L'intervento al Convegno a La Verna, 2010

 
 
 
Un anniversario, e qualcosa di più.
 
Fa un po’ effetto pensare che sono passati già cento anni dal pellegrinaggio di Dino Campana alla Verna: ed è anche un segnale che ciò che chiamiamo “letteratura contemporanea” in molti casi comincia ad essere decisamente poco contemporanea, almeno in senso strettamente cronologico.
Chissà che i programmi scolastici prima o poi non ne prendano pienamente atto... D’altro canto, per tornare al nostro poeta, la ormai cospicua distanza temporale nulla toglie alla forza sempre vivissima della poesia campaniana: l’attualità, si sa, non si misura in termini di numero di giorni o di anni passati, ma con più sottili e perfezionati strumenti.
 
Anche se spesso vengo chiamato a parlare di Campana in quanto “biografo”, vorrei aggiungere subito che, al di là della scadenza secolare e al di là pure della rilevanza appunto biografica del pellegrinaggio campaniano, è necessario accostarsi di nuovo alla prosa di La Verna, con rinnovata attenzione, anzitutto per la sua grande rilevanza, simbolica e strutturale, all’interno dei Canti Orfici. Ci tornerò fra non molto.
 
Ora però proverò anche a rimettere a fuoco, sinteticamente, proprio le circostanze biografiche da cui La Verna nasce: perché queste stesse circostanze ci mostrano che il pellegrinaggio, e gli appunti che certo Campana ebbe a redigere a caldo, prima di avviare l’elaborazione che avrebbe portato al testo finale, o meglio ai due testi “finali”, quello degli Orfici e quello di Il più lungo giorno, si collocano in un momento particolarmente importante per la storia della poesia campaniana.
 
Anzitutto, la data del 1910 sta a ricordarci che il pellegrinaggio alla Verna, se, com’è assai probabile, è avvenuto proprio nell’anno indicato dal poeta, si colloca a ridosso del drammatico soggiorno campaniano in Belgio.
 
Come si ricorderà, tra la fine di novembre e la prima metà di dicembre del 1909 Campana si trova a Bruxelles, dove, oltre a compiere fruttuose scorribande culturali in biblioteche e musei, si fa notare in qualche caso per le consuete stranezze: tanto da essere arrestato, e poi rinchiuso nella prigione di Saint-Gilles (un quartiere di Bruxelles), dove resta un paio di mesi.
 
Qualcuno però, purtroppo o per fortuna, dovette a Saint-Gilles accorgersi che negli atteggiamenti e nei comportamenti di Campana c’era qualcosa che imponeva un’interpretazione clinica, psichiatrica, e non semplicemente poliziesca, delle sue stranezze.
 
Così, verso la fine del 1909 o l’inizio del 1910, Campana viene trasferito “in una specie di casa di salute”:1e stavolta il suo passaggio lascia delle tracce documentarie. La “casa di salute” era, più precisamente, la Maison de santé “Saint-Bernard”, oggi Hôtel Psychiatrique de l’Etat “Les marroniers”, a Tournay (sulle carte odierne Tournai, Doornik in fiammingo).2
 
È a Tournai, fra le altre cose, nell’“ampio stanzone pulverulento” dove “turbinavano i rifiuti della società”,3 che Dino avrebbe conosciuto “il Russo” dei Canti Orfici.
 

 
1 Carlo Pariani, Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938; poi ristampato solo per la Vita non romanzata di Dino Campana, con un’appendice di lettere e testimonianze, a cura e con postfazione di Cosimo Ortesta, Guanda, Milano 1978 (da cui si cita), p. 59. Più recentemente la Vita non romanzata di Dino Campana è stata ristampata anche dall’editore Ponte alle Grazie, Firenze, 1995.
 
2 Si tratta di una cittadina pochi chilometri a sud-ovest di Bruxelles, da non confondersi con l’omonima Tournay che sta nel sud della Francia, non lontano da Lourdes.
 
3 Dino Campana, Canti Orfici, edizione anastatica, Presentazione di Roberto Ridolfi, Introduzione di Pedro Luis Ladrón de Guevara, Firenze, Libreria Chiari, p. 130.
 

 
A Tournai Dino resta fino alla metà di giugno del 1910. Su probabile sollecitazione delle autorità consolari italiane, già dalla fine di marzo la Prefettura di Firenze chiede al sindaco di Marradi di autorizzare il rimpatrio di Campana, e di verificare la disponibilità dei genitori ad accoglierlo dinuovo a casa.
 
Le lettere del sindaco fanno pensare che la famiglia Campana non fosse del tutto favorevole al ritorno di Dino, o che volesse farlo di nuovo ricoverare: per questo i genitori fanno scrivere ripetutamente al sindaco, poco credibilmente, di non avere le risorse economiche sufficienti per mantenerlo.
 
Ma le autorità italiane di polizia sono, per fortuna, irremovibili: il Codice penale impone ai genitori di prendersi cura del figlio, laddove non ci siano sintomi di alienazione mentale tanto violenti da imporre un ricovero d’urgenza in manicomio. In altri termini: forse Campana non è poi tanto grave.
 
Così, il 17 giugno 1910, dopo essere stato rilasciato dal manicomio e rimpatriato forzosamente dalle autorità belghe con l’ennesimo foglio di via, Dino viene accompagnato a Marradi da due agenti della Questura di Firenze, che lo consegnano al sindaco, il quale a sua volta lo riconsegna al padre.
 
Fin qui le vicende strettamente biografiche, e anche i dati certi, documentati. Ma con buona approssimazione si può anche congetturare che sempre intorno al 1910, o, per essere più precisi e più prudenti, nel periodo che va dalla primavera del 1909 all’autunno del 1911, Dino prendesse definitiva consapevolezza della propria vocazione di poeta, del proprio destino; e forse questa acutizzata consapevolezza diede più deciso avvio anche al progetto che porterà al suo unico Libro.
 
È comunque molto significativo che proprio in quel periodo Campana scrivesse al settimanale fiorentino «Difesa dell’Arte» (uscito fra il novembre 1909 e il dicembre 1910): è una lettera senza indicazione di data, ma quasi certamente scritta nell’estate 1910, o, rinnovando la prudenza nelle datazioni, non prima del 17 giugno e comunque entro l’autunno.
 
Il che vuol dire, in altre parole, che Campana la scrive non molto dopo il rimpatrio da Tournai: cioè subito prima o subito dopo il pellegrinaggio alla Verna. Eccone un passaggio particolarmente rilevante, e ben noto agli studiosi di Campana:
 
Io conosco cinque lingue e mi offro volentieri per far passare un po’ di giovine sangue nelle vene di questa vecchia Italia, e ciò per tutte le questioni che loro crederanno opportuno sollevare. Un po’di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno la posseggo anch’io. E i miei lunghi viaggi e le diverse manifestazioni del genio umano che ho studiato nelle diverse letterature moderne mi hanno conferito qualche larghezza, serenità e indipendenza di giudizio.4
 
Così termina la lettera di Campana. Nelle prime righe della lettera, presentandosi ai redattori della rivista, Campana aveva addirittura scritto:
 
Io sono un uomo ancora inedito5
 
Può sembrare semplicemente un’improprietà di lingua, un’insignificante trasandatezza.
 
