Francesco Mensorio: Dino Campana nella critica letteraria

 

da: “Tensioni esistenziali e conquiste d’arte nei "Canti Orfici" di Dino Campana”

Fata Morgana 2005, pgg. 67-75

 

di Francesco Mensorio 

 
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In rapporto con le divergenti valutazioni critiche stanno i diversi tentativi di definire il posto occupato da Campana nella storia letteraria del Novecento, dove è apparso di volta in volta come precursore della lirica «nuova» e, addirittura prima dei poeti nuovi, o come scrittore ancora legato a moduli tardo-ottocenteschi.

Più luce può venire a tali questioni dalla distinzione, nella sua opera, più che tra versi e prose, tra momenti successivi (in senso piuttosto ideale che cronologico): dal respiro profondo della Notte che apre i "Canti Orfici", al canto abbandonato delle liriche dei "Notturni" ("La Chimera", "Giardino autunnale", ecc.); dall’ampio arco ritmico che regge quel diario spirituale che è La Verna all’enigmatica essenzialità delle due quartine dedicate a Firenze. In questi momenti di tono distaccato e immobile Campana raggiunse risultati non discutibili.

Dal raffronto tra le iniziali ambizioni di un poema d’impossibile respiro dantesco e goethiano e questi esiti, può risultare più chiaro anche il significato storico dell’opera campaniana: chiave di volta tra un momento ancora "ottocentesco" deliri poesia italiana, rappresentato soprattutto da D’Annunzio, e le esperienze della lirica nuova e della prosa d’arte.

Edoardo Sanguineti giudica Campana «il solo esempio radicale, nella poesia novecentesca, di un’arte tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie» e considera la sua esperienza poetica un’alternativa storica.

 

Carlo Bo: l’unicità di Campana 

 

Accostatelo ai suoi vicini, a quelli del suo tempo che son più degni d’essergli avvicinati, e ne coglierete la natura e le ragioni della sua unicità.

Intanto nessuna poesia ha un piano vitale a tal punto creato dì musica, tutt’al più raggiungono la dolcezza, l’invito e danno lo charme di un motivo ma la sostanza stessa subisce altre leggi, manca d’armonia [...].

Le sue poesie non vogliono alludere ad una sua minima avventura terrena, se pure son cresciute con elementi di ricordi personali: mantengono dei riferimenti privi di pretesto e ormai simboli definiti come movimenti naturali.

Gli trovo pochi vicini in poesia di tanta dignità umana, e non sembri arrischiato delineare in lui una zona d’assoluta incorruttibilità, dì sanità (come si dice con un’orribile parola).

[Carlo Bo, "Otto studi". Firenze, Vallecchi, 1939, pp. 120-21.]

 

Gianfranco Contini: un visivo 

 

Campana non è un veggente o un visionario; è un visivo, che è quasi la cosa inversa. «Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte»: quell’ansito sottinteso, quando giunge al silenzio, è ad un «silenzio occhiuto di fuoco», si scioglie in una visione ardente. Si dice: un visivo, e s’intende qui un temperamento così esclusivo da assorbire e fondere in quella categoria d’impressioni ogni altra; com’è dello sparo di mezzogiorno calato nella (verde) campagna: «gli ultimi soffi di riflessi caldi e lontani nella grande chiarità abbagliante e uguale quando per l’arco della porta mi inoltrai nel verde e il cannone tonò mezzogiorno».

È facile osservare come nel momento in cui la fantasia di Campana tocca, la regione emiliana dai contorni netti e dalle tinte sicuramente campite, Bologna o Faenza, la sua potenza di rappresentazione visuale si sfreni.

Luogo ideale di Campana, che accoglie il lettore fin dalla soglia dei Canti: «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo.

Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso».

Sono evidenti la sicurezza, la plasticità dell’esecutore; e ad eliminare ogni sospetto di decorazione, di trascrizione da un quadro, diremo: la sua "fede". S’aggiunga la riflessione sullo spettacolo, singolarmente viva in Campana, e più o meno, ad intermittenza, benefica; la legittima coscienza della platonicità, in temporalità delle cose che contempla («e del tempo fu sospeso il corso»): ed ecco, attorno a questi oggetti isolati, massicci, subito formata un’aura dì stupore, quasi di mistero.

[Gianfranco Contini, "Esercizi di lettura", Firenze Vallecchi 1939, pp. 16 – 17]

 

Eugenio Montale: come De Chirico 

 

Fermiamoci un istante su quell’orfismo che il suo libro non tenta certo di definire. Coincide col sorgere in Italia di una pittura metafisica (Carrà, De Chirico) di cui Campana non poté ignorare la presenza e le intenzioni.

