L'ALTRO CAMPANA

 

di Paolo Baldan

 

Studi Novecenteschi

 

Vol. 5, No. 15 (novembre 1976), pp. 275-295 

 

Accademia Editoriale

 

 

« Rileggendo oggi l'opera completa di Campana, la prima realtà che si fa largo nella nostra mente è la semplice realtà che questo pazzo, questo poeta selvaggio, era un uomo colto » scrive Pasolini 1, e precisa: « rozzamente colto, s'intende: ma sostanzialmente giudizio da condividere se vuole porre l'accento sul carattere disordinato dell'indubbia cultura campaniana ».

 


1) P.P. PASOLINI, I custodi interessati della follia di Campana ed Ezra Pound, in «Tempo illustrato» del 16 dicembre 1973. Facciamo riferimento a questo articolo anche per le successive citazioni pasoliniane.


Eppure, commenta sempre lo scrittore, « il sapere di Campana non può venire assimilato ». Anche qui siamo d'accordo, con l'intesa che l'impossibilità della assimilazione sia tutta da ascrivere al carattere decisamente succubo della cultura dell'  « ultimo germano in Italia ».

Qui si tocca con mano anche tutto lo spessore della sua provincialità come categoria psicologica. Vogliamo dire che Campana non si presenta sulla scena latore di apporti culturali dotati di una intrinseca carica dinamica, non reca – sempre a livello cosciente – umori nuovi da far conflagrare in termini competitivi – come Rimbaud, ad esempio – all'interno di una cultura borghese-cittadina cui, viceversa, egli docilmente si sottomette.

La zuffa, è sottinteso, vi avverrà ugualmente ma il poeta, non essendo cosciente del significato liberatorio e originale che stava dalla sua parte, era indotto a vedervi una sua inadeguatezza.

A questa reagiva esasperando la ricerca mimetica di un'arte sublime e incorrotta o comunque preziosa, salvo a derogarvi con sfoghi ricchi di una verve tutta scatologica.

Un tipo di arte che, se annoverava un regale artefice come l'odiamato D'Annunzio, era piuttosto diffusa nel clima decadente. I terribili furori di Campana spesso non derivano che dalla frustrazione tipica del provinciale concessosi interamente alla cultura dominante e da essa mal ripagato.

La passività del nostro poeta si traduce quindi in un ansioso inseguimento – che date le premesse non avrà mai fine – mirante a colmare un presunto dislivello culturale.

Questo stato d'animo che lo tiene in una costante soggezione, non gli permette mai di agire in prima linea, da protagonista, ma lo fa muovere in un preciso spazio interno a una cultura vivace e freneticamente protesa verso direzioni anche antitetiche.

Una specie di onnipresente retrovia fittamente intercomunicante, sempre a un pelo dal fronte, è il teatro in cui egli aduna e incredibilmente tiene insieme tutta una congerie di esperienze, tutto riflettendo come uno specchio esploso.

Così egli – apparso dopo il primo decennio del nuovo secolo con una patetica devozione per Carducci e un'ambigua ammirazione per D'Annunzio, mentre nel nuovo clima letterario, passi per il primo, ma perfino il secondo era ormai snobbato – in pochissimi anni bruciò tanta di quella strada che capitò a ridosso dei futuristi senza che i vociani fossero persi di vista.

Si aggiunga che fu tra i primissimi autori italiani a interessarsi della nascente saggistica psicoanalitica 2. Non si può pretendere che tutto ciò avvenisse in modo organico, coerente e necessario.

 


2) In una lettera del 12 maggio 1915, Campana da Ginevra scrive a Soffici, tra l'altro: «Ho trovato alcuni studii, purtroppo tedeschi, di psicanalisi su Segantini, Leonardo ed altri, che contengono cose in Italia inaudite e potrei fargliene un riassunto per Lacerba ».

Cfr. E. FALQUI (a cura di), Campana. Opere e contributi, 2 vol., Firenze 1973; in cui, a p. 169 è riportata gran parte della lettera. Per ulteriori riferimenti a questa recente opera-base di/su Campana, useremo la sigla: Op. e con.

Per valutare fino in fondo la tempestività con cui Campana si imbatté in fondamentali « opere prime» della neonata saggistica psicoanalitica affrontandole nella lingua originale, si tenga presente che Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci è del 1910, mentre Giovanni Segantini: un saggio psicoanalitico è del 1911. A distanza di quattro-cinque anni della loro pubblicazione, quindi, Campana ha sicuramente visto il lavoro di Freud e quello di Abraham, mentre lascia capire che ha letto dell'altro.

Varrà la pena di aggiungere che, sul piano scientifico, in Italia si comincia a parlare di psicoanalisi attorno al 1908. Sul piano letterario, come è ben noto, scandalosamente assai più tardi e sempre per merito di pochi e misconosciuti autori (il caso di Svevo insegna).