Ma non è privo di rilievo il fatto che si tratti di una metonimia, che sostituisce il testo con il suo autore, l’effetto con la causa, facendo del lapsus calami un lapsus psicologico rivelatore, e abbastanza conturbante: qui Campana ci fa infatti vedere bene come, nella sue decisione di essere scrittore (decisione volontaria, culturalmente consapevole, e assoluta sul piano morale) ci sia anche una couche di delirio.
 
Egli infatti sembra identificare i propri testi con se stesso. Conseguentemente (o forse: preliminarmente) egli dubita di esistere (e quindi anche, nei deliri di persecuzione, di essere assassinato), dal momento che i suoi testi non sono ancora stati pubblicati, cioè non esistono, in quanto non sono socialmente conosciuti e riconosciuti.
 
Per interpretare così il lapsus della lettera del 1910 non c’è bisogno di nessuna forzatura interpretativa; Campana, infatti, è, al proposito, perfettamente esplicito:
 
             nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato.6
 

 
4 In Dino Campana (e altri), Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari, a cura e con introduzione di Gabriel Cacho Millet, E.S.I., Napoli 1985, p.46.
 
5 Ivi, p.45.
 
6 Lettera del 6 gennaio 1914, ivi, p.56.
 

 
Così scrive in un’altra lettera, con la quale spedisce a Giuseppe Prezzolini il testo de La Chimera: una lettera che non a caso risale al periodo in cui Campana aveva dato in lettura a Soffici e a Papini il manoscritto del suo Libro.
 
Che cos’altro Campana facesse oltre a scrivere (e naturalmente a leggere), dopo il ritorno da Tournai, intorno al 1910, lo sappiamo un po’ a tentoni: per spezzoni di notizie, per dichiarazioni frammentarie (del poeta e di altri), molto più raramente in base a documenti e prove tangibili.
 
Sicuramente egli continua i vagabondaggi; ma per lunghi periodi resta a Marradi, vagando per le montagne intorno, e spingendosi in qualche caso, quasi sempre a piedi, fino a Firenze, o verso luoghi un po’ più lontani, ma sempre in quell’area, come la Falterona, o, appunto, la Verna.
 
È in questa fase, non a caso, che si colloca il nostro pellegrinaggio, con la più che probabile correlativa redazione di appunti di viaggio, da cui sarebbe appunto nata la lunga prosa degli Orfici.
 
Del pellegrinaggio Campana fornisce due datazioni diverse; e il testo che leggiamo è certo frutto di una complessa rielaborazione a posteriori: ma comunque è importante sottolineare che il pellegrinaggio, e quasi certamente anche i primi abbozzi del testo destinato al Libro, nascono in un momento decisivo della sua maturazione poetica.
 
Le successive redazioni, significativamente, assegnano entrambe senz’altro alla prosa di La Verna un peso simbolico e strutturale fondamentale nella compagine del Libro.
 
 
Nel cuore del giorno: la posizione strutturale di La Verna
 
Nella compagine dei Canti Orfici, La Verna viene definita “diario”, laddove nel Più lungo giorno era accompagnato dalla dicitura “note di viaggio”.
 
Secondo Il Più lungo giorno, inoltre, il pellegrinaggio al santuario della Verna si sarebbe svolto fra il 14 settembre e l’ 1 ottobre del 1910: che potrebbe anche rappresentare la datazione più attendibile, se non altro perché cronologicamente e redazionalmente più vicina alle annotazioni strettamente diaristiche.
 
I Canti Orfici invece collocano il viaggio campaniano frail 15 e il 26 settembre, con un finale collocato genericamente in ottobre.
 
In entrambi i casi comunque la datazione fa in modo da comprendere il 17 settembre, cioè il giorno in cui la liturgia cattolica festeggia l’impressione delle stimmate, considerandola come la data storica in cui San Francesco le avrebbe ricevute, nel 1224.
 
Lascerò per ora da parte, salvo riprenderla più avanti rapidamente, la questione che definirei della poligenesi delle fonti, cioè della molteplicità degli spunti e degl’influssi che stanno dietro l’idea di La Verna.
 
Vorrei invece piuttosto impegnarmi a ribadire, ancora una volta, con particolare energia, l’intenzione lato sensu poematica e comunque la profonda unità strutturale del Libro di Campana: come ha sottolineato energicamente Mario Luzi, Canti Orfici “insieme con quello coevo di Clemente Rebora si staglia come il libro più libro, più «oeuvre»” del Novecento poetico italiano.7
 
Penso sia necessario ricordarlo di nuovo in questa sede, proprio perché a prima vista l’unità degli Orfici, provvisoria ma a suo modo rigorosa e indiscutibile, parrebbe indebolirsi un po’ con La Verna, lungo componimento prosastico che, forse anche per il suo tessuto stilistico, un po’ meno fitto e teso di quello di La notte e di tutte o quasi le altre prose degli Orfici, parrebbe quasi fuori misura, se non proprio fuori posto.
 
Pure, a uno sguardo non corsivo, appare evidente che La Verna è collocata da Campana in posizione apertamente rilevata, come momento dell’ascesa simbolica, dopo la discesa rituale di La notte, e prima della grande sintesi tragica di Genova.
 
In questo senso, le stesse dimensioni cospicue, certo non casuali anche se non totalmente “calcolate” a freddo, ne accentuano la rilevanza, in modo che è difficile non ritenere intenzionale.
 
Con ogni evidenza, infatti, negli Orfici ci sono tre testi vistosamente più estesi: uno all’inizio, La notte, uno alla fine, Genova, e appunto La Verna, che, se non è esattamente al centro del volume (è collocato all’incirca a un terzo), si pone però senza dubbio come il termine centrale di una terna.
 
Nei termini di un riconoscibile simbolismo temporale, imperniato sulla parabola del sole nel cielo, e dunque sull’immagine della giornata (che può essere, emblematicamente, “il più lungo giorno”, cioè il solstizio): La notte trascolora rapidamente dal meriggio al tramonto alla vicenda notturna che ne è il centro; La Verna privilegia vistosamente le immagini diurne / luminose; Genova, infine, è in larga misura la rappresentazione di un tramonto, che poi sfocia nella conclusiva “notte tirrena”.8
 

 
7 Mario Luzi, Al di qua e al di là dell’elegia, in Dino Campana, Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1973, vol. I, p. VIII.
 
8 Dino Campana, Canti Orfici, cit., p. 173.
 

 
All’interno di La Verna, poi, appare strategica anche la partizione in due tempi: dove il primo tempo, cioè la prima sezione, ripete il titolo generale (in modo del tutto analogo a quanto accade nella prima sezione di La notte), mentre la seconda mette in scena un Ritorno (che potrebbe essere tanto un sostantivo quanto un verbo, in analogia con l’immediatamente successivo “SALGO”9), che peraltro è anche un’altra ed ennesima ripetizione, ribadita dalla sottile aequivocatio morfologica.
 

