Dal «GIORNALE DEL MATTINO» (Bologna), 25 dicembre 1914
«E’ una vera rivelazione: Soffici pensa che sia l’unico volume di poesia uscito in quesť anno. Leggilo». In questi termini l’amico Ferrante Gonnelli il libraio fiorentino, che ricorda nell’aspetto, nell’intelligenza e perfino nel nome, che sembra colto a una novella del Lasca, i suoi confratelli del quattro e del cinquecento, mi scriveva giorni sono mandandomi un povero libercolo giallo non di sua edizione, ma stampato da una tipografia di provincia. Dino Campana? Sì, mi ricordavo di aver letto qualche cosa di molto interessante in uno dei più recenti numeri di Lacerba. Nient’altro.
L‘ invito però di un uomo di buon gusto come il Gonnelli, suffragato dall’opinione ď un grande artista, non meno che il ricordo dell‘ impressione personale, mi invogliarono subito alla lettura.
Oggi mi dolgo - per la prima volta! - di non avere alcuna autorità di critico pontificante; per modo che quanto verrò scrivendo intorno a questo libro e a quesťautore, anche per me, sconosciuto, sarà considerato alla stregua di uno di quei tanti soffietti che appaiono ogni giorno su per la stampa quotidiana a rivelare quel signor Nessuno, che, sotto diversi nomi, in tutte le epoche, spinge sul mercato libraio le interminabili scialbe processioni delle proprie rime. Ho perso molto tempo a legger libri, libri e libri; e non sono ormai, di facile contentatura.
Potete credere che non mi sono ingannato; e se non volete credere a me credete
al poeta di Lemmonio Boreo, di Arlecchino e del Giornale di Bordo, che di autorità dovrebbe averne e molta, se rivelò - ai tempi migliori della Voce - col più preciso acume critico, l‘arte novissima di Palazzeschi e di altri, italiani e stranieri.
Il Campana non solo non figurò mai negli elenchi futuristi ai tempi - come ci appaion lontani dacché è scoppiata la guerra! - delle famose baruffe, ma anche fra i collaboratori di Lacerba è arrivato – credo - per ultimo.
Egli elaborava però in una sua stranissima solitudine, lontano da ogni cenacolo, qualche cosa che senza l’allegro incendio futurista, che distrusse tante sconcezze, non avrebbe potuto trovare il modo di farsi strada; tanto era, alle prime avvisaglie della famosa serata romana, l’accademismo dominante e invadente.
Forse egli stesso, che deve essere un solitario scontroso più propenso a vivere da poeta, cioè «a non piegarsi alla mostruosa, assurda ragione» (sono le sue parole) e a preferire l’avventura eccezionale e la vita sciolta e vagabonda di tutte le anime sublimi, che a adattarsi alla fratesca pazienza di curare un’edizione purchessia, avrebbe lasciato a dormire il rotolo ingiallito dei suoi manoscritti, nella persuasione che nessuno - visto che si seguitava a confondere letteratura e poesia, poeta e professore, e si anelava all’aula disdegnando il magnifico vento dei quadrivi - lo avrebbe ascoltato; e persuaso anche che - in ultima analisi - tutto è nulla, compreso un libro eccellente; e che non vi è altro di meglio che la strafottente soddisfazione di sentirsi molti metri al disopra di tutti gli stati maggiori della saggezza e della cultura timbrate e brevettate. Il Campana è un vero romagnolo nel carattere e nella vita avventurosa.
Il suo libro è stampato a Marradi, la bella cittadina oltre il Mugello, ove le due regioni che in ogni epoca diedero la maggior fioritura di poesia, la Romagna e la Toscana, si uniscono in un abbraccio ideale.
Il libro è tutťaltro che perfetto, per chi lo volesse valutare coi pesi e le misure correnti. Alla sciattezza tipografica corrisponde una certa negligenza nella raccolta, la quale sembra non aver né capo né coda: tanto che più che di un libro, nel senso che si dà a questa parola, cioè di ciclo compiuto o di sequenze comunque concatenate, si tratta di un bizzarro accozzo conservante ancora - e a me personalmente questo piace assai - tutta l’impronta di un fascio di manoscritti, ove un alto spirito di vagabondo ha fermato, così, strada facendo, attimi eccezionali della sua vita randagia e pensosa.
Pure c’è ancora, specie nella prima parte, qualche importuna ombra dannunziana, sebbene leggera e fugace, qualche cadenza pascoliana; e – perfino - delle impronte gorkiane.
Roba da nulla, però; tanto che sarebbe ridicolo insistervi, se non mi interessasse di far le più ampie concessioni al più pedante dei lettori, che questo libro potrà avere; premendomi in sommo grado di annunziare e dimostrare che Dino Campana - nonostante ciò, e più, se volete - è un poeta di razza, con una fisionomia tutta particolare, e che ha portato già con questa raccolta dalle apparenze disadorne e senza pretese, una nuova indiscutibile ricchezza al patrimonio lirico della nazione.
