Athos Gastone Banti: prefazione al Codice Gelli
(Paolo Pianigiani)
PREFAZIONE AL CODICE GELLI
C'è nella mia Livorno una chiesina piccina
piccina, che sorge a pochi metri di distanza dalla
cattedrale grande grande. Nel contrasto, la
chiesina, che è intitolata a Santa Giulia sembra
ancor più modesta: e i livornesi, quando vogliono
giudicar d'una cosa contraria alla logica, e
stravagante, come sarebbe d'un debole che
offrisse con aria pretensionosa il suo soccorso ad
un forte, o d'un sonatore d'ocarina che
presumesse d'insegnare armonia e contrappunto
a Mascagni dicono: « È Santa Giulia che fa l'elemosina
al Duomo ».
Perché mai il mio dilettissimo e venerato maestro
Jacopo Gelli abbia scelto proprio me che non gli
ho mai fatto del male, gli ho spedito ogni anno
una cartolina illustrata per il suo onomastico e,
insomma, mi son sempre portato con lui come
amico rispettoso e devoto, per farmi fare la
parte, un po' ridicola, della Santa Giulia...
cavalleresca, accanto a quel gigante di erudizione
specifica, e di competenza e di autorità, che è lui,
ecco una cosa che né io, né altri riusciremo a
conoscere mai.
E perché, poi, questo Codice Gelli, che è da 40
anni l'unico codice cavalleresco italiano, debba
proprio avere, per la sua quindicesima edizione,
un preambolo, mentre non l'hanno avuto le
55.000 copie delle precedenti 14 edizioni - e se ne
son trovate benissimo - (loro... e i lettori) -
neanche questo indovineremo mai, neanche se ci
metteremo a spaziare in quei vaghi e fioriti campi
del fantasioso e del chimerico che stanno alla
nuda realtà come ci stanno i «circoli bene
informati» e gli « ambienti autorevoli» dove i miei
cronisti, e i cronisti di tutto il mondo civile che si
rispettino, dicono sempre d'essere andati a
cercare con gran fatica le loro più strabilianti
supposizioni: mentre è notorio e pacifico che,
quando i reporter scrivono così, vuol dire che
tornano dall'aver presidiato diligentemente il bar
ch'è vicino al giornale.
Ad ogni modo queste sono ormai malinconie
inutili.
Era scritto nel libro misterioso del Destino che
ad una certa epoca la letteratura cavalleresca si
sarebbe arricchita d'una prefazione.
Rassegniamoci ai voleri dell'imperscrutabile,
confortandoci col pensiero che, se Dio vuole, in
materia di cavalleria, e di duelli, nessuno
pretenderà che ci sia rimasta ancora qualche
lacuna da colmare.
Tutto è stato ormai detto da un pezzo, sull'argomento.
Come per quell'altro duello umano, nel
quale occorre ugualmente d'essere in due - ma
senza testimoni - (e c'è sempre il pericolo, a non
aver giudizio, di diventare tre, e anche più) - non
c'è barba d'uomo che possa sperare di dir qual
cosa di peregrino e di inedito intorno al duello.
Dal Puteo, che il marchese Maffei e il Giustiniani e
il Romei ritengono il primo, il quale col suo
«Solenis et utilissimus libellus de re militari, ubi est tota
materia duelli seu singularis certaminis» abbia trattato
dello scontro cavalleresco, «illustrandone le regole»,
al senatore Crispolti, che ancora in questi giorni
nobilmente si ostinava a pubblicar articoli su pei
giornali contro l'uso barbaro, c'è tutta una letteratura
spaventevole per mole e per molteplicità
di epoche, di tesi e di idiomi.
Basta scorrere quella eccellente Bibliografia del
duello, del barone Giorgio Enrico Levi valorosissimo
scrittore di cose cavalleresche, e del Gelli - e
ch'è rimasta documento insuperato di cultura, di
acutezza e di precisione - per accorgersi che ci
sono al mondo (e non dico che circolano, perché
non le tocca nessuno) centinaia e migliaia di opere
sul duello: opere d'ogni calibro e d'ogni parere.
L'Ellero giudicava che «in veruna materia come
in questa si può temere di fare un libro inutile:
imperocché sul medesimo o veramente contra il
medesimo fu molto scritto e sempre indarno ».
Naturalmente questo non gli impedì di pubblicare,
anche lui, la sua brava dissertazione sul duello, e
di vedersela premiata dalla Accademia di Modena,
nel 1864!
Tutto dunque è stato già detto, intorno al duello.