 
9 Ivi, p. 59. Maiuscolo nel testo.
 

 
Anche in questo caso, è evidente la simmetrica corrispondenza con quanto avviene in La notte, dove, di nuovo, la seconda sezione s’intitola Il viaggio e il ritorno.
 
Ancora, a ribadire la simmetria con La notte, ma in una logica campanianamente improntata alla coesistenza di ripetizione e variazione, non si può escludere neanche per La Verna l’esistenza di un terzo tempo, perché tale potrebbe essere considerato il poemetto Immagini del viaggio e della montagna: che sono un testo al tempo stesso interno e esterno a La Verna.
 
A ben vedere, Campana mette in scena ripetutamente sequenze che sono al tempo stesso a due e a tre tempi. Anzi-utto, è così noto che non mette quasi conto di sottolineare ancora come tutti gli Orfici (e, mi verrebbe da dire, anche tutta la vita del loro autore) siano incardinati sulla dinamica ricorrente di viaggio (andata) / ritorno: una dinamica che, come una sorta di sistole / diastole, è quasi onnipresente, e scandisce il testo un po’ a tutti i livelli.
 
D’altro canto, la ricorrente scansione ternaria (spesso, come si è visto, sovrapposta a quella binaria) suggerisce vistosamente, intrecciandosi col tema del ritorno, una ripetizione che è chiusura di un cerchio, ma perciò stesso, e allo stesso tempo, anche apertura di un possibile analogo moto, rinnovabile all’infinito, proprio perché si ripete sempre uguale: inizio/ centro / fine(/ inizio); mattina / meriggio / (tramonto) notte(/ mattina).
 
La ricorsività, è chiaro, è legge strutturale del libro campaniano. Correlativamente, sia la dinamica viaggio / ritorno, sia la circolarità (e / o la dinamica ternaria), sia la delineazione della parabola del giorno (a sua volta infinitamente reiterabile) presentano un nesso evidente con la questione del tempo, su cui tornerò più avanti.
 
Ad ogni modo, la coerenza progettuale del Libro, a dispetto degli aspetti di persistente frammentarietà di fatto, agisce con grande nettezza anche e proprio al livello macro-strutturale.
 
Proprio su questo piano, oltre che sul piano tematico, in modo ben percepibile, tutt’altro che sotterraneo, tutto il Libro di Campana mette in scena ossessivamente l’intuizione centrale dell’eterno ritorno, evidentemente mutuata da Nietzsche, ma letta da Campana con singolare, acutissima consapevolezza teorica.
 
In Nietzsche, e in Campana, l’eterno ritorno non viene inteso, banalmente, come mera circolarità del tempo, ma, più sottilmente, come sostanziale ambiguità della dimensione temporale.
 
Nello scorrere del tempo, visto sotto questa prospettiva, non si avrebbe cioè contrapposizione tra l’istante, l’effimero, ciò che passa e muore, da un lato, e, dall’altro, l’eterno, ciò che resta: ogni momento avrebbe in sé sia la dimensione dell’istantaneità, sia quella dell’eternità, simultaneamente, in una coesistenza paradossale, che apre, con lo spazio dell’epifania, anche quello del senso, di un significato possibile anche nel cuore della tragedia.
 
Significativamente, in La Verna la questione del tempo non viene correlata (come invece accadeva in Pampa o già in La notte) con il tema nietzschiano della morte di Dio, ma piuttosto con il tema esplicito della compresenza paradossale dei tempi, legata sia alla persistenza dell’infanzia, sia al nesso conturbante tra infanzia e morte.
 
In generale, è comunque necessario sottolineare ancora che nei Canti Orfici non c’è affatto nichilismo, ma piuttosto viene rappresentata l’apertura di una nuova possibilità esistenziale, di un nuovo modo di percezione del cosmo e della soggettività.
 
Anche se l’esistenza resta il luogo di una contraddizione tragica, il tempo spalanca la vertigine di una “serenità” assoluta, se solo l’uomo riesce a rendersi consapevole che l’eterno gli appartiene paradossalmente in ogni momento, esattamente come la transitorietà, e dunque che ogni istante dell’esistenza può avere pienezza di eternità, e come tale eternamente ritornare, se solo sapremo conferirgli pienezza di senso e amarlo di per se stesso, senza remore, pronti persino ad accettare la nostra morte.
 
Da questo punto di vista, La Verna ci mostra in modo particolarmente evidente, al di là di ogni ragionevole perplessità, proprio una declinazione non nichilistica della percezione campaniana del mondo: una declinazione che sarebbe un grave errore sottovalutare.
 
Il tema dell’amor fati, della serena accettazione del proprio destino, si ritrova qui infatti, visibilmente, anche e proprio nella lettura campaniana della storia di San Francesco: che implica la serena accettazione delle stimmate, segno privilegiato di una dimensione cristologica, e dunque di un sacrificio e di una sofferenza carichi di senso.
 
Proprio come, mutatis mutandis, quello del poeta, dell’ultimo Germano in Italia e del boy dell’epigrafe degli Orfici.
 
Simboli strategici della concezione campaniana del tempo, sulla scia di Così parlò Zarathustra, sono il ponte, in quanto luogo della transizione e del passaggio, e il meriggio, che si sovrappone simbolicamente al tramonto, in quanto pienezza che prelude alla morte.
 
Anche senza indulgere troppo a forzature simmetrizzanti, è abbastanza evidente che, nel suo complesso, la macro-struttura dei Canti Orfici si costituisce, anche visivamente, come una specie di grande parabola, proprio perché è incardinata su tre testi di ampie dimensioni (appunto La notte, La Verna e Genova), che danno luogo a quella che mi azzarderei a definire una simulazione nello spazio testuale della parabola temporale del giorno; questa parabola si presenta anche come una curva che ritorna su di sé, e proprio per questo potenzialmente ripetibile all’infinito, dove la fine potrebbe anche annunciare un nuovo inizio, a mimare la dinamica dell’eterno ritorno del tempo.
 
 
Una poetica esplicita: purezza, primitivismo e tradizione
 
Pochi scrittori hanno saputo mescolare la scrittura in prosa a strutture ritmiche, spesso quasi-versali, e strutture iterative con la densità e l’intensità di Campana.
 
D’altro canto, è altrettanto legittimo affermare che in La Verna la consueta commistione campaniana di prosa e versi riceve una torsione particolare, che a prima vista coincide con un alleggerimento, quasi un diradarsi del tessuto ritmico-iterativo.
 
A ben guardare però questa impressione resta in larga misura solo un’impressione, non così giustificata dalla realtà del tessuto stilistico: forse sarebbe più corretto, o almeno più prudente, dire che La Verna è sì tramata di ritmicità, ma aggiungendo che questa ritmicità si colloca in una ancor più evidente narratività, scandita del resto dalle tappe di un viaggio stavolta non meramente simbolico, ma concreto e ben riconoscibile, fin nei nomi geografici: il che non toglie che simbolismo ci sia, come già stiamo vedendo, eccome.
 