 

Ma tutto questo è soltanto un aspetto, il più assodato, della dimensione culturale di Campana. Oltre a una matrice culturale « indigena » ce n'è un'altra, in Campana, che può essere fatta risalire a quella specie di riedizione aggiornata del gotico internazionale che è il Decadentismo in tutte le sue varianti.

Dove finiscano i confini spazio-temporali di un fenomeno culturale così omogeneo e diffuso nell'Occidente, è cosa ancora da stabilire in modo soddisfacente; di certo si può dire che questo complesso ribollire di fermenti culturali accomunati, tra l'altro, da una singolare predisposizione allo « straniamento » erano nati quasi come anticorpi all'interno di quelle nazioni-guida lanciate alla conquista di inaudite mete geografiche e scientifiche per l'Occidente: dalla Francia, dalla Germania, dal mondo anglo-sassone, da quelle aree fiamminghe all'incrocio di tre mondi, una sensibilità di tipo nuovo faceva irruzione anche in Italia e condizionava, quando non la plasmava, la Weltanschauung dei nostri intellettuali che, in molti casi, riattivavano il ciclo .

 


3) In questo modo il massimo rappresentante letterario europeo del Decadentismo può ben essere, come afferma Praz, il nostro D'Annunzio, pur appartenendo a una nazione periferica come l'Italia (cfr. PRAZ, La carne, la morte e il diavolo, Firenze 1966, p. 377).


 

Se per Campana abbiamo richiamato in maniera rilevata influenze dovute a autori stranieri come se la cosa non fosse del tutto normale entro il quadro appena descritto, è perché i modi e i luoghi di accostamento in lui sono eccezionali. La sua leggendaria dromomania e la sua conoscenza, sia pure approssimativa, di parecchie lingue 4 lo mettevano in condizioni di conoscere direttamente sul posto, senza bisogno di mediazioni che sarebbero state spesso estremamente improbabili, i più disparati autori.

 


4) «Conosco abbastanza bene quasi cinque lingue» scriveva nell'estate del '15 Campana a Novaro. Cfr. Op. e con, p. 194.


 

Nelle sue lunghe peregrinazioni Campana non frequentava quegli ambienti esclusivi, pensiamo alla Francia, dove si ritrovavano i più famosi nomi dell'epoca, ma sicuramente, vorace lettore com'era 5, poteva leggere loro opere o brani di queste su riviste e giornali non necessariamente specializzati: sui giornali non fiorivano soltanto i romanzi d'appendice ma era possibile trovarvi anche versi. Se ciò può essere provato con assoluta sicurezza soltanto molto raramente 6, autorizza peraltro a avanzare delle supposizioni non del tutto illecite.

 


5) Espliciti accenni anche a letture fatte in biblioteche svizzere li abbiamo direttamente da lui, Vedi quanto riportato nella nota 2.

6) Una prova indubitabile ce l'ha fornita la solerzia di Gianfranco Contini che appurò l'identità di un poeta francese citato da Campana in La Verna. I versi citati erano questi: Comme deux ennemis rompus / Que leur haine ne soutient plus / Et qui laissent tomber leurs armes! Richiesto dal medico Pariani, il poeta spiegò che si trattava di «un francese che ne scrisse pochissimi [di versi]: un parigino del 1850; non ricordo il nome». Ora, tramite Contini, si sa che questo misterioso poeta parigino è Henry Becque e che i tre versi citati dal nostro chiudono un sonetto senza titolo. Va detto che mentre l'opera poetica del Becque veniva raccolta e pubblicata in volume nel 1926 (Campana non avrebbe perciò potuto attingervi), il sonetto di cui parliamo venne pubblicato nella Revue illustrée del 1o marzo 1888. È facile supporre che Campana l'abbia scovato sfogliando magari qualche raccolta di tale rivista. Cfr. Op. e con., p. 146.


 

A esempio: ci è sempre parso strano che, circa le fonti campaniane, nessuno mai parlasse, tra le mezze dozzine di nomi fatti più o meno a proposito, di qualche autore di lingua spagnola. E sì che il nostro poeta risulterebbe 7 avere ben conosciuto l'America Latina, in particolare l'Argentina: nei suoi scritti i motivi spagnoli sia che riguardino il paesaggio sia che tratteggino figure di donne, atmosfere sentimentali o che scandiscano ritmi musicali, sono frequenti così come quella inconfondibile sensualità attonita e corposa che egli ha in comune con tanta lirica spagnola.

 


7) Usiamo il condizionale per scrupolo, visto che c'è anche chi nega tale circostanza (o, per meglio dire, la sottopone a stringenti sospetti). Cfr. il saggio di RUGGERO JACOBBI, L'esilio e la visione, in Dino Campana oggi, Firenze 1973, p. 147.


 

Più di una volta egli stesso ha proposto dei paralleli con la Spagna in termini che possono sembrare bizzarri. Come in Faenza dove, nel descrivere l'ostessa, si fa trascinare da ricordi e associazioni che lo riportano al mondo iberico e al mito dell'« antica gioventù latina » 8 che, stando a altri passi o accenni di Campana in varie occasioni, dovrebbe essere interpretata come una ideale base etnica, un sostrato senza tempo, su cui poggiare il  « secondo stadio dello spirito », quello « mediterraneo » 9.