Da che esso è stato inventato (e anche su questo
non va d'accordo nessuno, perchè Gregorio da
Tours dice che furono gli Alemanni e i Visigoti;
Agathias attribuisce l'onore della... scoperta ai
Franchi, Wippo ai Sassoni e agli Slavi, e il Paradisi
ai Sujon, popoli venuti dalla Scandinavia) - il
Codice Cavalleresco italiano XVI
duello ha certamente fatto versare molto
inchiostro (anche... copiativo, come sarebbe quello
di queste citazioni).
Basti ricordare le leggi, prima, che lo disciplinarono
come giudizio di Dio (Frotone III, re di Danimarca;
Enrico e Alarico II, dei Visigoti, e Gundebaldo
[legge Gombetta], re dei Borgognoni)
all'epoca in cui fu necessario incanalare nelle vie,
almeno lastricate di legalità, del singulare
certamen il bisogno, ch'è innato nell'uomo sino dai
tempi di Caino, di affogare le passioni nel sangue.
E poi tutti i decreti e gli editti che, volta a volta, lo
permisero e lo vietarono, nelle sue forme
successive di Wehading, di lotta fra campioni di
comunità religiose o civili, di scontri collettivi e di
duello «per punto d'onore», ch'è quello per cui
migliaia e migliaia di gentiluomini persero la vita.
Ci fu un'epoca sotto i Valois in Francia, per
esempio - in cui tutti i gentiluomini si battevano.
Era una specie di mania, contagiosa, diffusissima.
Ma, in realtà, i gentiluomini costituivano allora
una minoranza, in confronto alle grandi masse
plebee, cui l'uso delle armi cavalleresche era
interdetto.
Oggi, invece, assistiamo a un fenomeno curioso
siamo tutti gentiluomini. I bimbi d'Italia nascono
gentiluomini, così, come voi ed io siamo nati con
un ditino in bocca, e un gran bisogno di
protestare, piangendo, contro lo scherzo di cattivo
genere che c'era stato fatto, mettendoci al mondo
senza il nostro consenso.
La cavalleria è ormai alla portata di tutte le
borse.
Dopo il suffragio universale, la gentilhommerie
universale. Anche in quelle classi sociali dove se la
donna, diceva il Marquardt, non porta mai il
cappello, l'uomo in compenso non se lo leva di
testa che al momento d'andare a letto, non c'è
partita a scopone, finita con qualche disparità di
vedute intorno alla scelta del momento in cui si
doveva calare il setto bello, che non si risolva con
un verbale di onorevole chiusura della vertenza.
La gente procede, ormai, nella vita, come se fosso
nata in quel beato paese di Alghero dove i cittadini
si trovarono tutti caballeros di schianto 1'8 ottobre
1541, senza neanche bisogno d'istruttoria da
parte dell'autorità politica.
Provatevi a fare un'osservazione qualunque al
tranviere che non vi consegna il biglietto se prima
non si è accuratamente sputato sulle dita - o al
commesso che squassa la bella capigliatura fatale,
guardando con occhio impudentemente
infiammato la vostra compagna, di dietro al banco
del negozio. - E quelli vi risponderanno subito: «
Badi come parla! Sono un gentiluomo! » e vi
manderanno a, domicilio altri due commessi o altri
due tranvieri, vestiti naturalmente di nero.
Questa generalizzazione dello stile, e dei metodi,
che una volta erano propri ad una élite, dipende
naturalmente da varie cause: un po' dai mutati
tempi, che hanno dato al popolo usi e mentalità e
atteggiamenti, ch'erano prima peculiari alle
categorie più elevate delle cittadinanze: un po' dal
mutato spirito pubblico, bellicoso anzi che no; e
molto dal fatto che, in generale, su cento vertenze,
una sola si risolve sul terreno, ed anche quella....!
mentre, ad ogni modo, le 99 vertenze terminate
pacificamente, e l'unica in cui ci sia stato anche il
più tenue spargimento di sangue, rappresentano
altrettanti quarti d'ora di celebrità paesana per
tutti: avversari, padrini, amici di famiglia, ecc.
Siamo dunque in presenza d'un fenomeno di
democratizzazione della cavalleria.
Ora, non sarò io, che mi ostino a rimaner democratico,
in un'epoca in cui a chiamar democratico
uno c'è da farsi dare una querela per
diffamazione, con ampia facoltà di prove, non sarò
io che richiederò pei cavalieri del 1926 il ripristino
della collata e degli speroni d'oro: ma, insomma, a
leggere certi verbali, che fanno, diciamo così, bella
mostra di sé sui giornali quotidiani e a veder
quella razza di vertenze che vengono mandate in
esame alla Corte d'onore e in cui si affermano
principi da far rizzare i capelli, c'è da domandarsi
se davvero questa povera cavalleria non sia stata
volgarizzata un po' troppo.