Anche per questo La Verna può essere anche letta, sia pure con molta prudenza e non senza qualche persistente rischio di arbitrio, o quanto meno di sovrainterpretazione, anche come (una sorta di) testimonianza biografica oltre che poetica, e particolarmente significativa.
 
In essa infatti compaiono molti luoghi reali e, per di più, abituali dei vagabondaggi campaniani: Campigno, Castagno, la Falterona e i suoi boschi, Campigna, Stia, il Monte Filetto (dove pare che Campana andasse spesso a declamare i suoi versi), Valdervè.
 
Sono luoghi tutto sommato ben determinati, forse anche più concreti che in altri testi del nostro poeta, e unpo’meno deformati espressionisticamente, anche se già trasfigurati simbolicamente e tramati di ricordi letterari e artistici.
 
Si può anzi affermare qualcosa di più impegnativo: anzitutto, che La Verna documenta non solo una geografia, particolarmente rilevante per Campana, ma anche l’immaginario ad essa collegato, le fantasticherie che quella geografia suscita.
 
Andando (legittimamente) oltre, si può inoltre affermare che la rappresentazione del pellegrinaggio francescano si assume anche, visibilmente, i compiti di una dichiarazione di poetica abbastanza esplicita: di poetica specificamente letteraria; ma anche di poetica pittorica, e più generalmente artistica.
 
Da questo punto di vista, bisogna anzitutto notare l’importanza strategica del richiamo, ricorrente e persino esibito, alla tradizione: un richiamo che, se anche qui non ha toni apertamente polemici, lascia però percepire in modo chiaro la presenza di una polemica implicita.
 
Per Campana, infatti, riallacciarsi alla tradizione significa fare riferimento non tanto e non solo a dei valori formali, quanto ancor più a una lezione di moralità, di purezza e autenticità.
 
Molto notevole, in questo senso, è l’inserimento nella redazione dei Canti Orfici della sezione Sulla Falterona, (Giogo), mancante in Il più lungo giorno:
 
   Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu. (Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)10
 
Dove è più che probabile che la sottolineatura dei valori cubistici rimandi anche alle coeve affermazioni di Soffici, che contrapponeva il futurismo all’arcaismo cubista: si tratta dunque di un riferimento che, non troppo nascostamente, fa il contropelo a Soffici, o almeno alla sua poetica.11
 
Anche senza insistere troppo sui possibili riferimenti polemici, è chiaro che le citazioni campaniane collocano tutte il loro baricentro in una costellazione di significati con forti implicazioni etiche: la semplicità, la povertà, la santità (evidentemente radicata nel ricordo di San Francesco: “una santità fatta spirito, linee rigide, enigmatiche di grandi anime ignote”12), persino una spigolosità della fisionomia (“viso legnoso”13) che si traduce in franchezza e autenticità, senza contare la stessa ossessiva presenza del barbarico.
 

 
10 Ivi, pp. 50-51.
 
11 Sui significati del “cubismo” campaniano, oltre che sui complessi rapporti contrastivi con Soffici,si vedano le magistrali pagine di Silvio Ramat, La Verna, Campana e Soffici, in Id., Protonovecento, Milano, il Saggiatore, 1978, pp. 293-294, 311-312.
 
12 Ivi, p. 57.
 
13 Ivi, p. 48.
 

 
Sono tutti valori che rimandano alla ricerca della purezza, che è al centro della costruzione dei Canti Orfici: a cominciare, ça va sans dire, dall’immagine dell’ultimo Germano in Europa, e della sua fatale tragedia.
 
La ricerca della purezza si accompagna alla congiunzione, da un lato, fra primitività e autenticità in pittura (Giotto, Leonardo, lo stesso Michelangelo, ma anche Andrea del Castagno e Andrea della Robbia), e, dall’altro, fra primitività e autenticità della vera tradizione poetica italiana:una congiunzione in cui si accampa molto vistosamente non solo il costante richiamo al padre Dante, ma anche il reiterato riferimento a Carducci.
 
In particolare, c’è un’importante prosa carducciana, che a sua volta potremmo definire di poetica, che certo non a caso costituisce un intertesto persistente del testo di La Verna: è la sezione IV della prosa Ça ira, con cui Carducci rispondeva, fra polemica, rievocazioni e divagazioni, alle critiche piovute sull’ omonima raccolta di sonetti.
 
Un passo di quella sezione è diventato evidentemente un’autentica ossessione nella memoria di Campana, che in La Verna (sopratutto ma non solo) lo rievoca in continuazione; da qui deriva per esempio la clausola “della poesia toscana che fu”,14 che riprende (come testimoniano anche vari altri riscontri convergenti) il seguente passo carducciano:
 
Tutto il sole e tutto il cielo, co’l nuvolo di pulviscoli d’oro che lo splendor del tramonto raccoglie dalla terra, inebriata di luce, circola con voluttuosa letizia per la villa serena. O madonna Laldomine, fatevi al verone tutta vestita d’argento a udire l’ultima ballata d’amore della poesia italiana che fu. Uscite, uscite, madonna, prima che l’umida sera cali e ci avvolga.15
 
Sarebbe facile moltiplicare i riferimenti specifici di La Verna al passo citato di Madonna Laldomine: per esempio se ne ritrova un altro rilevante alla fine della prima parte,16 poco prima di una vistosissima citazione dantesca.17
 
Ma una citazione ancora più evidente del sopracitato passo carducciano è quella riscontrabile nel frammento Nel portamento della testa...:18 dove è evidente la complessa ambivalenza del rapporto fra Campana e Carducci, un’ambivalenza esemplarmente testimoniata da un altro celebre, illuminante aforisma, in cui il poeta di Marradi rende conto ironicamente del proprio programmatico e ironico “tradizionalismo”:
 
   Non vi sembra che un cafonismo molto carducciano possa essere una base solida per i miei giuochi di equilibrio?19
 
 

 
14 Ivi, pp. 50 e 61.
 
15 Giosue Carducci, Ça ira, IV, in Id., Confessioni e battaglie, Serie prima, in Id., Opere scelte, a cura di Mario Saccenti, vol. II, Prose, commenti, lettere, Torino, Utet, 1993, p. 494.
 
16 Dino Campana, Canti Orfici, cit., p. 58.
 
17 Da Purgatorio, VIII, 8; lo stesso è citato anche neIl fanciullino di Pascoli.
 
18 In Dino Campana, Taccuiini, abbozzi e carte varie, in Id., Opere e contributi, cit., vol. II, p. 429.
 
19 D.Campana, Storie, I, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, cit., p.441.
 

 
Nonostante l’ironica presa di distanza, il vate Carducci funziona per Campana da aggancio a una tradizione poetica illustre, e a quanto essa evoca:rigore insieme morale e artigianale del lavoro artistico, così come disponibilità di un repertorio storicamente consolidato di forme da innovare, ma certo da non abbandonare.
 
E questo proprio mentre Campana ironizza sul proprio carduccianesimo (il “cafonismo”), anche per quel tanto di angustia campanilistica, di colore troppo toscano-secondo Ottocento che vi si poteva trovare.
 