Anima, errante, paziente, resistente: a tratti cupa a tratti espansiva, Dino Campana rispecchia in queste pagine un’immaginazione torrida e selvaggia e al tempo stesso mistica e sentimentale.
Egli, come il nostro popolo migratore, ha cercato attraverso i paesi ď Europa e anche al di là dell’oceano, nelle sconfinate vastità delle Pampas, il sostentamento alla sua vita, che da quel che appare, non deve essere mai stata floridissima; e reca nel suo canto tale impronta del nostro magnifico popolo, del quale ha seguito la vicenda tragica, tale marchio della nuova psiche italica, da poter dire che con lui principia il proprio canto l’anima errante di questa nostra nazione, che un altro romagnolo felicemente battezzò La grande proletana. Nostalgie dei soli e delle libertà delle Pampas con lampi ďocchi selvatici di creole tutte fuoco e tutte promesse di acute voluttà ricorrono spesso in questi canti.
L’affetto per la patria eletta oltre oceano anzi è simboleggiato in una meravigliosa fanciulla, una creola, amore del poeta, che pure sarà abbandonata da lui nonostante il sanguinoso strazio che ne proverà, perché un’altra... un’altra, che non si nomina, e che non è forse sulla terra che un’astrazione, lo innamora assai più e lo richiama.
Così il piccolo italiano, il pioniere sobrio e paziente, generoso e impulsivo, nonostante l’amore per la terra, ove ha trovato col lavoro una certa tranquillità di vita, non può mai dimenticare la terra, donde - colla bocca amara ....... di rampogna – fu costretto ad allontanarsi tanto.
E così l’anima del Campana .... più vasta dalla visione di tanto mondo e più umana dall’esperienza di tante avventure, talvolta durissime, ritorna a cantare con voce nuova fra le sue campagne e le sue città predilette: Bologna e Firenze.
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa sulla pianura sterminata nelll’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo...
Chi non riconosce la nostra cara e grande e ospitale Bologna? Proprio con una lirica Bolognese il libro si apre; e Bologna ricorderà spesso nei canti successivi; e sarà anche oggetto di altre liriche fra le più ispirate e complete. Ogni petroniano dovrebbe leggere questo libro, in cui vedrebbe quali sensazioni inusitate, piene di colore, di grandiosità e, anche, di mistero può suscitare ancora, in uno spirito genuino di poeta, la cara città.
Bologna si anima di un’anima nascosta ai più, nei suoi portici accoglienti, che ne fanno tutta una grande casa per una grandissima famiglia godente e cordiale, col luccichio dei suoi caffè e dei suoi negozi, colla varietà policroma della colonna umana, che, quasi perpetuamente, si muove e ondeggia per via dell’Indipendenza.
Le barbaresche torri e le cattedrali, i sobborghi fioriti di ville e l’attività potente dei commerci e dei traffici; i giardini, i lupanari, tutto è esaltato con stile robusto e con vibrazioni nuove.
Ma a un tratto la vecchia gloriosa anima bolognese, che vive tenace sotto il bagliore effimero della vita quotidiana, afferra il poeta. Egli si aggira notturno per le strade meno frequentate e meno illuminate; ove qualche casa dalle ogive ornate di terre cotte e dal portico sorretto dalla travatura nera, sopravvive a testimonio dei secoli fuggiti.
L’alma mater studiorum verso cui l’anima giovanile del nord, da poco destatasi dalla barbarie si protendeva ad ascoltar la sapienza, retaggio dell’antica Roma, sprigiona il suo fascino. Ed egli vede - simbolo di quesťanima barbarica - Faust, il Faust di Marlowe e di Goethe, ancora al mattino della sua prima vita anelante, apparire e sparire nei crocicchi più umili e più oscuri.
Faust era giovine e bello; aveva i capelli ricciuti. Le bolognesi somigliavano a medaglie siracusane. Era facile incontrarle la sera (la luna illuminava allora le strade) e Faust alzava gli occhi ai comignoli delle case, che, nella luce della luna, sembravano punti interrogativi, e restava pensieroso allo strisciare dei loro passi che si attenuavano.
Dalla vecchia taverna a volte, che raccoglieva gli scolari, gli piaceva udire tra i calmi conversari dell’ inverno bolognese, rigido e nebuloso come il suo, e lo schiocchiare dei ciocchi e i guizzi della fiamma sull’ocra delle volte, i passi frettolosi sotto gli archi prossimi.
Ogni lettore intelligente può sentire quanta potenza racchiuda il simbolo cosi semplicemente ed efficacemente lineato. Qui la poesia - la grande - vive da sè senza il bisogno dell’aiuto dell’arte; ed è questa la qualità dominante in tutta la raccolta.
Il poeta non si attarda al lavoro dél cesello - il tempo incalza e la via è lunga e fatale dinanzi a lui -; l’opera balza gia perfetta nella sua nudità. Egli è l’eterno camminatore che nota nello scartafaccio o, più solidamente, nella memoria. Sembra di vederlo andare, andare, andare, di giorno e di notte. Dove?
Me ne vado per le strade
strette oscure e misteriose.