Perché per guidare un modesto schizzettone
d'automobile occorre ed è bene - la licenza dell'Ufficio
Tecnico delle Ferrovie; per levare il più umile
dei denti cariati ci vuol tanto di laurea; non c'è
che la tutela dell'onore, che sia materia di
dilettantismo, aperta a tutte le più disinvolte
esercitazioni di coloro che fanno della cavalleria a
orecchio, come suonerebbero il mandolino. M’è
capitato qualche volta di domandarmi, di fronte
alle figure barbine fatte fare da certi padrini
somari ai disgraziati che s'erano affidati ad essi e
ch'eran poi costretti a trascinarsi dietro, per tutta
la vita, dei verbali ingiustamente stroncatoi, veri
marchi d'infamia, se,oltre al diritto di sfidare i
propri rappresentanti, diritto di cui pochi si
valgono, purtroppo, non ci sarebbe, anche la
possibilità di intentare loro delle cause per danni.
Chi li obbliga a far da padrini, se non sanno ?
Ecco perché, se non è proprio possibile che chi si
impanca in vertenze cavalleresche debba aver
avuto prima la sua brava patente, come gli
chauffeurs, sarebbe almeno da augurarsi che tutti,
rappresentanti e rappresentati, imparassero a
mente il Codice Gelli (esclusa la prefazione, s'intende).
Questo libro del Gelli, che molte altre nazioni europee
ci hanno tolto in prestito, con le traduzioni
autorizzate del Ristow (Austria), del Lanzilli (Spagna),
ecc. - mentre altrove è stato saccheggiato e
plagiato senza troppi scrupoli - è veramente una
guida assai completa e buona: che, pur a traverso
inevitabili mende, rappresenta quanto di più perfetto,
di più coscienzioso e di più serio si sia fatto
in proposito, da quando lo Châteauvillard col suo
Côde du duel, tradotto anche in italiano, dette il
più importante esempio, ai moderni, del come si
dovessero codificare tradizioni e costumanze
cavalleresche.
Il Gelli ha avuto la genialità che occorreva per
non cristallizzarsi nella adorazione fanatica di
formule immutabili: e per comprendere che chi
intendesse oggi di regolarsi, in una vertenza, come
quando il Bufalini consigliava «qual partito debba
prendersi da un vero cavaliere in caso di querelle
cavalleresche»: e il Marozzo gladiatore dissertava
intorno agli «abbattimenti di tutte l'armi che
possano adoperar gli huomini, da corpo a corpo, a
piedi et a cavallo », correrebbe il rischio di trovare,
invece che due padrini, due infermieri del
manicomio provinciale.
Conservare e salvare dall'insidia delle
interpretazioni personali, iconoclastiche, la
tradizione cavalleresca, ma intonare le discipline
che regolano le contese fra gentiluomini alla legge
inesorabile della evoluzione dei tempi e dei
costumi e delle forme e delle sensibilità e delle
stesse concezioni di vita: questo ha fatto il Gelli, in
quaranta anni di lavoro.
Raccolta dallo Châteauvillard, e poi dal Bellini,
dal De Rosis, e dall' Angelini, la prima materia,
assai informe, di un compendio di regole
cavalleresche, Jacopo Gelli ha avuto la tenacia di
seguire, con oculata diligenza, quanto venivano
man mano consacrando nei vari lodi i molti Giurì,
nominati in tutta Italia negli ultimi decenni, e
quella Corte permanente d'onore, che, fondata
nell' 88, a Firenze, ha dopo la guerra ritrovato,
sotto la presidenza del Gelli medesimo, vitalità ed
autorevolezza grandi. Ed ha intonato la sua opera
alla giurisprudenza che man mano si affermava in
Italia.
È inutile dire che mentre lo Châteauvillard, per
quel suo esempio di codice, che ebbe due sole
edizioni (e nella seconda - anch'essa, come la
prima, del 1836 - non c'era di veramente cambiato
neanche gli errori di stampa) ebbe onori e
guadagni, il Gelli non ha mai avuto niente, da
nessuno: né per questo suo libro che da solo
basterebbe ad additarlo alla considerazione dei
Governi, e né per tutto l'apostolato di bene che
egli ha compiuto in tanti anni di studio e di
lavoro, e ancor seguita a compiere.
Singolare uomo, Jacopo Gelli!
In un venticinquennio di professione
giornalistica, piuttosto movimentata, ho dovuto
bussare, al suo uscio, per chiedergli soccorso di
lumi cavallereschi, diecine e diecine di volte. L'ho
trovato sempre lo stesso (il Gelli, naturalmente;
ma anche l'uscio è il medesimo, in quella casa
ospitale degli Scali d'Azeglio, a Livorno) : sempre
cortese, e gran signore - di modi! - e sempre
pronto a soccorrervi, con un parere, con
l'indicazione d'una data, con tutto quello che può
abbisognare ad un uomo imbarazzato nella
trattazione d'una vertenza complicata, o reso perplesso
da un caso di coscienza.