Su questa “base solida”, però, ecco i “giuochi di equilibrio” poetici, che per Campana non rimandano all’avanguardia, e tanto meno alla sua impoverita e rumorosa versione italiana, cioè al futurismo, quanto piuttosto ad autori più prestigiosi, e a immagini decisive non solo per la sua memoria poetica, ma per l’intera civiltà europea: come il poeta “saltimbanco a digiuno” della Musa venale di Baudelaire o il “funambolo” della prefazione di Così parlò Zarathustra di Nietzsche.
 
Dalla coscienza di questa posizione necessariamente ambigua, sospesa tra passato e futuro, e dalla conseguente ricerca di una continuità innovatrice nei confronti della nostra tradizione poetica, Campana deriva la convinzione di avere una sorta di missione da compiere: quella d’infondere nuovo sangue alla nostra poesia, di arrestarne la decadenza durata ormai troppo a lungo.
 
Scorrendo La Verna, potremmo agevolmente reiterare le citazioni carducciane, che rimandano in buona sostanza sempre all’esigenza di ritrovare l’autenticità “primitiva” della tradizione poetica italiana, contro l’artificiosità, la maniera, la pochezza morale.
 
Si rilegga, per esempio, l’ultimo capoverso di II. Ritorno,20 dove si registra un fitto intreccio tra passi di Dante (dalla Vita nuova, oltre che Commedia, di cui è citato soprattutto il Purgatorio)e vistose reminiscenze carducciane.
 
Ma queste ultime sono comunque un po’ dappertutto, e sono a volte davvero clamorose: come per gli abeti, definiti senz’altro “giganti giovinetti”,21 come i cipressi di Bolgheri.
 
 
Narratività e anti-discorsività
 
Come spiega magistralmente il mai troppo ricordato Jurij Lotman, in ogni testo letterario è possibile distinguere due aspetti. Il primo, con cui un testo simula un intero universo, lo si può chiamare mitologico; il secondo, che rappresenta qualche episodio della realtà, può essere definito fabulistico.22
 
 

 
20 Dino Campana, Canti Orfici, cit., pp. 60-61.
 
21 Ivi, p. 60; per il quale cfr. Giosue Carducci, Davanti San Guido, in Id., Rime nuove, in Id., Poesie 1850-1900, Bologna, Zanichelli, 1973, p. 686. Silvio Ramat parla di “scolastica reminiscenza”, in La Verna, Campana e Soffici, cit., p. 295.
 
22 Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarelli, Milano, Mursia, 1972-1980, p. 255.
 

 
 
Se i miti possono anche riferirsi “alla realtà solo in base ad un principio mitologico”,23 normalmente ogni testo letterario mette in scena una rappresentazione specifica, individuata, che tuttavia si proietta su un orizzonte universale.
 
La dimensione mitologica attribuisce alla rappresentazione specifica un significato simbolico, che fa tutt’uno con la sua capacità modellizzante, cioè con la sua tensione a rappresentare, per il tramite di un episodio, la totalità: per questo l’arte può essere interpretata anche come un sistema di simulazione. Limitata nello spazio, l’opera d’arte diventa modello di un mondo senza confini.24
 
Lotman precisa, opportunamente, che i testi letterari non sarebbero tali se non includessero comunque un principio mitologizzante, cioè generalizzante e simbolizzante; ma, d’altro canto, escludendo i miti stricto sensu, i testi letterari mettono in gioco sempre anche il principio fabulistico: evidentemente in proporzioni variabili, facendo dominare l’una o l’altra tensione.
 
Se la poesia in genere tende a privilegiare il valore simbolico, esemplare di quanto viene rappresentato, e la narrativa invece tende ad accentuare la rappresentazione concreta di fatti individuati, è chiaro che Campana dà luogo a una dinamica peculiare, quella stessa che diede luogo alla querelle, di continiana memoria, tra “visivo” e “visionario”.25
 
In sintesi, e in parole povere, il paradosso fondante della poesia di Campana risiede nella sua peculiare capacità di accentuare la dimensione mitologica, cioè simbolica e “visionaria”, ma adoperando un materiale che continua ad avere tutta l’aria di essere fortemente fabulistico, cioè concreto e “visivo”.
 
Se questa dinamica percorre tutti i Canti Orfici, visibilmente si ripresenta in La Verna modulata in maniera peculiare, o, se si preferisce, ancora più accentuata.
 
A prima vista, infatti, la narrazione del pellegrinaggio al monte di San Francesco sottolinea vistosamente le componenti diaristico-autobiografiche, inducendoci a una qualche sottovalutazione dei valori simbolici che le restano invece indubitabilmente sottesi.
 
All’attivazione di questi valori semantici e simbolici profondi contribuisce, in modo vistoso, proprio la già ricordata correlazione della prosa di La Verna con i testi di inizio e fine degli Orfici (La notte e Genova), cioè con i testi che ne costituiscono la cornice, ribadita dalle epigrafi.
 
I confini del testo sono infatti il luogo privilegiato in cui l’opera d’arte si costituisce, per riprendere ancora Lotman, come “modello finito di un mondo infinito”,attivando per l’appunto la propria funzione modellizzante.26
 
 

       
           23 Ivi.
 
24 Ivi, p. 253.
 
25 “Campana non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa”, Gianfranco Contini, Due poeti degli anni vociani. II. Dino Campana, in Id., Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino, Einaudi, 1974, 19822, p. 16.
 
26 Ivi.
 

 
 
Se analizziamo nei dettagli il tessuto testuale, la conclamata narratività di La Verna, il suo procedere sulla direttrice metonimica più che su quella metaforica, rivela una trama ancora fittissima di ripetizioni / variazioni, e più generalmente di procedimenti poetizzanti.
 
Certo, questa stessa tensione iterativa, e più generalmente poetizzante, è per larghi tratti un po’ più diluita, o quanto meno non altrettanto accentuata di quanto avviene in altri testi prosastici degli Orfici, come Sogno di prigione, o il trittico finale, fortemente coeso, composto da Scirocco, Crepuscolo mediterraneo, Piazza Sarzano, che non a caso prepara, in una sapiente climax, il vertiginoso tramonto finale di Genova.
 
Ma in molti casi la maggiore prosasticità di La Verna è un’impressione ingannevole, quasi l’occhio e la mente del lettore fossero trascinati via, e dunque un po’ ingannati, dal procedere narrativo.
 
A ben guardare, restano numerosissime le sequenze ritmiche, dove non di rado sono ben riconoscibili misure versali vere e proprie, di solito dominate dall’endecasillabo e dal settenario.
 
