Bino Binazzi: Gli ultimi bohêmiens d'ltalia. DINO CAMPANA
da «IL RESTO DEL CARLINO» (Bologna), 12-IV-1922
È balzato fuori dalle mie valigie di nomade un libercolo, che mi è particolarmente caro. Una curiosità bibliografica ormai rara a trovarsi che assomma in se le grazie di una brochure francese, e la ingenuità grossa e casalinga del Sesto Caio Baccelli o del Barbanera.
Questo libro è un gran libro. Forse la più potente e originale raccolta di liriche, che abbia prodotto il ventiduennio di questo secolo di burrasche e di bestialità. L’autore? Dino Campana, nome ancor quasi sconosciutissimo, come ho dovuto dolorosamente accorgermi, facendo degli assaggi in certi angoli di penombra, ove ancora si raduna qualche pavido gruppo di giovani dediti alle lettere.
Egli irruppe improvvisamente come una meteora dalle miriadi di colori sotto i cieli alquanto bigi del futurismo prebellico; poi, quando ancora la ecatombe umana non era compiuta, dileguò nelle tenebre della follia. Ma il suo passaggio aveva lasciato fra lo scialbore elettrico e malato della atmosfera letteraria italiana un odor pirico di sagra e di battaglia: battaglia classica, omerica, serena, senza ferocia e senza cretineria. E ai lirizzatori dei colorini delle «mente glaciali» e dei visi flosci dei bardassa e delle veneri volgivaghe aveva insegnato la lirica degli azzurri alpini e delle vastità oceaniche e la bellezza del corpo sodo e seminudo ďun mozzo genovese o ďuna lavandara dell’Appennino, accordante, fra le nevi e fra le rocce, il ritmo del suo stornello di calandra al fiotto della sorgente che alimenta il bozzo limpido alla sua fatica di purificatrice delle umane sozzure.
Ma io non posso e nessuno potrebbe dir della poesia di Campana in modo da farne avere un benché minimo sentore a chi legga. È necessario per farsi un’idea della forza, stranezza, originalità di questa lirica elementare aver sotto gli occhi il libercolo introvabile, ormai; e che nessun editore, tra i tanti editori che vegetano lungo tutto lo stivale, pensa nè penserà mai di ripubblicare.
Intanto come il suo grande antenato Torquato Tasso, Dino Campana, in una cella di manicomio, scrive e scrive; e gli illustri psichiatri, che capiscono di poesia sempre infinitamente meno di quel che un poeta capisca di psichiatria, vietano a critici e ad artisti di esaminare le carte vergate dal pazzo sublime. Quanto più savi i custodi del manicomio di SanťAnna, che permisero almeno libertà e gloria alle liriche del gran recluso, autor della Gerusalemme!
Ma chi potrà dire adeguatamente della lirica di Campana «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto barbaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi ďoro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi, nell’arabesco di marmo, un mito si cova, che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea?».
Occorre aver letto. E per chi volesse cercare il volumetto raro dirò che esso porta il titolo di Canti Orfici e che fu stampato a Marradi nella tipografia F. Ravagli, l’anno 1914.
Fra gli ultimi bohêmiens ďltalia Dino Campana è il più tipico ed il più grande. Nessun altro ebbe una vita di miseria avventurosa da paragonarsi alla sua.
Assillato da un sogno incoercibile di vastità e di libertà, egli ha percorso nel suo trentennio il più lungo e il più doloroso di tutti i calvari. Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni.
A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo - un altro è ben diverso nelle sua modestia e mediocrità di impiegato - del signor direttore delle Scuole.
A Bologna qualcuno lo ricorda studente universitario di chimica, bisbetico ed irascibile, sognante come un alchimista e niente affatto freddo e positivo come uno scienziato. Sovversivo, anarcoide, imperialista, violento e tenero al tempo stesso; di una mobilità sentimentale che percorreva rapida come il fulmine tutta la gamma del sentimento umano: dalla mitezza più francescana alla violenza rasentante, a volte, la ferocia, egli non aveva in se alcuna possibilità di giungere a buon termine nello studio accademico intrapreso. Difatti, dopo aver lasciato dietro di sè una scia di stramberie memorabili, un bel giorno disertò le aule universitarie e il gabinetto delle soluzioni, delle miscele e delle reazioni per studiare una chimica più vasta, che avesse per materia ďesperienza il mondo intero e per gabinetto l’universo.
Anche Shelley fu un chimico mancato. La coincidenza non è fortuita. La chimica è la scienza del mistero e del miracolo. n gran fatto leggendario della Genesi può vedersi riprodotto entro le minuscole dimensioni di una fialetta di vetro o di un crogioletto di platino. Nulla è sostanzialmente più adatto ad attrarre la curiosità di un poeta cosmico; di un grande poeta.
Ma la ragione stessa, che indusse il poeta ad iniziarsi alla disciplina del chimico è quella che ne determina la più o meno sollecita evasione.
Shelley fu espulso dallo studio della scienza per ragioni indipendenti dalla sua volontà. Ma c’è dà giurare che, in ogni modo, egli sarebbe stato un infedele per amor della poesia. Campana la ruppe senz’altro di propria spontanea volontà; quantunque, a volte, nelle sue pellegrinazioni di nomade, sentisse sorgere in se la tarantola di non so quali velleità di innovatore della disciplina abbandonata.
*Poiché Campana non aveva il módo di poter secondare il suo spleen con viaggi regolari e bene equipaggiati, dovette, con un coraggio davvero inaudito, romperla completamente cogli usi e le costumanze e convenienze della sua classe piccolo-borghese, per entrare nella vera categoria dei girovaghi, ciarlatani, suonatori ambulanti, accattoni, saltimbanchi, truccatori di ogni genere.