 


8) Sottolineato nel testo. Il brano di Faenza cui ci riferiamo è il seguente. «Ofelia la mia ostessa è pallida e le lunghe ciglia le frangiano a pena gli occhi: il è Classico e insieme avventuroso. Osservo che ha le labbra dello spagnolo, della dolcezza italiana: e insieme: il ricordo, il riflesso: dell'antica gioventù latina. Ascolto i discorsi. La vita ha qui un forte senso naturalistico. Come in Spagna. Felicità di vivere in un paese senza filosofia » Op. e Con, p. 55.

9) «  Il secondo stadio dello spirito è lo stadio mediterraneo » è l'inizio di una serie di riflessioni estetiche, a volte senza apparenti legami tra loro, raccolte in un unico brano (Cfr. Op. e con. p. 446). Su questo « stadio dello spirito mediterraneo» Campana oltre a dirci che « deriva direttamente dal naturalismo » non fornisce ulteriori lumi. «  La vita quale è la conosciamo: ora facciamo il sogno della vita in blocco » prosegue il poeta. Sembra voglia riferirsi a un superamento della realtà esistenziale per l'acquisizione di una realtà superiore immaginata una perfetta, rigorosa, armonica creazione dello spirito. La « vita in blocco »  appunto, in cui «  tout se tient » in modo necessario, superata ogni casualità, ogni frantumazione dovuta « alla vita come la conosciamo » Una realtà che però, come egli precisa, non ha nulla a che spartire con il misticismo che è una   « forma dello spirito sempre speculativa, sempre inibitoria in cui il mondo è volontà e rappresentazione ». Questa realtà superiore liberatoria non può quindi che essere orfica (il realismo magico delle piazze di De Chirico, per accontentare Montale).


 

È molto probabile che nella sua mitica geografia della latinità - spia del resto di un diffuso nazionalismo che si dilatava in un imperialismo da «quarta sponda», giacché in quegli anni la «Grande Proletaria» s'era mossa e aveva occupato la Libia – Campana tenesse ben d'occhio la penisola iberica. Di certo, in Campana si possono trovare sorprendenti analogie di tono, di immagini, di pensieri, a esempio con liriche di Miguel de Unamuno. Un personaggio, inutile ricordarlo, di fondamentale importanza nella moderna cultura europea: saggista, filosofo, scrittore e drammaturgo oltre che poeta. Sappiamo che gran parte dei suoi scritti, prima di essere raccolti in volume, venivano pubblicati su riviste e giornali spagnoli e sudamericani; sappiamo che scrisse un saggio in occasione della morte di Carducci da lui definito «il più grande poeta italiano che ancor vivesse, e forse il più grande del mondo intero nel trapasso dal secolo XIX al XX ». Ce n'è abbastanza per supporre che avesse le carte in regola per poter essere conosciuto da Campana e andargli a genio nonostante la presenza, nello spagnolo, di un sempre proclamato Cristianesimo (peraltro illuminato) 10 .

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10) Unamuno,  tra l'altro,  non era sconosciuto in  Italia.  Boine, l'amico di Campana,  ne aveva parlato  sulla rivista  dei  modernisti « Rinnovamento » in almeno due occasioni: nel febbraio (n. 2) e nel novembre-dicembre (nn. 11-12) del 1907.


 

Ci sono dei versi di Unamuno che sembrano la chiara fonte (e al tempo stesso la più precisa spiegazione) di certe espressioni abbastanza oscure del poeta romagnolo. Come questi tratti da Salamanca:

« Tornò a vederti nel riposo quieta, / per sognar teco il sogno della vita, / sogno di vita che per sempre dura / e mai non muore » e si ricordi quel « facciamo il sogno della vita in blocco » di Campana, appena ricordato in nota. Non basta; questa stessa poesia dello spagnolo si apre così:

« Alta selva di torri che al tramonto / dietro il querceto che nel cielo spicca / dora coi raggi del suo fuoco il padre sol di Castiglia » e prosegue più avanti: « S'alzino come torri clamorose / i miei pensieri in fabbrica robusta: / eterna sede abbia la mia chimera / nella mia patria », per finire con i seguenti versi: « E quando il sole incendierà al tramonto / gli arabeschi dell'oro secolare » 11 .

 


11) Per i testi poetici di Unamuno che abbiamo potuto leggere, cfr. GALLO e GASPERETTI, Le più belle pagine della letteratura spagnola, Milano 1959, vol. II e O. MACRÌ (a cura di), Poesia spagnola del '900, Milano 1974, vol. I.