Si legga per esempio la seguente sequenza, nella quale inserisco il segno “ / ” a marcare le misure (quasi-) versali:
 
stradine solitarie / tra gli alti colonnati / d’alberi / contente di una lieve stria di sole......... finché io là giunsi in dove avanti a una / vastità velata di paesaggio / una divina dolcezza notturna / mi si discoprì nel mattino, / tutto velato di chiarìe il verde, / sfumato e digradante all’infinito:27
 
L’impulso ritmico, avviato e incardinato prima su due settenari, poi proseguito con una vistosa serie di endecasillabi, è evidente; ma non si tratta certo di un caso isolato. Si veda, ancora, come si apre la sezione Monte Filetto, 25 Settembre:
 
Un usignolo canta / tra i rami del noce. / Il poggio è troppo bello / sul cielo troppo azzurro. / Il fiume canta bene / la sua cantilena.28
 
In questo caso siamo di fronte a una sequenza di ben sei settenari.Il compito dell’analista è ancora più facile laddove si concentri sulle ripetizioni sonore vere e proprie, che, al solito, coinvolgono tutti i livelli del testo, dai fonemi alle sillabe, alle parole intere, a sintagmi brevi, a frasi intere. Ecco, per esempio, una piccola, intensissima sequenza di ripetizioni sonore: “(dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri)”;29 ripresa peraltro poco sotto: “Il corridoio, alitato dal gelo degli antri”.30
 

 
27 Dino Campana, Canti Orfici, cit., p. 56.
 
28 Ivi, p. 61.
 
29 Ivi, p.55. Ricordiamo il felice commento di Ruggero Jacobbi, che sottolinea, in La Verna,“alcune zampate di liricità mozzafiato, come questo vocalizzo sulla «a»”, in Invito alle lettura di Campana, Milano, Mursia, 1976, p. 65.
 
30 Dino Campana, Canti Orfici, cit., p. 56.
 

 
Ma potremmo soffermarci a lungo soltanto sul gioco fra “antri” e “alito”, che percorre tutto il testo, mettendo evidentemente in gioco la polarità fra i campi semantici della roccia e della montagna, da un lato, e, dall’altro, quelli del vento, del soffioe della fluidità. In al-tre parole: anche in La Verna non è lecito sottovalutare la messa in opera della consueta trama di procedimenti iterativi, né, oltre la mera ripetizione, la rete dei rimandi semantici convergenti, delle isotopie sottese alla superficie del testo.
 
In particolare, fin dal primo capoverso, La Verna mette in scena, e in rilievo, una coppia assolutamente strategica del sistema di significati degli Orfici: “Le roccie e il fiume”.31
 
Cominciamo dal secondo termine: “il fiume” rimanda, con ogni evidenza, all’area semantica dell’acqua, di eccezionale rilevanza, che peraltro è parte della più ampia costellazione semantica legata alla fluidità, cui si riallaccia anche il vento. Fin dall’incipit dei Canti Orfici, l’acqua ha a che fare con il tempo, cui è associata, fra le altre cose, ancora e proprio per la comune appartenenza all’area semantica della fluidità, cui si riallaccia anche il motivo, fondamentale, dello scorrimento: non a caso, “corso” è parola che in Campana associa, più marcatamente che nel linguaggio comune, il tempo e i fiumi, e, più in generale, per l’appunto i corsi d’acqua.
 
Nella semantica campaniana l’acqua, così come il vento, si associa però anche alla musica, spesso caratterizzata come “canto”. Ma al tempo stesso la musica, simbolisticamente, viene a instaurare un rapporto profondo e privilegiato (fino a una sovrapposizione tendenziale) con la poesia, e, più largamente, con l’arte.
 
Sistematicamente, sia il vento sia l’acqua vengono caratterizzati come fluidi che producono suoni, cioè appunto musica, con il risultato di una costante estetizzazione del paesaggio; un esempio solo: “La melodia docile dell’acqua [...] dolce come l’antica voce dei venti”.32
 
Qualsiasi lettore di Campana riconosce in queste espressioni lo stesso scenario simbolico di La chimera: il che significa che, se l’acqua è musica / poesia, anche l’immagine della donna tende a sovrapporsi alla poesia. Inoltre, se alla poesia vieneassociatala donna,è anche molto evidente che Campana stabilisce costantemente anche un rapporto di analogia / assimilazione tra la figura femminile (sorella, madre e prostituta) eil paesaggio naturale, in particolare i paesaggi di roccia emontagna: come mostra anche, vistosamente,la tendenza a selezionare, per la rappresentazione di rocce e montagne, lemmiconnotati nel sensodella femminilità, come il comune “fianchi”, ma anche il più marcato “grembo”.
 
Complicazione importante: non possiamo dimenticare le conno-tazioni angosciose che in molti casi sono da Campana collegate all’immagine della montagna; per esempio: “Il canto fu breve: una pausa.
 
Un commento improvviso e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico”.33
 

 
31Ivi, p. 47.
 
32 Ivi, p. 63.
 
33 Ivi, p. 49.

 


 
Vale la pena di ricordare una lettera che segue di circa due anni e mezzo la pubblicazione degli Orfici, una delle lettere più dolenti e assurde di Campana, nel pieno del tragico fallimento della storia d’amore con Sibilla Aleramo:
 
 Là tra Sorrento e Cuma dove il Vesuvio fuma si fuma divago caro Cecchi, mi sembra come se una montagna un'enorme montagna che enorme spettrale macabra perché non esiste si sia drizzata accanto e voglia esistere - voglia esistere voglia esi-stere questo è atroce che quello che non esiste voglia esistere, quest'incubo, voglia esistere a qualunque costo minacci di scomparire per esistere è atroce darei il mio sangue per dire che esiste ma non esiste è un incubo. Sono tre mesi che ci strappiamo di mano i resti del nostro amore. Non avevo ragione di vivere prima così ho creduto ciecamente [.]
Non avevo ragione di vivere ma non potevo aver ragione di morire ma come morire adesso? Tutto serve ti si strappa la tua forza il tuo individuo si vuol mettere il tuo do-lore nel letto ignominioso dei drudi, l'ultima nobiltà inconfessata segreta di un malato che nessuno ha il diritto di chiederti poi tutto si allontana come un incubo mostruoso.[...] perché lui non esiste perché lui non esiste [.] questo non è amore e si al-lontana grande enorme come una montagna. Una volta saltavo ritornavo alla natura al riso caro Cecchi. Ora non ho più forza.34
 
Tornando al testo di La Verna, con ogni evidenza, e molto sintomaticamente, l’immagine della montagna genera significati in cui un po’ dappertutto le connotazioni positive, anzi, di più, estatiche ed euforiche, si sovrappongono alle connotazioni disforiche, angosciose.
 
Forse qui prevalgono le valenze euforiche, legate soprattutto alla dinamica dell’ascesa alla montagna come ascesa verso la verità, verso il luogo dell’originario, della primitività e, appunto, della purezza. Ma, con ogni probabilità, proprio nella positività dell’ascesa sul corpo della montagna / madre mettono radici anche le percezioni angosciose, perturbanti.
 