Il Gelli non è un uomo: è un archivio vivente: è
un casellario umano. Egli sa dirvi, così,
all'improvviso, che cosa abbia scritto il Birago, sir
di Metone e di Siciano, e che cosa il Muzio e
l'Alciato e 1' Olevano, «academico intento», e
quante edizioni abbiano avuto il Dialogo
dell'Honore del Possevino, e il Modo del far pace
del Valmarana; e che cosa abbia detto il
Montmorency (Butteville) nel momento in cui lo
giustiziavano per ordine di Luigi XIII, al cui editto
contro il duello aveva contravvenuto.
Ma ciò che è caratteristico, nel Gelli, è la sua
grande bontà, quasi evangelica: quella sua
sorridente indulgenza, che deriva diritta diritta dal
cuore; è sopratutto quel bisogno, da cui egli è
permanentemente pervaso, di placare i rancori fra
gli uomini; di richiamarli, paterno, al senso del
rispetto reciproco e della fratellanza umana.
Bisogna vederlo alla Corte d'onore, davanti a uno
di quei casi che sembrano non presentare altra via
d'uscita che lo scontro. Quando ha potuto trovare
la formula onesta che dà ragione alla ragione e
torto al torto, ma che pacifica gli animi e finisce
onorevolmente ogni cosa, senza strascichi di
rancori e di rammarichi, il Presidente si frega le
mani tutto soddisfatto, e i suoi occhi chiari, pieni
di malizia bonaria, sfavillano di contentezza.
Un'altra questione «accomodata bene » !
Mi diceva un giorno, con l'aria di voler ammonire
una certa fazione un po' estremista del turno
giudicante, che lui di questioni «accomodate bene»
ne aveva al suo attivo più di 7000 e che, nella
vita, bisognerebbe procedere sempre con un
ramoscello d'olivo in mano.
Ma quando, così senza parere, gli ricordai che,
grattando bene nelle cronache di 40 o 45 anni fa,
si poteva trovare una serie piuttosto rispettabile di
duelli, in cui doveva aver figurato, come primo
attor giovane, un certo Jacopo Gelli, famoso a'
suoi tempi per picchiare botte dell'ottanta con la
spada e con la sciabola, il Presidente ha finito per
riconoscere che, qualche volta, può anche esser
necessario posare l'olivo e prendere qualche
cos'altro.
Ora il Gelli lavora ad una storia dei duelli
celebri: ma poi vorrei si mettesse a compilare
quella dei duelli umoristici.
Non sempre si trova chi, davanti a un duellante
che pare un grillo, tanto è veloce a scappare,
abbia lo spirito che ebbe il povero Averardo Borsi,
giornalista arguto e simpaticissimo, quando,
disperando ormai di raggiungere col ferro
l'avversario, che lo aveva costretto ad una vera
maratona intorno al campo del combattimento, si
fermò, portò con la sinistra la sciabola alla spalla,
fece finta di mirare, e poi gridò all'improvviso:
Pètin!... E il duello dovette cessare fra le risa
spasmodiche dei padrini e dei dottori, che non
avevano mai visto tirare al volo, così !
Se il Gelli insorgesse, con l'autorità immensa che
gli deriva dal nome universalmente noto, contro
certi duelli finiti senza spargimento di sangue -
per... cardiopalma dei combattenti! - o con ferite
guaribili in sei ore, salvo complicazioni -
aggiungerebbe una benemerenza di più alle sue
moltissime, riconducendo un po' di dignità in una
costumanza che non ha diritto di perpetuarsi se
non a condizione che chi la pratica la intenda
senza istrionismi volgari. E chi è intelligente
capisce che io non domando che i duelli finiscano,
necessariamente, in tante carneficine; ma chiedo
che la serietà delle condizioni li limiti alle persone
serie, che si batteranno per cause veramente
serie; ché altrimenti si casca nella buffoneria e nel
reclamismo.
Il Gelli, che nella vita nulla ha mai desiderato,
mi confidava giorni or sono la sua sola speranza:
quella di poter licenziare, fra 3 anni, un'altra
edizione del Codice - la più bella! - e di arrivare a
celebrare così le nozze d'oro di questo figliuol suo
prediletto, che pubblicato nel 1887, la prima volta,
aveva però avuto, nel 1879, un fratellino
embrionale, la cui importanza consiste soltanto
nell'essere esistito.
Possa questo voto del vecchio Maestro diletto
essere esaudito e sorpassato !
E possa, Egli, esser conservato per lunghissimi
anni ancora, di poi, alla venerazione e alla
riconoscenza di quanti hanno tuttavia il culto
della bontà e il rispetto per l'onesta povertà degli
uomini che vivono puri.
ATHOS GASTONE BANTI.