Come il primo De Chirico anche Campana è un suggestivo evocatore delle vecchie città italiane: Bologna, Faenza, Firenze, Genova, lampeggiano nelle sue poesie e gli suggeriscono alcuni dei suoi momenti più alti. Sarà torse quest’aspetto barbaro, o se vi piace antico, un’altra spia del suo latente carduccianesimo, del resto meglio visibile in alcune aperture di distico?

E’ possibile; ma a noi sembra che l’orfismo di i Campana e la sua illusione di essere un tardo poeta germanico sperduto nei paesi del sud coincidano nelle intenzioni e persino nei risultati.

Non faremo di Campana, se non per metafora, un poeta tedesco, né un teorico del razzismo, ma è certo che non casualmente egli intitolò la prima edizione degli "Orfici" alla «tragedia dell’ultimo tedesco hi Italia», e che nella sua illusione barbara, la quale consiste tutta, forse, in un suo irrimediabile sentirsi antico, entro un’autentica suggestione d’ordine ideologico e morale.

[Eugenio Montale, "Sulla Poesia", Milano, Mondatori 1976, pp. 256 – 57]

 

Emilio  Cecchi: l’esplosivo della poesia 

 

Ho conosciuto alcuni poeti, nostrani e forestieri. Non pretenderò che fossero poeti immensi; ma erano di certo tra i massimi che l’epoca poteva mettere a mia disposizione. Accanto a loro, provavo ammirazione, riverenza.

Accanto a Campana, che non aveva affatto l’aria di un poeta, e tanto meno d’un letterato, ma d’un barocciaio: accanto a Campana, si sentiva la poesia come se fosse una scossa elettrica, un alto esplosivo....

L’atto del poetare proveniva in lui da un incanto di realtà schiettissimo. C’era un contrassegno direi fatale e carnale, suggello autentico della sua genialità. Quelle che egli chiamò «le supreme commozioni della sua vita», gli conducevano il ritmo in andature corali, popolari.

E segnatamente nel paesaggio, egli si esaltò in una bellezza italiana, specificamente toscana, d’autorità antica e veneranda. La sua sensibilità spasmodica, d’errante e perseguitato, non gli precludeva l’aspirazione, ed in parte il cammino, verso una forma classica della vita e dell’arte; verso l’idea d’una felicità, come egli diceva: «mediterranea»; idea che sembrava respirata nelle città tirrene del nostro Trecento.

Nessuno ha più saputo, come Campana, nel rapido e largo stacco dei suoi versi e delle liriche in prosa, riuscire modernissimo e al tempo stesso, naturale, popolaresco. Egli passò come una cometa; ed anche oltre le strette ragioni formali, in una sfera più vasta e calorosa, la sua influenza sui giovani tu incalcolabile, e s’è tutt’altro che spenta.

Egli dette un esempio di eroica fedeltà alla poesia: un esempio di poesia testimoniata davvero col sangue. Da lui e dal coetaneo Ungaretti, s’inaugura un tono intimo e grave nella nostra ultima lirica.

[E. Cecchi , “Di giorno in giorno”, Milano, Garzanti. 1954, pp. 314-15.]

 

Piero Bigongiari: visivo e veggente 

 

Perché ho messo i "Canti Orfici" tra i venti libri del Novecento da salvare? Perché coi "Canti Orfici" è stato scoperto un nuovo modo della realtà che è per me essenziale ad una compiuta definizione dell’uomo del Novecento.

Campana non ha scisso oggetto e soggetto, la realtà dalla sua immagine; ora questa inscindibile unità, mantenuta a costo della vita, ha tatto dì Campana, ai suoi bei momenti, un poeta dell’ "età aurea" dell’uomo sulla terra. L’alternativa critica tra poeta visivo e poeta veggente non esiste.

Poiché, dove Campana è "visivo", lo è di una realtà compiuta che sfuma nell’infinito orfico del mondo; dunque è "visivo" in quanto vede una realtà portagli dalle qualità intrinseche del "veggente": una realtà che è qui, e insieme non è qui: che è Bologna, l’Arno, le stradine di Firenze, Campigno, Marradi, la Falterona, e insieme il disegno di un mondo perduto che esiste per la forza, che l’uomo ha, di tenerlo alto nella mente (mente in senso dantesco e medievale: «Al tornar della mente, che si chiuse... ») sull’abisso dell’inesistente.

[P. Bigongiari, "Poesia italiana del Novecento", Milano, il Saggiatore. 1978, p. 131.]

 

Mario Luzi: la religione dei mondo 

 

Fin da quando avevo diciotto anni e non potevo capirlo, sentivo che questo libro [i Canti Orfici] mi diceva perentoriamente: è impossibile chiamarsi fuori, impossibile ritrarsi indispettiti da ciò che accade, sia pure contro di te o nell’indifferenza di te: e non c’è nulla del resto che accade in cui anche tu non debba in qualche modo sentirti accaduto.

