Dino Campana
Itinerario doloroso nella vita di un poeta. Da un luogo all'altro della fantasia,
della realtà e della follia per approdare al messaggio poetico
a cura di Walter Della Monica
Dino Campana nasce a Marradi nella cosidetta Romagna toscana il 20 agosto 1885, ed è da considerarsi a tutti gli effetti poeta di area romagnola. A Marradi, infatti, c'è il Passo della Calla che è il displuviale geografico che divide la Romagna dalla Toscana. Poiché Marradi è sul fiume Lamone che corre verso l'Adriatico, esso è geograficamente in Romagna, o meglio nella Romagna toscana, come la chiama anche Gianfranco Contini nelle sue note biografiche riguardanti Dino Campana. Il padre era maestro elementare. La madre, sensibile e inquieta, non rappresenterà mai l'ideale materno di cui il poeta sentiva particolarmente bisogno e la mancanza di quell'affetto sarà tema ricorrente nella sua poesia.
Frequenta a Faenza il collegio salesiano e poi il Liceo Torricelli. Ha quindici anni quando in lui si manifesta per la prima volta la malattia mentale con violente crisi contro la madre. Tre anni dopo — mentre sta terminando gli studi a Torino, dove la famiglia si era trasferita — la sua prima fuga con incidenti e risse che lo porteranno ad essere arrestato a Parma. Fu in questo periodo che il diciottenne Campana, che sembra subisse un certo fascino per le divise militari, fece domanda per essere ammesso (e fu ammesso nel gennaio del 1904) nel plotone allievi ufficiali del 40° reggimento fanteria di stanza a Ravenna. Dopo tre mesi fu nominato caporale, ma il successivo mese d'agosto fu prosciolto dal servizio per non aver superato gli esami al grado di sergente.
Dopo la maturità classica e per compiacere il padre che avrebbe voluto rilevare per i suoi figli una farmacia a Marradi, s'iscrisse a chimica pura all'Università di Bologna. Un periodo di vita goliardica e movimentata che troviamo descritta dallo stesso Campana in alcuni passi de La Notte .
Seguendo l'esempio del fratello, passò quindi a chimica farmaceutica a Firenze e queste scelte di studio — per ammissione dello stesso Campana — contribuirono a estraniarlo dalla realtà. L'anno trascorso a Firenze coincide probabilmente con l'inizio dell'attività letteraria e dell'approfondimento nella conoscenza dei poeti contemporanei. Il fratello Manlio sceglierà poi giurisprudenza mentre Dino l'anno dopo è di nuovo a Bologna e le sue crisi aggressive e di nomadismo si accentueranno fino a indurre il padre — che gli sarà sempre molto vicino con grande sollecitudine e affetto — a farlo ricoverare nel manicomio di Imola. Nel 1907 tornerà a studiare con apparente serenità ma le speranze di guarigione cadono presto perché lo stesso anno fuggirà in Francia e inizieranno i suoi continui spostamenti, sempre più difficili da seguire. Di lui si troveranno tracce certe attraverso i ricoveri nei manicomi o nelle carceri francesi e belghe.
Il 1908 è molto probabilmente l'anno del suo viaggio e della sua permanenza in America Latina, da Buenos Aires alle Ande e da qui a Bahia Bianca in Argentina, secondo quanto si può leggere in Dualismo.
Ma questa sua permanenza nell'America Latina non ha lasciato alcuna traccia e non ve ne è alcuna testimonianza sicura e attendibile nelle sue poesie in versi e in prosa. (v. Viaggio a Montevideo, Pampa...)
Il capitolo dei viaggi compiuti (o presunti) è uno dei più densi e al tempo stesso sfumati nella poesia di Dino Campana. Per cui riesce difficile dire dove sia stato veramente e quanti percorsi abbia soltanto immaginato. Ci sembra interessante riportare a questo proposito una lettera che Giuseppe Ungaretti ci scrisse nel 1958, e che riportiamo a parte, per chiederci di compiere delle ricerche sulle richieste di passaporto di Campana.