 

Chi non ricorda quel tramonto di « torricelle rosse » di Arabesco-Olimpia che già nel titolo – arabesco, appunto – e nell'inizio (« Oro, farfalla dorata polverosa . . . ») presenta una così curiosa affinità di immagini con gli stessi impasti cromatici? E tutte quelle torri, per lo più rosse, che percorrono come un costante Leitmotiv, ambiguo simbolo fallo-mistico, gli Orfici? Non mancano in Unamuno altri temi degni di pretendere interessanti raffronti (si vedano, per tutti, i versi di Rinascere dormendo nei campi, così straordinariamente vicini alla campaniana Pampa) ma quanto detto può bastare, almeno in questa sede.

Certe, allora, derivazioni da Unamuno per Campana? È vero che entrambi potevano trovare nel gusto dell'epoca, nei repertori di allora motivi e immagini (la chimera, per esempio) strettamente affini. Ma certa consonanza interna rende assai probabile una conoscenza di Unamuno da parte del nostro poeta.

Come mai nessuno ha mai pensato – almeno così ci risulta – a mettere in relazione Campana con scrittori spagnoli? La risposta potrebbe essere questa: i rapporti che la cultura ufficiale italiana, anche la più avanzata, intratteneva con quella spagnola erano minimi perché altre, e giustamente, erano le vie maggiormente battute nei confronti dell'estero.

Ma una volta accettata questa spiegazione è giocoforza ammettere che nell'avvicinare Campana non si è tenuto conto della sua singolarità anche per questo riguardo: era un provinciale che, a un certo punto, si trovò a viaggiare per il mondo meno brutamente di quanto si creda; con il risultato di venire a contatto con autori stranieri ancora malnoti, quando non sconosciuti, a molti illustri letterati dell'Italietta giolittiana.

Un provinciale, insomma, che su questo piano batteva sul tempo – avvicinandosi ai maestri stranieri con imprecisa tecnica ma con sicuro istinto – i sofisticati connazionali che a Firenze lo snobbavano.

Per questo non deve stupire, tra l'altro, la familiarità – questa sì attestata – che il nostro aveva con i versi di Walt Whitman. Anche qui chi spiega, come fa G. Raimondi 12, questo incontro ricorrendo all'attività mediatrice di Claudel, rivela un'ottica tutta orientata verso una direzione ufficialmente plausibile ma poco adatta a circoscrivere le esperienze di Campana.

I nomi stranieri che vengono prodotti a sostegno della genealogia degli Orfici sono stranoti e, tra i tanti riproposti anche ultimamente dalla Del Serra 13, non c'è che l'imbarazzo della scelta: nella misura in cui essi sono ancorati a precisi riscontri anche cronologicamente probanti, ci vanno bene.

 


12) G. RAIMONDI, Ritorno del poeta, nella « Fiera Letteraria » , del 14 giugno 1953.

13) M. DEL SERRA, L'immagine aperta. Poetica e stilistica dei «Canti Orfici », Firenze 1973.


 

Se abbiamo puntato tutto su Unamuno è perché questo nome – mai fatto, a quanto ci risulta, per Campana - dava corpo a un nostro sospetto.

Così, se adesso ricordiamo Whitman, lo facciamo perché ci serve da introduzione all'analisi di un'altra componente culturale che agiva in Campana e che, con un termine decisamente approssimativo, potremmo definire popolaresca.

È noto che la prima edizione degli Orfici si chiudeva con una citazione in lingua originale di alcuni versi tratti da Song of myself di Whitman. Campana li riportava con un leggerissimo ritocco e così li traduceva al medico Pariani: « Erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo ».

In una lettera del '16 a Emilio Cecchi, scriveva di ritenere questi versi come « le uniche [parole] importanti del libro ». È evidente che per lui, pur nella assai probabile eccitazione che lo spingeva a esprimersi così, essi dovevano avere un altissimo valore simbolico.

Era un identificarsi con l'Orfeo dilaniato (Galimberti) o con Isacco (Bigongiari) o con una più generica vittima di un « sacrificio liturgico » (Boine)?

In quel terribile anno centrale di guerra, l'Europa intera, trasformata in trincea, rosseggiava del sangue di innumerevoli giovani vittime « scannate » a ritmo allucinante; ma Campana, almeno in maniera cosciente, non pensava a questo, pensava allo scempio che aveva patito la sua « purezza », vedeva sé inerme, fanciullescamente aggrappato a un incorruttibile sogno di poesia, consegnato alla ferocia di una realtà – privata e collettiva – disperatamente ma invano negata.

Chiamare in causa lo stato morboso non elimina la presenza di concreti elementi dotati di una simile carica scatenante.

Ma vorremmo soffermarci sui versi americani da lui citati. Un po' per caso ci siamo imbattuti in un canto popolare bolognese che una testimonianza dà per vitale e diffuso nel capoluogo emiliano al tempo di Campana 14.

 


14) Riportato da G. RAIMONDI in Ritorno in città, Milano 1958.


 

Ci sembra interessante riportarlo. Il titolo è Bell'assassino. Eccone il testo:

 

lo non credevo mai che belva fosse,

l'hanno visto con le mani rosse

come un beccaio in mezzo dei macelli.

