avventuretta piuttosto galante, fece innalzare sul principio del '500 verso il lato meridionale delle mura. Superbo nella sua mole guelfa, e perfettamente conservato. E gli uomini gli si accucciano accanto, come cani sonnacchiosi. E' un modo come un altro di venerare le proprie reliquie d'arte e di assaporare un poco il gusto del passato.
Le ragazze, invece, si raccolgono negli orticelli e nei cortili, i giorni di sole. Tutta la flora è costituita da un arbusto risecchito e qualche foglietta d'insalata e qualche cipolla. Chi ha un geranio o un garofano si ritiene privilegiata, per la postura soleggiata della casa. Chi riesce poi a fare attecchire una pianticella di rose fa il voto alla Madonna e diviene figlia di Maria. In quella mezzoretta di tregua si scambiano i loro guai d'amore. E taluna, specchiandosi nel sole, mostra negli occhi un'accoratezza senza conforto.
Come quella « bellezza » diciottenne, che sotto voce e facendosi schermo colla mano confessa candidamente di non aver mai amato il mestiere di calzolara. E nel dirlo, diviene rossa come un granato. Se non fosse per u padre ch'è così severo, lei sarebbe bell’e scappata. Magari a raccogliere l'erba, magari a fare la commessa in un negozio. Piuttosto che stare a insudiciarsi le dita e la faccia col negrofumo! Oh quelle mani rosee e paffute! Chi lo crederebbe, soggiunge un'altra sempre più sottovoce, star qui sacrificata tutta la giornata per tutto l’anno senza mai muoversi? Come inchiodate? Che ne direbbero le signorine di città?
Verso la sera
Come per un accordo convenuto, d'un tratto, dalle piazzole, dai vicoli, dalle case ricomincia il battere dei martelli, il picchiettare delle trapuntatrici. Risorgono le canzoni d'amore, le nenie marchigiane lunghe e funeste, che celebrano la virtù della noia. Le bambine colle trecciole arrotolate sulla nuca vanno su e giù recando mazzi di tomaie. Il paese assume quell'aria trepida e sottomessa che prelude alla sera. Il cielo si dispone a quel quotidiano sforzo del tramonto marchigiano, che pare sia proprio lì, su quelle colline, che si raccolgano tutti i succhi e i colori spremuti dal sole durante il giorno nelle fiale sparse per la penisola.
Come se lì gli dei della sera avessero la loro fabbrica del tramonto, e si compiacessero di inalberare ogni volta allo scoccar della giornata il loro vessillo più carico e smagliante. Nasce quel deliquio che fa tramortire la fronte. E nel silenzio che succede, quasi funerario, ma di una dolcezza soavissima, gli uccelli notturni si destano nelle campagne e i pipistrelli invadono l’aria inabitata, saettando fra i torbidi fanali.