La nipote di Campana testimonierà comunque che Dino fu accompagnato a Genova all'imbarco da un parente e che il fratello Manlio ricevette lettere e cartoline dall'America. Ma nulla, purtroppo, delle carte di "zio Dino", che nessun altro pare abbia mai visto, si sarebbe salvato dai bombardamenti del '44; così almeno fu detto dalla nipote in una intervista di Ennio Cavalli del 1985. E intanto la leggenda di quel viaggio continua.
In ogni caso l'attrazione per il Nuovo Mondo corrisponde alla necessità per il poeta di andarsene lontano a ricercare spazi di rinnovamento in terre sconosciute, in pratica fuggendo piuttosto dal suo doloroso destino di vedere lo spegnersi — giorno dopo giorno — delle proprie capacità psicologiche ed emotive.
Nel 1909 viene ricoverato in clinica a Firenze. L'anno dopo va in pellegrinaggio a piedi alla Vema e qui maturano i suoi testi più mistici, totalmente tesi a superare la dimensione terrena per visioni decisamente ascetiche, sempre più tese verso l'infinito. Torna a Bologna e inizia a pubblicare le sue poesie nel giornale goliardico "Il Papiro", cominciando anche a comporre quelli che diventeranno i Canti Orfici.
Nel 1913 è a Genova (alcune biografie tendono ad avvallare l'ipotesi che proprio questo sia l'anno del viaggio ìn America), dove è di nuovo iscritto a Chimica, ma sempre più attratto dal porto e dal fascino della vita di mare e dei bassifondi. La poesia "Genova" ne è la testimonianza più viva e straordinaria e carica di risultati poetici.
Continua a scrivere sempre più immerso nei suoi incubi e visioni, finché ritiene di aver concluso un ciclo della sua opera letteraria che pensa di raccogliere in un libro dal titolo Il più lungo giorno. Si reca a Firenze dove affida il manoscritto a Papini e a Soffici, che ne intuiscono immediatamente il valore poetico. Il manoscritto verrà perduto da Soffici in occasione di un trasloco e le conseguenze psicologiche saranno irreparabile per Campana, acuendo l'avversità che già nutriva verso il mondo letterario italiano. Torna alla nativa Marradi e riscriverà quasi completamente a memoria il libro per pubblicarlo col titolo finale di Canti Orfici.
Seguono gli anni della guerra. Dopo una ennesima peregrinazione e sosta fra Torino, Domodossola e Ginevra, torna in Italia per arruolarsi volontario ma viene riformato. Trascorre questi anni fra la casa del padre in Toscana e Firenze: conosce nell'estate del 1916 Sibilla Aleramo, un incontro fondamentale per Campana che si troverà a vivere l'unico grande amore della sua vita. Ma le sue condizioni psichiche non consentiranno a questo rapporto di avere lunga durata.
Dopo un anno infatti Campana "riparte". Di codesto suo amore resta la significativa testimonianza dei protagonisti nell'Epistolario oltre che nel racconto commosso e romantico dell'Aleramo nel libro "Il passaggio". Nel 1918 dopo una seconda visita militare a Firenze, viene mandato nel manicomio di Castel Pulci per non uscirne più. Il suo medico curante, dottor Pariani, raccoglierà qui in quattordici anni dallo stesso Campana il racconto della sua vita, un documento toccante di cui riportiamo alcuni brani significativi.
Gli anni del manicomio trascorrono silenziosi e abbastanza calmi "Passo lunghe ore pensando alla vanità del tutto", introspettivi e tesi con malinconica serenità verso la parabola conclusiva.
Morirà nel 1932, per una infezione dopo essersi ferito in un filo spinato (un ultimo tentativo di fuga?). Viene sepolto a Colombano e nel 1942 la salma viene traslata a Badia a Settimo. Marradi, suo paese natale, solo nel '54 gli dedicherà una strada e una lapide sulla casa natale.