In verità il salto nel mondo della «leggera», per un tempera-mento facile alla suggestione come quello del nostro, era alquanto pericoloso.
Era un tuffarsi a capo fitto nei marosi ďun giorno di tempesta, senza aver prima misurato la propria vigoria di nuotatore. Tanto più meritoria ne fu l’audacia, in quanto, sia pure attraverso esperienze inenarrabili, il Campana potè, un giorno, tornare a riva recando alto fra le mani già candide, e ormai arrozzite da mestíeri, cui non erano nate, il rotolo manoscritto dei suoi Canti Orfici.
Ma l’esperienza fu troppo aspra. Di qui l’ottenebramento improvviso delle sue facoltà. Nella diuturna, disumana tensione, parve che la corda centrale della grande lira si fosse spezzata...
*
Ma intanto, nella sua opera si sente per la prima volta la vibrazione lirica dell’anima del nostro popolo migrante in cerca di pane o di fortuna. Entro un ampio periodo strofico si può saltare, attraverso vastità oceaniche, dal silenzio solitario di una estancia argentina con nenie di gauci «suadenti il lontano sonno» alla gaiezza festiva di una primavera fiorentina o all’affaccendamento lieto di un pomeriggio autunnale bolognese, quando
le torri nel tramonto accese
fra il vicendevole vento
di dietro i palazzi vegliano le imprese
gentili del serale animamento.
E risultato più grande di questa sua vita di gaucho, di carbonaio, di minatore, di poliziotto, di zingaro al seguito di una tribù di bossiaki russi, di saltímbanco, di tenitore di un tiro a bersaglio, di sonator ďorganetto e di mille altre diavolerie, fu una cultura linguistica e letteraria veramente di eccezione.
A volte, a sentirlo parlare con un mescolio di frasi appartenenti a tutte le lingue, ci si domandava come poteva fare a ritrovar tutta l’antica bellezza dell’idioma materno.
E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava, colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo, specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa. E le lingue di tutti questi popoli eran da lui si bene possedute da render via via la illusione ancora più perfetta.
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Quando giunse - diremo così - alla ribalta della notorietà letteraria non era più giovincello. Aveva provata ogni amarezza ed ogni esaltazione umana. Aveva conosciuto il fasto multicolore di mille sagre e di mille kermesses e anche il fondo oscuro di qualche prigione e di qualche manicomio.
Si presentava come un tipo attraente e sconcertante al medesimo tempo. Parlava lento, come se l’italiano che usciva dalla sua bocca fosse la traduzione faticosa da qualche lingua straniera. Pure a certi momenti, quando le facoltà luminose del suo intelletto, accendendosi tutte, lo ponevano in istato di grazia, riusciva a dir delle cose addirittura meravigliose, anche per profondità. Sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei vari popoli con pochi tocchi dà maestro. Ma, mentre si aspettava intenti ancora una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale.
Ed allora se la prendeva con Tizio o con Caio (con letterati sempre) e poteva anche offendervi e minacciarvi. Poi tornava buono, tenero, piangente. Si umiliava per esaltare altrui, mendicava affetto con disperata trepidazione. Chi sa che cosa vedeva la sua anima, lassù in quella altitudine e in quella vastità, ove egli la aveva condotta? Quali abissi dinotava lo stridulo sarcasmo della sua risata?
Egli era di natura aquilina; e, anche dal fondo dell’inferno, poteva sentirsi sicuro della forza delle sue ali e pensare che l’azzurro era ancora per lui, ogni volta che avesse dato un colpo di ascensione colle remiganti robuste.
Ma un debole, che gli fosse stato vicino in quei momenti non poteva non provare un senso di sgomento.
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AI suo ingresso nei milieux letterari di Firenze e di Bologna egli non mutò le sue abitudini. Colla sua «nobel tasca de paltone», ove conservava, coi documenti di girovago, un giornale con un articolo del sottoscritto e uno con una nota critica di Cecchi andava di tavolino in tavolino per i caffè più noti a vendere i suoi canti.
E spesso scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva coi suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana è un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che 1’acquirente non le avrebbe mai capite.
AI Paszkowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai. Tutto il pubblico dei frequentatori lo imparò a conoscere e a considerarlo colla più viva curiosità.
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Egli, ogni tanto, si appartava dagli amici per leggersi in pace l’articolo mio o la nota di Cecchi. Si calcola che li abbia letti migliaia di volte. Perché era sensibilissimo alla lode; e giungeva anche a sollecitarla con ingenue adulazioni. Ma era difficile che fosse contento, quando qualcuno avesse scritto di lui. Piano piano venne nella persuasione - giusta del resto - di essere un poeta grandissimo e che nessun elogio gli fosse adeguato.
Poi cominciò una specie di mania di persecuzione.
«Son triste a morte e presto morirò, mio caro Bino. Ti mando un grande bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti».
É l’ultimo saluto che egli mi inviò - tanto triste! - prima di varcar la soglia di Castel Pulci, succursale della Clinica Psichiatrica fiorentina.
Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti.
Possa almeno la sua grande musa confortarlo qualche volta nello squallore del suo tragico asilo.
E chi sa che egli non trovi più adeguata e dolce compagnia fra il popolo sognante dei suoi compagni di ricovero che fra la bestialità zuccona e sanguinaria delle novissime generazioni, da cui egli un tempo e vanamente sperò gratitudine, plauso e gloria.