Leonetta Cecchi Pieraccini, ritratto di Emilio Cecchi, 1916
Emilio Cecchi: False audacie
Pubblicato su: La Tribuna, Roma, n. 44, 13 febbraio 1915, p. 3.
Quasi una stroncatura...
Vinciamo la ripugnanza: accostiamo alle cose pure le profane. E diciamo due parole d'una scarlattina letteraria di questi ultimi tempi, che molti credono effettivamente portata da Mallarmé e da Rimbaud. Già l'avventura di questi due poeti in Italia, finora, era stata dolorosa. Ma le cose ora tirano al tragico; che sono entrati in mezzo gli imitatori, sfruttando insolenti e spensierati, come una cagnara di ragazzi assalta un pomario. - Naturalmente a Mallarmé e a Rimbaud, questi non debbono nulla. Sono gli ispiratori, i profeti, i negri; forse non li hanno nemmeno letti. - In tutto di questo di vero c'è, che è come non li avessero letti; perché non hanno saputo vederci se non un invito più conveniente di un altro alla loro improntitudine e pigrizia.
Lasciamo un momento da parte Mallarmé ch’è meno importante. Sospettiamo pure delle sagrestanerie del Barrichon, e qualche poco anche del Claudel, intorno al Rimbaud. Ma l’interpretazione del Delahaye; e quelle belle pagine del Riviere che, a guerra finita, speriamo di leggere un'altra volta, insieme alla conclusione, potevano intanto aver messo un po' di scrupolo in corpo ai nostrali fabbricatori. Rimbaud non s'improvvisa. E costoro invece hanno saputo vedere in lui, soltanto una specie di Mallarmé più svagato, venturoso e solleticante, nel riguardo tecnico; e nel riguardo psicologico quello ch'è soltanto il suo rozzo embrione negativo; il ragazzo ribelle. Che Rimbaud si sia svolto dall'impressionismo verbale un po' comune nelle prime poesie, al simbolismo delle Illuminations per giungere alla semplicità ed immediatezza drammatica della Saison, importa loro poco. Che partendo da un nichilismo mezzo dilettantesco mezzo rivoluzionario, abbia conquistato un'umanità organica e uno stile supremo, non vogliamo saperlo. Hanno un concetto opportunistico e disteso della poesia. Non veggono i poeti se non sotto l'incidenza del proprio mimetismo.
Ormai scrivono parecchi, in uno stile quasi collettivo, che risente queste derivazioni, su alcune riviste; ed esce anche qualche libro. E chi alterna la poesia, in queste apparenze di straordinarietà con la novella comune, borghese, com’è accettabile, per intendersi, su qualunque quotidiano; magari con l'articolo politico, ora che con la guerra tutte le competenze sono sbocciare. A mente fresca, di mattina, m'immagino, faranno le sedute pindariche. Nei momenti più ottusi e utilitari della digestione, ricondurranno la prosa solita a far due passi pei rettifili della estetica tradizionale. Una mano lava l'altra. Non insistiamo su inconciliabilità che in laboratorio, a quanto pare, si conciliano magnificamente. Ci importano soltanto quei saggi nei quali le vecchie visioni di quadretto sono state storte secondo le diagonali più catastrofiche. Nei quali la logica prosastica è stata schiacciata e soppressa a beneficio d'una logica trascendente. Ma s'è già detto che, come fenomeno d'insieme, questa rinnovazione per ora almeno, sembra approssimativa e dilettantesca. Ha messo in moto, generalmente parlando, più astuzia e versatilità, che ispirazione e temperamento. La direttiva, seriamente applicata, avrebbe potuto essere feconda, nell'intento didattico? Per ora all'accademia pascoliana e dannunziana va sostituendosi un'altra accademia: semplicemente.Il Mallarmé aveva svagato le ultime ansietà quasi morbose, creando con equilibri fonici e coloristici, suggestioni di ambienti funebremente magici e sottintesi di nature morte, s'era fatto per la sua alta tristezza un mondo frigido e allucinato, di vetri e ventagli, gioielli e trine, luci e silenzi.
E tutti, o quasi, si son provveduti a imitazione d’un loro mondino minerale, con qualche economica variante. Seggono come in un angolo di caffè chic, fra cristalli e velluti, dove la luce traverso il gioco degli spigoli, congela in sibilline raggere. Portano ciascuno nel taschino una piccola testa di Medusa; e se ne servono con successo, pietrificando la vita de' sensi e delle idee, perché non offra più che una base gelida ai loro tedio, alla loro decisione, aihmé parecchio edita di morte. Con molto e molto meno di decoro e serietà, ricordano i cubisti, che arrivarono almeno a proporsi alcuni veri problemi di stile. Ma già i cubisti evitavano spesso d'imporre le loro interpretazioni ad una realtà complessa e davvero viva: andavano a cercarsi in natura il loro cubismo bell'e fatto. Appoggiavano verso una retorica di soggetto, segnandosi fra bocce e specchi e dadi di case e pomi. Come questi stagnano già in un vocabolario di tribù, che ripetono con pedanteria di neofiti; e in trenta o quaranta parole potrebbero costruire il compiuto rimario della propria sensibilità. Non si parla, naturalmente di quando compromettono le delicatezze de' bissi, de1 cristalli, eccetera, scappando in gesti e mosse che attestano il D'Annunzio più grossolano, o comunque l'infima educazione letteraria.