Nel 1971 è avvenuto un ritrovamento incredibile. La vedova di Soffici, nel riordinare le carte del marito, ha ritrovato il manoscritto de Il più lungo giorno. La stesura successiva dei Canti Orfici è risultata comunque di maggior valore letterario e poetico, e quindi quel lungo smarrimento è servito se non altro a migliorare l'opera. Canti Orfici è in definitiva il vero unico libro di Dino Campana. In lui poesia e vita hanno coinciso in modo totale. Egli si identifica con un eroe tragico perfettamente consapevole delle forze incontrollabili che incombono sull'uomo: "noi liberi liberamente ci abbandonammo all'irreparabile".
Radicale la sua opposizione all'ambiente letterario fiorentino definito come "quel focolaio di cancheri che è Firenze".
Sferzante il giudizio sul Vate D'Annunzio "La massima cloaca di tutto il letteratume presente passato di tutti i continenti. Il dolore del Vate non è il dolore del poeta: è senza nobiltà, senza silenzio, senza umiltà, senza luce".
Un uomo, si è scritto, di molta cultura scientifica e letteraria; oltre il greco e il latino conosceva quattro lingue ("citava nomi di poeti tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli e brani delle loro opere in lingua originale").
Un uomo e un poeta indubbiamente "fuori", ma il mito semplicistico del poeta pazzo e vagabondo merita senz'altro un opportuno e serio approfondimento e qualche riflessione (e lettura) in più sulla sua singolarissima opera poetica.
Da "Storie romanzate"
di Dino Campana
Mio padre faceva il maestro... Da bambino ebbi un'infanzia felice. Dall'età di quindici anni mi prese una forte nevrastenia; non potevo vivere in nessun posto... Quando tornai a Marradi, mi ridevano; mi arrabbiai e divenni nevrastenico. Poi cominciai a viaggiare... Sissignore, viaggiavo molto. Ero spinto da una specie di mania di vagabondaggio. Una specie di instabilità mi spingeva a cambiare continuamente...
Io studiavo chimica per errore; non ci capivo nulla... non la capivo affatto. La presi per errore, per consiglio di un mio parente. Io dovevo studiare lettere. Se studiavo lettere potevo vivere. Le lettere erano una cosa più equilibrata, il soggetto mi piaceva, potevo guadagnare da vivere e mettermi a posto. La chimica non la capivo assolutamente, quindi mi abbandonai al nulla...
Mi misi a studiare il piano... Un po' scrivevo, un po' suonavo il piano. Così finii per squilibrarmi completamente... L'ultimo anno che ero a Bologna andavo un po' all'Università, alle lezioni di letteratura: non mi occupavo più tanto...
Verso i vent'anni non potevo più vivere, andavo sempre in giro per il mondo...
Poi andai in Argentina... Andai in America perché là è più facile trovare da vivere... Facevo qualche mestiere. Per esempio: temperare i ferri; tempravo una falce, un'accetta. Si faceva per vivere. Facevo il suonatore di triangolo nella Marina argentina. Sono stato portiere in un circolo a Buenos Aires. Facevo tanti mestieri. Sono stato ad ammucchiare i terrapieni delle ferrovie in Argentina. Si dorme fuori nelle tende. È un lavoro leggero e monotono. In Argentina avevo disimparato persino l'aritmetica. Se no, mi sarei impiegato come contabile... Ho fatto il carbonaio nei bastimenti mercantili, il fuochista. Ho fatto il poliziotto in Argentina, ossia il pompiere: i pompieri là hanno qualche incarico di mantenere l'ordine...
Suonavo il piano nei caffè dell'Argentina, quando non avevo denaro...
A Buenos Aires mi imbarcai su un bastimento inglese per raggiungere il Belgio. Lavorai nel traversare l'Atlantico, facevo il marinaio; così guadagnai il passaggio. Sbarcai in Anversa, andai a Parigi e da Parigi venni al mio paese. Al mio paese restai poco: cinque o sei mesi...