Bell'assassino dall'animo crudel

sgozza il fanciullo a guisa, a guisa d'un vitel!

 

Vogliamo parlare di una semplice, per quanto singolare, coincidenza? E sia. Però nessuno ci vorrà negare il diritto di guardare a Campana con occhi più attenti a suoi eventuali legami – più o meno coscienziali – con la cultura subalterna che fermenta immediatamente alle sue spalle.

« Dietro a Campana c'era Marradi, la povera Romagna dei primi anni del Novecento, il latifondo e il bracciantato, il socialismo e l'anarchia … », ricorda Pasolini, anche se subito dopo dà un ben diverso risalto all'« Universo dell'Eterno Ritorno », il vero mito informatore della poetica del nostro.

Certo Pasolini non afferma niente di speciale, quel che dice è perfino ovvio e si potrebbe dire, mutando la valenza specifica dello spaccato sociale, di qualsiasi autore. Giova però sottolinearlo in Campana almeno per due ragioni. Primo, per eliminare i residui di una leggenda che vuole il poeta come sorto dal nulla e chiuso, fin dall'inizio, in una tragica dimensione di solitudine senza spiragli, senza contatti con l'ambiente topografico e storico che l'aveva, se non prodotto, sicuramente segnato.

Secondo, perché se c'è un individuo che Jung avrebbe potuto scegliere per dimostrare la giustezza delle sue teorie sull'inconscio, questi è proprio Campana: più a livello cosciente egli respinge, in nome della purezza dall'arte e di un aristocratico ideale estetico, suggestioni culturali di provenienza « bassa », più queste si agguerriscono e aprono varchi per riversarsi, a livello inconscio, anche sui testi.

La tremenda battaglia che egli sostenne per ricacciarle indietro e per imprimere ulteriore accelerazione alle sue immagini – lotta testimoniata dagli accaniti rifacimenti cui sottopose la sua produzione – non riuscì mai a eliminare le « scorie » che dovevano pesargli, come a un inurbato di fresco, certi modi vagamente selvatici.

È pensabile che altri sarebbero stati gli esiti di Campana (e forse anche diverso il suo destino umano) se avesse ricercato un rapporto più armonico con quel sostrato vitale cui egli, per origine e temperamento, era profondamente legato a dispetto di ogni fuga (da intendersi sempre, e non casualmente, anche come fuga dalla Madre).

Si veda a quali risultati di sobria e serena solennità, a quale possente e abbandonata semplicità di autentica tempra francescana 15 egli sappia assurgere quando questo equilibrio miracolosamente venga a determinarsi, come nel poemetto in prosa La Verna.

Campana si identificò con Orfeo, Faust ecc. ma non pensò a Anteo che avrebbe potuto insegnargli quanto costa caro perdere i contatti con la Terra, la Madre, appunto.

« Campana è nato al di là dei nostri confini: ci appare a volte irreale ma a riprovare ci si accorge che la sua è una realtà ben diversa dalla nostra » 16.

 


15) L'autenticità va sottolineata per non confondere questo stato d'animo con il diffuso pseudo-francescanesimo dell'epoca, di marca soprattutto dannunziana. Suggestioni di quest'ultimo genere agiscono anche in Campana ma la profondità del suo sentire le riscatta.

16) C. Bo, Otto studi, Firenze 1940.


 

Bo non se lo sognava neppure ma proviamo a leggere queste sue righe in chiave socioculturale.

Esse sono rivelatrici dell'atteggiamento mentale (da letterato con tutti i crismi a posto) di chi s'imbatte nel diverso; qui al diverso si concede l'onore di una dimensione rarefatta di nobile spiritualità o di inattingibile mistero. Ma questa diversità non potrebbe essere colta all'estremo opposto, altrettanto misterioso per un Bo, riconducibile alla trama delle coordinate esistenziali entro le quali si inquadra la vicenda del non integrato (anche letterariamente) Campana?

Quanti gratuiti ricorsi al mistero, per questo poeta! Anche senza cedere all'illusione illuministica, molte cortine di tenebra potrebbero cadere di fronte a una nuova capacità e volontà di vedere.

C'è da credere che una parte dei misteri invocati per Campana si sarebbe dimostrata inconsistente, qualora si fosse posta maggiore attenzione ai grandiosi fenomeni sociali che sommuovevano l'Italia e che si ripercuotevano in maniera diretta sulle vicende biografiche del nostro poeta. È fuori di dubbio, per fare un esempio, che le diagnosi a alto coefficiente misterico su Campana, sono strettamente collegate all'ignoranza delle dimensioni e dei significati del movimento migratorio.

Per dirla in termini spicci: Campana risulterà più misterioso del dovuto a colui che, sull'enorme problema dell'emigrazione (ammesso che sia in grado di formulare una relazione del genere) abbia delle cognizioni piuttosto vaghe. Una vaghezza che ha in comune con il mistero un bel po' di buio. Ci siamo limitati a questo caso ma lo stesso si potrebbe dire a proposito della psicoanalisi, della filosofia dell'arte e via dicendo.