Ora lo vediamo a Firenze in una notte triste, sperdersi per le vie più decrepite della città; oppure in una bella mattina primaverile abbandonarsi con cuore di ragazza allegro e senza preoccupazioni a una passeggiata, quasi a un volo, per le larghe arterie e per il lungarno luminoso e fragrante.
le matiíne di primavera sull’Arno.
La grazia degli adolescenti, vivo vergine continuo alito, fresco che vivifica i marmi e fa nascere Venere Botticelliana... l’alto cielo spirituale le linee delle colline che vagano... nostra è la divinità del sentirsi, oltre la musica, nel sogno abitato ďimagini plastiche.
E sempre in Firenze:
Ed i piedini andavano armoniosi
portando i cappelloni battaglieri
che armavano ď un’ ala gli occhi fieri..
Scampanava la Pasqua per le vie.
Poi lo vediamo ascendere fra le rocce dell’Appennino in cerca del santuario della Verna. Che cosa vi cerca questo spirito inquieto e fiero che il Poeta ďAssisi avrebbe appellato col nome di Frate Leone? questo spirito tragico che è quasi felice di tendere «le sue braccia al cielo infinito, non deturpato dall’ombra di nessun Dio?».
E’ che in lui vive e grandeggia, nonostante ciò, la vecchia anima mistica, e forse è più vicino di quel che non appaia al sublime insensato figlio di Pier Bernardone:
Come incantate erano sorte per me le Stelle nel cielo dallo sfondo lontano... io sentivo le Stelle sorgere e collocarsi su quel luminoso mistero.
Amica luna..., non guardai più la tua strana faccia, ma volli andare ancora a lungo per il viale se udissi la tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve.
Ancora:
Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte...IlI paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento.
Altrove:
Il noce è davanti alla finestra ... di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso, quasi umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo.
Quanti brani di poesia valgono questo per sensibilità, per musicalità, per novità? Cito molto e più ancora, se lo spazio lo consentisse, vorrei citare, per convincere il lettore che siamo davanti a un’arte fresca e inusitata: e che, in quanto ha detto fin qui, non c’è l’ombra di esagerazione: anzi...
Ma dalle balze segnate dal martirio glorioso e inutile del gran fratello di tutti i poveri, ove l’anima selvaggia non poteva acquietarsi che per poco, ecco c
he il Campana, salpato col suo sogno compresso nel cuore, è in mezzo all’oceano diretto verso le Americhe:
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzi ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:...
Lontani tinti dei vari colori
Dai più lontani silenzi
Nella celeste sera varcaron gli uccelli ďoro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori.......
Non naufraghi! nulla è perduto per l’anima del vero poeta. La tra le solitudini delle pampas egli riacquista più forza, più speranza; il suo canto si fa ancora più vasto. Egli sente, in contatto della vergine natura, fra lo scalpitio dei cavalli e il suono delle chitarre dei gauchos «suadentí il lontano sonno» la sua giovinezza rinascere. E di nuovo eccolo in Europa, nel Belgio; ove il suo carattere di gran fanciullo impulsivo gli schiude il carcere; come già al suo più stretto parente: Paolo Verlaine:
La cella é bianca, piena di un torrente di voci... Penso ad Anika: Stelle deserte sui monti nevosi: Poi chiese di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo dall’occhio infernale la guida, che grida... Ora il mio paese tra le montagne.... (il treno mi passa sotto rombando come un demonio)...
Altrove un accenno più truce:
Erano i primi giorni che la primavera si sveglia in Fiandra, Dalla camerata a volte - la camerata dei veri pazzi dove ora mi avevan messo - ...io guardavo... Un pulviscolo ďoro riempiva il prato, nella camerata non c’era che il tanfo e il respiro dei pazzi addormentati dietro le loro chimere. La penna strideva, scorreva spasmodica... Perché era uscito per salvare altri uomini!
Finalmente dopo quest’ultima prova culminante il Campana, in vista di Genova, scioglie un suo magnifico inno. Ed ecco il suo pensiero ancora a Bologna, che fa rivivere in una lirica squisitissima; ed eccolo a Firenze...
Quanta umanità in questa tragica raccolta! Indubbiamente un’anima più grande, l’anima della nuova generazione degli scrittori sta per rendere forse, all’Italia un primato che sopra a tutti le spetta. Il clamore dei futuristi è stato l’annunzio; ha spianato le vie.
A quel fragore di guerra e a quel bagliore ďincendio l’anima veramente poetica ďltalia, compressa fra le torture della vita, misconosciuta e, anche, dubitosa di se stessa, si è svegliata e rivelata alla propria coscienza.
Primo, Palazzeschi apparve perfetto e sublime. Oggi Campana, torbido e gigantesco... In seguito, forse, altri balzeranno all’improvviso dall’ombra, in tutta la propria perfezione maturata in una lunga e squallida vigilia:
Poi che nella sorda lotta notturna la più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene, noi ci svegliammo piangendo, ed era l’azzurro mattino.
Ed è un mattino ombrato dalla più vasta ala della Morte...