Queste percezioni coinvolgono a tratti perfino l’acqua che sgorga dalle rocce: come vediamo fin dal secondo capoverso di La Verna: “un giorno la piena ci porterà tutti”;35 sono parole, non a caso, pronunciate da una ragazza che è già immagine di semplicità, grazia e implicitamente purezza. Ancora una volta, l’acqua, in que-sto caso il torrente,produce suoni visibilmente antropomorfizzati: “il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta”.36
 
La presenza di connotazioni disforiche non sminuisce però in nulla la tensione generale verso gli elementi primi, portanti del mondo:l’acqua, il vento(l’aria), le rocce(la terra); dei quattro elementi base della mitologia, manca solamente il fuoco: chissà che cosa avrebbe potuto dirne Gaston Bachelard... Scherzi a parte, è chiaro che per Campana la ricerca degli elementi fondamentali assume una chiarissima connotazione etica, in termini, ancora una volta, di purezza e verità: “La sanità delle prime cose”.37
 
 

 
34 Lettera s.i.d. (ma quasi certamente scritta verso il 16 dicembre 1916, visto che fu recapitata a Cecchi il 17), in Dino Campana (e altri), Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti erari, a cura e con introduzione di Gabriel Cacho Millet, E.S.I., Napoli 1985, pp.207-208. Le sottolineature (tradotte nei corsivi) sono nel testo.
 
35 Dino Campana, Canti Orfici, cit., p. 48.
 
36 Ivi.
 
37 Ivi, p. 59.
 

 
"(nello spazio, fuori dal tempo)": un viaggio, molto viaggi
 
Forse è utile domandarsi, una volta di più, che tipo di viaggio è quello di Campana:ma-gari sottolineando subito che si tratta di un viaggio che conserva diverse valenze, così come dà luogo a diverse attitudini testuali, per quanto sovrapposte e convergenti. In prima approssimazione, perdonate la banalità, siamo di fronte a un viaggio vero, concreto: che infatti genera la modalità scrittoria delle “note di viaggio” e poi del “diario”.
 
Il diarismo campaniano intreccia originalmente frammentazione (più poetizzante che cronachistica) e continuità narrativa:quest’ultima certo robustamente corroborata dalle circostanze biografiche rese esplicite, con l’evidenziazione, a mo’ di bloc notes, delle date e dei luoghi.
 
Fondamentale, e connessa alla stessa dimensione diaristica, è quell’attitudine retorico-narrativa che potremmo definire ipotiposi dell’io poetante, e simultaneamente camminante: questa ipotiposi genera una tendenziale sovrapposizione (direi unica in Campana) fra il tempo della scrittura e il tempo del viaggio.
 
Si tratta, con ogni evidenza, di una sovrapposizione largamente artificiale, ma che nella tessitura del testo si mostra come naturale, producendo un “effetto natura(lezza)”,che è anche, direbbe Barthes, un “effet réel”.
 
C’è un altro unicum in La Verna, o quanto meno una sua peculiare torsione semantica e psicologica: anche in quanto viaggio in spazi concreti, con una concreta conoscenza dei luoghi e delle persone, qui più che altrove l’io poetico stabilisce contatti con le persone, in una dimensione relativamente inedita di “colloquio fraterno”,38 di serena condivisione e di pacata, partecipata pietas.
 
Si veda, in particolare, anche la solidarietà con la singolare confessione della compaesana Francesca B..39 In generale, in La Verna le persone si connotano tendenzialmente tutte in modo positivo, come figure portatrici di autenticità morale, di ospitalità “in mezzo a bona gente”,40 come suona il finale.
 
Anche laddove si parla di sofferenza, siamo comunque di fronte a una pena comune, condivisa:e tutti siamo coinvolti nella vicenda implacabile della natura, come il poeta.La sua ricerca resta sì solitaria, ma in questo caso, certo in sintonia con la presenzadella fraternità francescana, è una ricerca che ha a che fare con la conoscenza dell’altro, e con una dimensione di empatia che è davvero rara in Campana.
 
Del resto, e di nuovo, anche il nesso tra umanità, fede e fedeltà alla natura è al centro dell’esperienza, ancora una volta, di San Francesco:
 

 
38 Ivi, p. 53.
 
39 Ivi, p. 54. Giuseppe Sandrini ci ricorda che, oltre alla convergenza fra il nome di Francesca B. e quello del santo di Assisi, Francesca è anche il nome della madre di Campana, oltre che naturalmente il nome dell’eroina dantesca, che Campana cita molte volte negli Orfici. Cfr. Dino Campana, La Verna, con Quattro lettere a Sibilla Aleramo, a cura di Giuseppe Sandrini, fotografie di Aldo Ottaviani, Verona, Albra Pratalia, 2009, p. 18.
 
40 Dino Campana, Canti Orfici, cit., p. 67.
 

 
Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo.41
 
D’altro canto, proprio in quanto viaggio verso la verità, e verso il luogo di un’esperienza estrema, ascesa ma anche ascesi, il pellegrinaggio della Verna delinea un viaggio verticale, che registra una progressione narrativa e simbolica verso l’alto: cioè una dinamica di approssimazione alla verità.
 
Come ricorda la Ceragioli, “La sintesi francescana è [...] vista come un evento mitico esemplare”.42
 
In questa chiave, appare ancora più rilevante la tendenziale iden-tificazione tra San Francesco, Cristo e il, poeta stesso:43 quest’identificazione si colloca, contemporaneamente, sotto il segno del sacrificio e però anche sotto il segno della serena accettazione del proprio destino, cioè, come abbiamo già visto, dell’amor fati.
 
A ben guardare, però, la prosa campaniana lascia convivere la spinta verso l’ “alto”, reale e simbolico, con la persistente presenza dell’antitesi semantica alto / basso,per quanto però non enfatizzata moralisticamente, e forse neanche connotata in senso etico.
 
Anche sul piano meramente testuale, ai numerosi verbi del “salire” si affiancano, per quanto meno frequenti, anche i verbi dello “scendere”: “ho salito la Falterona [...]. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte”.44
 
Non bisogna però dimenticare che,mpur nella verticalità reale-simbolica dell’ascesa-ascesi, questo viaggio non smettemdi essere un viaggio orizzontale, cioè un percorso verso una meta precisa, verso un luogo di meditazione e riflessione, prima ancora che di rivelazione epifanica.
 
In questo senso, il viaggio verso un luogo è anche viaggio verso un’esperienza, intesa anche e proprio come esperienza conoscitiva, immediatamente connotata anche come uno scopo etico.
 
Colpisce, fra l’altro, che la parola “pellegrinaggio” sia l’ultima del testo, e certo non per caso; tanto più che in questo modo la “Fine de pellegrinaggio”,45mentre chiude il testo, ribadisce esemplarmente la coincidenza fra il viaggio e la scrittura dello stesso.
 
Ancora, in La Verna, se comprensibilmente l’immaginario del poeta appare più che mai dominato dal tema del viaggio, questo accade anche perché quest’ultimoviene qui nobilitato e legittimato, complice la suggestione del paesaggio toscano, dall’auctoritas di Dante, invocato come pellegrino, e così implicitamente accomunato all’io poetico stesso dei Canti Orfici:
 

 
41 Ivi, p. 56.
 
42 Fiorenza Ceragioli, Introduzione, in Dino Campana, Canti Orfici, con il commento di Fiorenza Ceragioli, Firenze, Vallecchi, 1985, p. XXXI.
 