A seguire gli spostamenti di Campana fuori d'Italia, per lo meno quelli meno insidiati dai dubbi, si fa una scoperta assai interessante: i suoi luoghi coincidono con quelli classici dell'emigrazione italiana. Svizzera, Francia, Belgio e, fuori d'Europa, il Sudamerica, costituiscono – specie quest'ultimo che meno si presta alla pendolarità stagionale – tanta parte di una terra promessa per milioni di italiani che abbandonano una nazione incapace di sfamarli o di permettergli un destino decente. Incamminato su questa affollata via del lavoro, Campana ci viene spesso incontro con gli stessi problemi economici di tanti suoi oscuri connazionali.

Egli – e molte sue lettere lo attestano – era assillato dal bisogno e tempestava di richieste di denaro, patetiche nel loro orgoglio sacrificato e nella loro ingenuità, i letterati amici e conoscenti. A chi proponeva di acquistare in blocco le numerose copie invendute degli Orfici, a chi si offriva per delle collaborazioni che avrebbero dovuto essere pagate con la regolarità di uno stipendio; ad altri confessava la sua tragedia di non avere un piccolo impiego conforme alla sua vocazione, che lo avrebbe, riteneva, salvato.

Ci troviamo insomma davanti al dramma di un uomo cui la società non assegna quelle tipiche prebende con le quali soddisfa i suoi intellettuali e che perciò non trova un adeguato status sociale, finendo respinto tra i diseredati attratti dal miraggio estero.

Non bisogna esagerare nel portare avanti un'analogia che finirebbe col suonare un po' falsa per l'inserzione di toni populistici troppo accesi, gli stessi che rendono inaccettabili certe primissime tesi, di per sé non strambe, dovute a Binazzi.

Campana proveniva da una famiglia piccolo-borghese che non gli fece mai mancare un modesto aiuto e perciò non conobbe l'inferno dell'emigrazione più disperata e necessaria.

Praticò una specie di limbo, più che sufficiente però a tenerlo a stretto contatto con un mondo sovranamente sconosciuto ai letterati o, nella migliore delle ipotesi, a loro noto sotto la deformante prospettiva paternalistica: Jahier insegni.

Campana fu anche il poeta della nostra emigrazione perché la visse e, comunque, la conobbe dal di dentro a stretto contatto di gomito con gli umili protagonisti di questo biblico fenomeno centrifugo. Certamente l'assenza in lui di qualsiasi volontà programmatica di erigersi a bardo della situazione, rende la sua poesia molto più vera, impermeabile alla mistificazione del pompierismo di turno e, al contrario, rivelatrice – sotto le sontuose vesti miticamente ingenue dell'avventura – di un'autentica condizione esistenziale che si autorappresenta.

Ci troviamo perciò nei pressi dell'area di formazione della pulsione epica, che si libera in tutta la sua naturalità quando un fatto storico di natura corale si surriscalda per dinamica endogena, fino alla dilatazione fantastico-sentimentale.

Genova protesa sul mare della speranza, divorata dalla febbre dionisiaca nel brulicare di oscuri fermenti vitali, le navi « sferrate » sull'Oceano come fiondate dal grembo della Superba che le ha partorite e cullate, la « baia profonda di un'isola equatoriale» e dopo abissi di tempo («Andavamo andavamo, per giorni e per giorni » 17 come il « cammina e cammina » delle fiabe popolari) estenuanti, l'esplodere della scoperta del continente nuovo, il tuffo anticipato degli occhi nella  « prateria senza fine » sono i precisi momenti di un'epopea che di privato ha solo l'apparenza e spesso neppure questa.

 


17) Stiamo parlando del Viaggio a Montevideo (Op. e Con, pp. 4748). Tra le molte osservazioni, le più disparate, che si possono fare su questa composizione, ne vogliamo fare una di natura linguistica e in apparenza assai banale. I vv. 10-17 presentano per 3 volte il verbo varcare cui è assegnato un forte valore anche tematico. Li riportiamo: « Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale / Varcaron lentamente in un azzurreggiare: / Lontani tinti dei varii colori / Dai più lontani silenzii / Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave / Già cieca varcando battendo la tenebra / Coi nostri naufraghi cuori / Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare ». È interessante notare come nel Tragico naufragio della nave Sirio, una ballata popolare che traccia la storia di una nave partita carica di emigranti da Genova per l'America e miseramente naufragata, lo stesso verbo varcare ritorna in una semantica ed espressiva (lo stesso procedimento iterativo) analoga a quella campaniana. Per un possibile accostamento tematico – indubbiamente sempre vago – si consideri il sintagma nostri naufraghi usato, irrobustito dall'allitterazione, dal nostro poeta. Questi segni – sia pure labili – portano verso una direzione che nel corso di questo lavoro verrà meglio studiata e precisata.

Infine, per quanto riguarda la tematica vera e propria dell'emigrazione, la produzione di Campana non si ferma certamente qui. Si veda, tra l'altro, Buenos Aires, una lirica del Quaderno campaniano (Op. e con., p. 325).