Effetti tuttavia più penosi si hanno quando, dalla seduta visiva tra le quattro pareti del solito caffè a specchi, passano all'incursione, dirò così, biografica o morale, sebbene essi testimonino per questa seconda parola il più assoluto disprezzo. La forza di Rimband, specie nella Saison, è troppo insolente.Uno scrittore giovane è difficile che resista oggi a imitarlo. Rimbaud ha toccato, in qualche parte de’ suoi primi versi impressionistici, il senso acre che si risveglia nel bambino. Basterà, a questi altri, descrivere quanto piaceva loro, da ragazzi, contemplar sui giornali di mode, le donne in combinazione. Rimbaud ha dato quel fervido mito (Saison) del negro e dello sbarco dei bianchi. Basterà cingersi il muso in fretta e furia, infilarsi un cercine di penne di tacchino, e accennare la danza del ventre. Arraffano le cassolette dell'odore orientale e carovaniero, e se ne profumano. Vogliono mettere piede sulle terre vergini e per l'Egitto, la Persia, e che so io, si riferiscono alle epoche e regioni senza storia. Fanno i truculenti, i feroci, dicono che non avranno pietà, che ci ammazzeranno tutti. La nostra pelle servirà per i loro portasigarette e altre chincaglie. E c'è veramente da aver paura: la loro filologia, da sola, sembra capace di uccidere un ippopotamo; altro che un uomo! Rimbaud giunge nelle ultime Illuminations e nella Saison, alla intuizione di un ordine e d'un imperativo, dopo furie adolescenti ch'hanno davvero ii respiro gioioso e crudele della primavera. Allora brucia la Saison; e viaggia l'Africa, silenzioso e nascosto, facendo un atto vivo delle verità liriche conquistate. Questi altri, invece di rileggere le lettere africane di Rimbaud e tirarsi un colpo di rivoltella, perpetrata la loro paginetta infernale, la consegnano umida d'inchiostro al tipografo, tutti celanti di pubblicità e utilità; esploratori e pellirosse da caffè concerto, che corrono a mettere alla cassa di risparmio gli introiti la mattina dopo la beneficiata. Certo se le lettere da noi hanno un dio, questo dio ormai non deve saper più che cosa inventare, per salarci il sangue, e disinfettarlo! Ci ha mandato gli indiani, i cinesi, i greci, i Trecentisti, i romantici inglesi, i romanzieri russi.
Tutto viene metodicamente inghiottito; e metodicamente espulso, in più o meno vieta letteratura. Ha provato, allora, quelli autori eccezionali, che son come veleni; possono salvare e possono uccidere. Niente. Non si campa meglio, né si è morti; che c'è anche uno stato nel quale non si ha più nemmeno il tanto di vita da pigliar la risoluzione di morire. Anzi; via via che un nuovo vassoio viene posato sulla tovaglia, sorgono intorno le solite illusioni di brindisi, e discorsi e suoni di apoteosi (le feste nel sanatorium) per qualcuno pare cui il cibo ha fatto bene, e riacquista la salute; come ora che si senton gridare smanacciando: "Mallarmé, Rimbaud e l'ultimo Papini!" Ma Papini, santo Dio, sarà sempre "l'ultimo", perché questa è la sua professione, la sua vocazione. E ormai solo per un senso diventalo quasi ridicolo, di scrupolo letterario, uno si pone il problema di questo scrittore, all'uscita di un altro dei suoi libri. Basta ripensare le novità del vicino biennio, per capire all'incirca che cosa avrà fatto Papini, a parte la grazia tenera e locale di molte sue immagini: curioso contrasto con l'impeto generico e la fama di internazionale stupratore di libri. La professionalità letterata di Papini, questo adattarsi a tutto, ch'è diventato il carattere, a scapito delle qualità più fattive, ormai devono averli riconosciuti anche i più restii.