Questa di Campana non è, superfluo sottolinearlo, sciocca la troppo bonaria consensualità con lo stato attuale della società umana: si conoscono da certi aforismi le sue insofferenze, le sue aspre irrisioni. Non furono risparmiati l’attrito e lo scontro.

Ma l’importante è che egli abbia prospettato il dramma dell’uomo nei pieno della reciprocità con il mondo, richiamandolo dalla terra di nessuno, no man’s land appunto, dove sembrava agli altri si consumasse.

L’elegia moderna ortodossa in cui rientra la linea ufficiale del Novecento italiano si regge sul presupposto antropocentrico ed egocentrico della felicità negata o resa impossibile, su questa filosofia implicita del detronizzamento. Tutto sommato essa si mantiene nel regime morale del contraccolpo, aggirandosi nel versante in ombra di un edificio che fu splendido.

Campana non porta a questa depressione nessun correttivo d’ottimismo, è evidente. Semplicemente ignora o rifiuta il sentimento della diminuzione forse perché gli è estranea la premessa inconscia della priorità. Campana mette umilmente in primo piano la vita di cui l’uomo è un agente non inerte ma da nulla autorizzato all’arbitrio.

Ricorre spesso nelle sue pagine l’emozione esaltante del lavoro dell’uomo: eccezionalmente esso non è opposto alla natura ma omogeneo con la dinamica dell’universo: «e l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti» rimandano del resto al vento che vorrei definire rotatorio dell’evento perpetuo dove è trascinato, ma non inghiottito, ogni senso vitale, la somma nessun confronto all’interno del sistema della dissociazione, come potremmo chiamare l’elegia multiforme dell’estraneamento, della sconfitta e della protesta; e neppure proposte o ipotesi contrarie: ma invece lo scarto decisivo di prospettiva che può dare il sentimento e, potremmo ben dire, la religione dell’avvenimento del mondo in cui tutto è coinvolto, il fenomeno e il suo testimone.

[M. Luzi, "Al di qua e al di là dell’elegia", in "Dino Campana oggi" (Atti del Convegno, Firenze 18-19 marzo 1973), Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 144-45, poi in "Vicissitudine e forma", Milano, Rizzoli 1974, pp.161-62.]

 

Gianni Turchetta: la cultura di Campana 

 

Si potrebbe naturalmente obiettare che Baudelaire e Nietzsche sono riferimenti poco meno che ovvi per la cultura dell’irrazionalismo primo-novecentesco, ma non si terrebbe in questo modo conto della torsione tutta particolare che campana da nei suoi testi a queste presenze.

C’è una notevole originalità di pensiero nell’interpretazione e nel tipo di correlazione che campana istituisce fra Baudelaire e Nietzsche: questa novità costituisce e orienta, insieme, la «forza teorica» (come ha ben visto Luzi) dei Canti Orfici, e la loro intensità di poesia.

Con un corollario, fondamentale: Campana sa scegliere bene i suoi modelli poetici ed ideologici, e la sua memoria lavora nel testo escludendo in genere con sicurezza le suggestioni del decadentismo più vulgato e volgare. In altre parole, di nuovo, la tesi della natura caotica, confusionaria ed attardata della cultura di Campana non è accettabile.

Senza contare che questa stessa tesi, contro ogni apparenza nel caso degl’interpreti più vigili, rischia di essere sempre null’altro che un’appendice illusoriamente ovvia del rapporto tra poesia e biografia (della loro arbitraria sovrapposizione); col risultato d’inibire senza scampo la comprensione della poesia dei Canti Orfici.

[G. Turchetta, "Cultura di Dino Campana e significati dei Canti Orfici", in "Comunità", XXXIX, 1985, p. 363.]

 

Sergio Solmi: la verginità dell’intuizione primordiale 

 

La follia di Campana, come l’estasi visionaria di Rimbaud, sollecitata ad arte nel delirio di stanchezza delle grandi marce attraverso la pianura belga. rappresentano, per questi due "hors la loi", il sistema per raggiungere lo stato di grazia, la verginità dell’intuizione primordiale, la misteriosa alchimia del verbo, che, smarrendo il suo carico di significali culturali, i suoi segni intellettivi e storici, torna a convertirsi in ebbra musica, o in ermetico simbolo".

[S. Solmi, "Scrittori negli anni", Milano, il Saggiatore, 1963, p. 52.]

 

Giuseppe Ravegnani: intangibile materia lirica 

 

La poesia [di Campana] spesso non giunse alla costruzione intatta e intera di se stessa, ma galleggiò frammentaria sulla pagina, franta in gridi, in bagliori, in animamenti evocativi. [...].

I "Canti" di Campana sono fatti di una simile intangibile materia lirica, che la singhiozzata esistenza non seppe del tutto velare, ma soltanto spezzare e comunicare attraverso una sintesi povera e secca e per mezzo di un impressionismo intenzionalmente moderno.

[G. Ravegnani, "I contemporanei", Milano, Ceschina, 1960.]