Per il testo della ballata sul naufragio della « Sirio» (avvenuto nel 1906) cfr. G. VETTORI (a cura di), Canti popolari italiani, Roma 1974, p. 93. Per i particolari della vicenda, per la grande diffusione della ballata (pubblicata anche su un foglio volante) e per una rapida documentazione sull'emigrazione in America, stesso volume, pp. 292-2


 

Secondo le informazioni più attendibili, Campana si recò in America nel 1908. Ebbene, è proprio il primo decennio del secolo che vede il più massiccio flusso migratorio dell'intera storia dello stato italiano: ben di 603.000 espatriati, tra definitivi e temporanei, risulta la media annuale per il periodo 1901/1910, corrispondente a una percentuale del rispetto al totale della popolazione.

 Nel decennio successivo – e Campana lavora da operaio in Svizzera nel 1915 – la media annuale degli espatriati tocca la cifra delle 383 migliaia: cifra che pur essendo di un terzo inferiore a quella del decennio precedente (ma bisogna mettere in conto la stasi del tempo di guerra in cui, semmai, si ebbe un discreto numero di rimpatri per motivi militari) resta pur sempre la seconda in termini assoluti per tutto l'arco di tempo che va dal 1861 al 1970 18.

 


18) A. BELLETTINI, La popolazione italiana dall'inizio dell'era volgare ai giorni nostri, in Storia d'Italia, Torino 1973, vol. 5, pp. 527-528.


 

Questo dovrebbe far riflettere su certe sintomatiche sintonizzazioni di Campana con la storia di grandi masse popolari italiane nel primo Novecento, su di una confluenza o coincidenza di destini che non sembra lecito spiegare con un semplice ricorso al caso.

Del resto è molto istruttiva la direzione di « fuga » presa dal nostro poeta: si tratta di una fuga o corsa all'Ovest, di cui l'epopea del Far-West non rappresenta che una versione regionale, anteriore di qualche decennio, e risolventesi in una massiccia emigrazione interna. In questo periodo l'Ovest si presenta come un autentico mito vitale, il solo in grado di fare scattare molle che trasformano la storia modellandola con la pressione di energie costruttive. Per milioni di europei costituisce la rischiosa pacifica risposta alla disperazione, alla frustrazione di una condizione socialmente e moralmente inibitoria: i grandi spazi americani attraggono con il fascino concreto di una vita tutta da rifare secondo le proprie capacità.

Non vedere lo sfondo tragico di tutto ciò, sarebbe peraltro deteriore letteratura e il mito dell'Ovest non aveva niente di letterario: aveva la consistenza di un progetto perseguito lanciando una scommessa contro il futuro, la profonda carica che determina le scelte decisive di una vita. Stimolo psicologico formidabile e scelta necessitante d'ordine pratico, quindi, allo stesso tempo. Ben diverso dal mito puramente letterario che agiva, curiosamente, in direzione anche geograficamente opposta: dai simbolisti in su è tutto un guardare a Oriente (ma si dovrebbe risalire, per lo meno, a Schopenhauer) sia che se ne consideri il favoloso passato, sia che si fermi l'attenzione sul presente non meno straordinario. Innumerevoli sono gli esempi che si potrebbero addurre a conferma, ma basti pensare ai più semplici e un po' esterni livelli della moda culturale, al grande successo e all'influenza nell'arte figurativa delle stampe giapponesi.

O, se si vuole, scendendo a un livello senz'altro più prosaico, si pensi alla fortuna goduta, presso il semicolto pubblico benpensante dell'Italia umbertina, dalle incredibili vicende ambientate nei mari della Sonda descritte dall'infelice e casalingo Salgari.

C'è però, tra i tanti, un caso esemplare per chiarezza di fini, peso del personaggio e realtà oppositiva di un viaggio, che vale la pena di ricordare. Si tratta del viaggio in India di Guido Gozzano (1912/1913) che ne annotò i vari momenti in una serie di articoli per « La Stampa », poi raccolti nel volume Verso la cuna del mondo. Il titolo già farebbe la gioia di un freudiano e noi possiamo pure stare certi che se sentiva il fascino di un tale viaggio un tipo smagato come lo scrittore piemontese, assai poco incline agli esoterismi spiritualistici, vaccinato com'era di ironica mentalità positivista, la pressione culturale che premeva verso Est doveva essere ben diffusa e forte.

Se un mito genuinamente vitale, quasi diventato esso stesso sangue e volontà, lanciava le masse verso il futuro e la vita, un altro, fatto di una realtà astratta e simbolica ma fortemente presente nella cultura a cavallo del secolo, conduceva stanchi esteti a rifugiarsi nel grembo delle grandi civiltà orientali delle origini, a ripiegarsi nella morte.