Serra, Bellonci, Boine e altri, hanno detto recentemente giustissime cose, Papini è un specie di Gabriele D'Annunzio, in piccolo e inbecerito, senza la calma a tavolino, senza la forza stilistica di distacco; lo stomaco aperto ugualmente a tutte le minestre. Pronto a tutto. Anche l'ultimo volume: "100 pagine di poesia", testimonia. E non chiediamo molto ad un artista. Non esigiamo quelle esplicite concordanze di giudizio e fantasia che sono, compreso Rimbaud, di tutti i poeti saturi e forti. Ma almeno la eticità elementare che si esaurisce col mettere una responsabilità stilistica all'opera. Ed è questa che al solito manca. E si sente, a momenti, che Papini se ne accorge e ne soffre. Se ne accorge, ma mantiene nel libro saggi disparati e contradditori. Ne soffre, ma imperterrito come un solista che vola la stessa serata tutti i cieli musicali "from the end of opposite winds", Papini, nel giro di poche pagine, varca dalla maniera descrittiva de' maestri del quattrocento a tentativi irritati di sintesi liriche, uso appunto Mallarmé e Rimbaud.
Anello di congiunzione: certe proposte e vignette, nelle quali il vecchio satanismo dove si tempera di malinconia domestica e borghese, e dove trova un colore sgargiante, laccato. Sulle pagine della prima specie, le più pure di tutto Papini, poco o nulla è da aggiungere, a ciò che dicemmo altre volte. Ma neppur venendo ai tentativi nuovi, che qui ci interessano di più, c'è molto da modificare a quanto nell'articolo presente, abbiam posto in tesi generica. Le situazioni ci sono offerte in una prosa slogata, ma lo realizziamo secondo le vecchie prospettive e con i trapassi soliti; e s'aprono dentro di immagini che son le solite immagini, descrittive: un tassellamento sghembo e spiovente, di figure in sé regolari che aspettano novità dalla linea complessiva, dal quadro; invece di germinarla e d'imporgliela. Son scritti che hanno due forme: una verbale sulla pagina, una ideale; la prima è, in apparenza, avveniristica ma la seconda è e resta consueta.
E, dove sembra si vada per strappi e riprese diverse di tono, su molte gamme, son frammenti facilmente ricamati sur un tono solo, ben riconoscibile; ai quali è stato tagliato il filo che li univa, e che poi è lì, sempre presente. Frasi vanno a piede zoppo, che un piede lo tengon per aria: e ciò non modifica punto la loro anatomia. Capricci, non sono sensi di staticità nuovi, né nuovi movimenti.Perché Papini è partito verso questi saggi, prima avendo preso visione superficiale di una forma già esistente, Mallarmé, Rimbaud, etc.; poi illudendosi d'un personale bisogno lirico nuovo. Ma Rimbaud, nelle illuminations, trova il più determinato e il più concreto; i suoi silenzi sono finestre dove si veggono meglio le sue nuove esigenze e coerenze. Qui, l'asintattismo e la falsa polifonia portano solo il vago e il generico; non fanno che mettere una nebbia appiccicosa intorno al vecchio e fisso temperamento del Papini: di traduttore e rifacitore più che di scuopritore. È una forma che tenta nascere di fuori, invece che di dentro: e sotto alle sue spezzature ed ipotesi non c'è tangibile che una ben nota oratoria, enfatica e sbracciata, nemica della lirica vera. Su altri tentativi monotoni e numerosi, di rinnovazioni simili, il discorso potrebbe essere tirato avanti un pezzo; con poco sugo.
Se mai, c'è un senso più sorgivo, un'aria più succulenta qua e là nei Canti orfici di Dino Campana: accozzaglia inverosimile di idiotaggini e accenti virili; un museo da fiera, con qualche numero bello. Ancora qui, l'eccesso di sigle plastiche e descrittive, dentro le quali il senso lirico balugina, invece di essere affrontato e afferrato. Ma l’attrezzatura letteraria è minore, e più pulita; si separa di colpo e lascia fuori certe figure che non si sbagliano: quel quadro di matrona Lussuria e dell'ancella; visioni di città marine: alcune donne, come la "cariatide dei cieli di ventura''. Sentori.
Ma che dire, per esempio, di Enrico Palatini, col suo Testamento. Qui si vede bene come l'imitazione essendo funzione morale più che estetica, dove la onestà manca del tutto, si dà per forza nelle bruttezze incomparabili. Qualcuno più attento di me, certo verta a isolare, anche qui, qualche pezzette meno goffo, oltre Ilde, Realtà, etc, e frasi e tocchi. Ma l’arte è coesione, volontà rotate, E bisogna infine rifiutare al gioco di quei compari che con aria più alchimistica, da ogni occhiello strappato spiano un parto della nuova poesia. - Anche costui ha letto Rimbaud, fa il finto ebro; vuole assumer l’aria di forzato, l'aspetto del delitto: ma le sue frasi matricide non ucciderebbero una mosca. Ha un bell'evocare il demonio, dicendo enormità, come un ragazzo che fuma una cicca e tira moccoli; il demonio vede, lontano un miglio, che si tratta d'uno spirituale bebé, e ha tutt'altra voglia d'andargli a mefistofizzargli lo stile! Il pezzo di grande ilarità e un'applicazione dello "sbarco dei bianchi" del Rimbaud, a un quadro di quella prossima guerra alla quale parteciperà l'Italia e il Palatini, Vedetelo.