43 Cfr. ancora la nota di Fiorenza Ceragioli, ivi, p. 130.
 
44 Dino Campana, Canti Orfici, edizione anastatica, cit., p. 52.
 
45 Ivi, p. 67.
 

 
Dante la sua poesia di movimento mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate!46
 
Si badi bene: in questo modo viene ribadita una comunanza,che è anchecomunanzadi sofferenza, di destino, e dunque anche di “professione” o ruolo sociale. Ma, pensiamoci almeno un momento, di quale comunanza stiamo parlando?
 
Della comunanza con il poeta più grande, con il poeta par excellence, e con il poeta che più di ogni altro sta a significare l’eccellenza della tradizione poetica italiana. Certo, Campana non arriva, dannunzianamente, ad affermare di essere lui l’unico vero erede di Dante.
 
Ma la forza del paragone non va molto lontano da un’affermazione di questo tipo, per quanto solo discretamente allusa.In generale, il poeta si muove in un paesaggio che da un lato suscita la percezione netta della dimensione naturale, e della sua sanità / santità, con la quale è necessario ristabilire un’armonia: non poco del senso del viaggio risiede, con ogni probabilità, proprio in questa intenzione, nell’ intenzione cioè di ritrovare l’armonia con la natura.
 
Da un altro lato, il paesaggio si presenta sempre come tutto tramato di reminiscenze, nel senso sia della presenza del passato dell’io poetico, sia della costante presenza della lettera-tura e dell’arte; così che, con apparente paradosso, il paesaggio, nel momento stesso in cui si impone come natura, si presenta come già tutto storicizzato, culturalizzato, e anche più specificamente estetizzato, come si è visto: ma nel senso appunto di un’arte capace di fondere naturalità e cultura, e dunque in nome di un valore estetico che sa restare da sempre, e fondamentalmente, anche valore morale.
 
 
I paradossi della temporalità
 
Come di consueto in Campana, la linearità apparente dell’andare si sovrappone alla linearità supposta della dimensione temporale, raddoppiata, in quanto moto fluido, di scorrimento, dalla coincidenza con lo scorrere dell’acqua, sulla quale già si erano inaugurati i Canti Orfici, il cui incipit viene vistosamente ripreso e rievocato nel finale di La Verna: Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre.47
 
 

 
46 Ivi, p. 60.47Ivi, p. 66.
 

 
Dietro la realtà e il simbolismo del viaggio, emerge ancora, desiderata insieme e subita, la caratteristica ambivalenza emotiva campaniana, l’inestricabile coincidenza della lacerazione e della gioia, del ritrovamento e della perdita:
 
“E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo”, arriva a dire il poeta, significativamente accostando il richiamo a Dante con una vistosa reminiscenza leopardiana.48
 
Ma poco oltre le parole di Campana sono ancora più fascinose e inquietanti: Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordar-mene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina con la sua parola di dolce nostalgia: è il figliuol prodigo all’ombra degli alberi della casa paterna. Letteratura? Non so. Il mio ricordo, l’acqua è così.49
 
Se il ricordo è come l’acqua,questo accade sia perché il ricordo è costitutivamente intriso della dimensione temporale,sia perché il ricordo rappresenta già un principio di estetizzazione della realtà percepita. Anche l’acqua, lo abbiamo visto, appare a Campana come naturale, ma al tempo stesso come già da sempre estetizzata, e persino analoga alla dimensione artistica.
 
Quanto meno, direbbe Ricoeur, il tempo si fa esperienza perché si fa racconto, e dunque si sottomette a un ordine in qualche modo estetico. Ancora più profonda, persino lancinante, è la scena che attornia il passo, già citato poco sopra, che ripropone i paradossi del tempo come movimenti dell’acqua, di scorrimento e sospensione dello scorrimento.
 
Leggiamolo, stavolta più estesamente:
 
L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti!..... Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra......Quel fanciullo o quell’immagine proiettata dalle mie nostalgie? Così immobile laggiù: come il mio cadavere.50
 
E’ un passo straordinario, densissimo, che va in profondità dentro contraddizioni portanti, di Campana, e forse non solo. Anzitutto, il poeta sembra alludere alla permanenza, in ogni età,della dimensione infantile, che condiziona tutto il divenire dell’esistenza: è, se si vuole, il tempo del mito, che ci segna per sempre, come avrebbe scritto Pavese.
 
 

 
48 Ivi, p. 63.
 
49 Ivi, pp. 63-64.
 
50 Ivi, pp. 65-66.
 

 
Nella compresenza di divenire e immobilità, la permanenza (dormiente, o immobile) dell’infanzia sembra qualcosa di molto vicino all’immobilità dell’Es, comunque di una dimensione psichica che non smette di accompagnarci, “stesa” nel nostro profondo.
 
Al tempo stesso, questa compresenza psicologica parrebbe assumere, sulla scorta di Nietzsche, il senso, ontologico, di una compresenza fondamentale dello scorrere del tempo e dell’eternità dell’Essere: per Campana, visibilmente, dietro Eraclito, alla fine appare Parmenide. In questa prospettiva, a maggior ragione, l’io poetante propone se stesso come una immagine dell’identità archetipica dell’Uomo.
 
Per altri versi, Campana lascia percepire qualcosa come una circolarità della vita e della morte, dove il ricongiungimento con l’origine coincide anche con la morte: difficile, qui, non pensare agl’ innumerevoli fanciulli (morti e Narcisi) e agl’ innumerevoli specchi d’acqua del primo Pasolini. Last but not least, viene evocato visibilmente il mito di Narciso, che ritroveremo in un folgorante frammento dei Taccuini, L’infanzia nasce.51
 
Anche al termine del pellegrinaggio alla Verna, dopo avere ritrovato e riconosciuto valori positivi e irrinunciabili, nel cuore di una rappresentazione che si vuole ed è per molti aspetti confortante, Campana ci fa percepire il suo universo tragico: un universo dove la contraddizione è opposizione reale, dove non c’è sintesi possibile, né conciliazione; un universo dove regna assoluta l’ambivalenza, cioè anche e proprio l’ambivalenza emotiva.
 
Questa ambivalenza scava nel fondo della dinamica psichica, e destabilizza profondamente l’identità. E tuttavia l’angoscia, la lacerazione, la perdita, il lutto non smettono di convivere con l’estasi, con la gioia, con una felicità forse ambigua, ma non per questo meno vera e profonda. Il tempo dell’ascesa resta, in primo luogo, il tempo di una purezza possibile, e di un’armonia possibile.
 
Che proprio questo genere di messaggi ci arrivi da un uomo così tragicamente infelice, non dimentichiamolo mai, è certo il segno della sua forza, della sua grandezza. In questo caso, è certo un po’ anche il segno, antico e persistente, dell’irriducibile magia della Verna, della sua natura, della sua storia, dei frutti che porta e che continua a donarci.
 

 
51 D.Campana, L’infanzia nasce, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, cit., p.450.
Per l’interpretazione di questo straordinario frammento, rimando all’acutissimo, impeccabile commento di Silvio Ramat, ivi, pp. 465-466.