Sono stato a Odessa. Vendevo le stelle filanti nelle fiere... Il tiro a bersaglio fu in Svizzera. Varie lingue le conoscevo bene...
Viaggiando avevo delle impressioni d'arte; le scrissi... Ogni tanto scrivevo dei versi balzanti, ma non ero futurista. Il verso libero futurista è falso, non è armonico. E una improvvisazione senza colore e senza armonie... Io facevo un poco di arte...
Vendevo i Canti orfici[...] da Paszkowski e alle Giubbe Rosse, a Firenze, al caffè di San Pietro a Bologna. Se io vendevo quel libro era perché ero povero...
Ma io sono pazzo. Ho dei giorni lucidi e dei giorni che non ricordo. Avevo una nevrastenia tanto profonda e non potevo vivere in nessuna forma. Ero malato, certo. Fiaccato in modo da essere inutile Ero una volta scrittore ma ho dovuto smettere per la mente indebolita. Non connetto le idee, non seguo...
Passo lunghe ore pensando alla vanità del tutto.
Da "Storie"
- Il sapore dolciastro della letteratura femminile ?Ma oggi è assai peggio: la femminilità idealista di se stessa, la democrazia evangelica morfinomane ecc. come i poeti dell'alta società. Claudel vi disprezzo...
- Metamorfosi di uno scrittore: non fu leone ma elefante. Del resto non mancano le tradizioni, come vi Poi perché fossimo fuori della storia bisognerebbe almeno che oggi vi fosse una storia. Intanto...
- Il popolo d'Italia non canta più. Non vi sembra questa la più grande sciagura nazionale?
- Non dare all'uomo nulla: ma togli a lui qualche cosa e aiutalo a portarla. Dopo avermi quadrato, voltato e rivoltato e fatto i conti in tasca il benevolo poliziotto mi lasciò andare accompagnandomi con un lungo sguardo che mi parve di protezione. E certo almeno che per un po' mi sentii più legge Questo mi succede leggendo un libro: anche leggendo un libro.
- Infine confesso: Non amo i meridionali. Questa è stata una delle cause della mia ro Non amo gli scolari dei meridionali. Questo mi ha messo in una situazione intollerabile. Passo passo arrivai al pangermanesimo e alla logica di Louwain. Cherchez... la femme? Non, cherchez la vache . La causa della guerra europea sono le donne, comme elles ont été, i peggiori parvenu. (Perché una donna mi disse pitocco quando ero già coperto di sputi?)
- A diciott'anni rinchiusa la porta della prigione piangendo gridai: Governo ideale che hai messo alla porta ma tanta ma tanta canaglia morale.
- Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei farlo alla pari. Sono molto modesto e non vi domando, amici, altro segno che il gesto. Il resto non vi riguarda.
Poesie
La chimera
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina: o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
labbra sinuose,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là
sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane
chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Firenze (Uffizi)
Entro dei ponti tuoi multicolori
L'Arno presago quietamente arena
E in riflessi tranquilli frange appena
Archi severi tra sfiorir di fiori.
. . . . . . .
Azzurro l'arco dell'intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi
Candide righe nell'azzurro:persi
Voli: su bianca gioventú in colonne.
L'invetriata
La sera fumosa d'estate
Dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte
chi è chi è che ha acceso la lampada?
Nella stanza un odor di putredine: c'è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua:
è fatua la sera e tremola ma c'è
Nel cuore della sera c'è,
Sempre una piaga rossa languente.
Bastimento in viaggio
L’albero oscilla a tocchi nel silenzio.
Una tenue luce bianca e verde cade dall’albero.
Il cielo limpido all’orrizonte,
carico verde e dorato dopo la burrasca.
Il quadro bianco della lanterna in alto
Illumina il segreto notturno: dalla finestra
Le corde dall’alto a triangolo d’oro E un globo bianco di fumo
Che non esiste come musica
Sopra del cerchio coi tocchi dell’acqua in sordina
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. - E così dimenticammo le rose.