Da altri segni ancora è rilevabile l'irriducibilità di Campana ai conformismi della cultura dominante o, comunque, il suo tardo e sempre esterno, sempre reversibile, adeguamento a essi. Anche se questo non può, tout court, significare appartenenza di fondo a una cultura subalterna (parlavamo di radice popolaresca), bisogna porre attenzione a certi atteggiamenti e a certi gesti che nel nostro poeta risultano molto illuminanti.

A esempio, è solo pura eccentricità, puro gusto provocatorio o magari marchingegno pubblicitario che si avvale della vis scandalistica, la dedica al Kaiser Guglielmo II apposta da Campana sui suoi Orfici, usciti proprio in coincidenza dello scoppio dell'immane conflagrazione? Certamente essa va inserita nel quadro di una mitologia personale di cui è chiara manifestazione pure il sottotitolo in tedesco: Die Tragödie des letzten Germanen in Italien 19.

Ma, per il momento, a noi non interessa sondare questo mito la cui capitale importanza esamineremo in seguito. Ci interessa molto di più affrontare l'apparente paradossalità di un tale comportamento, sotto il profilo storico-culturale.

La cultura dominante italiana di quegli anni è decisamente avversa agli imperi centrali. C'è, a dire il vero, tutto un settore del mondo politico e culturale che professa aperte simpatie per i due partner nordici della Triplice: si tratta di un'estrema destra, soprattutto militare e nobiliare, chiaramente reazionaria, che guarda alle due monarchie come a dei modelli di un perfetto ordine politico e sociale.

C'è anche chi, acceso di un cieco nazionalismo, e pervaso di una mistica guerriera appresa da certo futurismo (o a questo ceduta), è indifferente alla nazionalità del nemico, purché ci sia un nemico che permetta lo scatenamento della guerra (tra l'altro altamente igienica come ben si sa). Del resto – anche questo è cosa nota – nel '14 eravamo tecnicamente più preparati a una guerra contro la Francia che non contro l'Austria 20 .

 


19) Per questo la spiegazione che il poeta diede a Cecchi, di aver deciso cioè la dedica in odio agli « idioti di Marradi» rappresenta, se non proprio un alibi, certamente una verità molto incompleta.

20) P. PIERI, L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino 1965.


 

Tutto ciò non toglie che a imporre le sue scelte – fatte rapidamente proprie per svariate ragioni anche dagli altri – fosse proprio quella attiva borghesia che, cresciuta nel culto della tradizione austrofoba risorgimentale e del relativo martirologio, cui si era aggiunto di fresco Oberdan, esprimeva nei suoi rampolli (i famigerati « studenti » oggetto della profonda avversione del fante-contadino) i modi più clamorosi della sua smania di affermazione e di espansione.

Così, a stragrande maggioranza, la classe dirigente fu interventista – con sfumature e motivazioni anche assai diverse – e la sua cultura fece da battistrada alle « radiose giornate » del maggio 1915. Ma per le grandi masse socialiste, cattoliche o semplicemente  « fuori storia », la guerra fu una gigantesca prevaricazione che subirono con rassegnata impotenza. Per esse, assenti dal processo risorgimentale (quando non gli si erano rivoltate contro), non aveva molto senso l'odio verso il secolare nemico asburgico e, tanto meno, verso il tedesco.

Quando Campana dedica al Kaiser, andando con beata innocenza contro corrente, rivela una lampante eterodossia nei confronti della cultura dominante e una disponibilità oggettivamente reazionaria. Ma, come vedremo, a tale presa di posizione non devono essere attribuite connotazioni socio-politiche bensì mitiche; sicché sul piano politico, se si vuole tentare una valutazione del genere, non si può che registrare un completo agnosticismo, tipico – occorre ripeterlo – di tanta cultura subalterna.

Questo nel '14. Ma Campana – e questa è una prova che non civettava – è preso dal panico per le reazioni che la sua trovata genera. Egli non vuole sfidare – di proposito, almeno – la cultura dominante e anzi cerca disperatamente di integrarvisi. Così passerà giorni a raschiare la scandalosa dedica dalle copie in suo possesso 21 . Così diventerà interventista e cercherà, inutilmente, di farsi arruolare. Così si proverà a comporre una « poesia patriottica » 22 la tanto tormentata A M.N. che apparirà sulla « Riviera Ligure » del maggio 1916. Poiché il testo di questa poesia corrisponde, in pratica, a quello apparso con il titolo di Canto proletario italo-francese sul foglio goliardico bolognese  « Il Cannone » del novembre dello stesso '14, se ne può agilmente dedurre che il nostro non aveva tardato molto a convertirsi alla causa interventista.

Ma a testimoniare il carattere esteriore – e in definitiva fallimentare – dell'adeguamento tentato da Campana, sta tutta una serie di incongruenze e di contraddizioni che punteggiano il suo operato. Vuole, a esempio, che accanto alla sua firma, che accompagna la predetta A M.N. sulla «Riviera», venga apposta la dicitura «poeta germanicus»; e sempre per difendere il suo diritto a fregiarsi di un simile titolo, non esita a sfidare a duello un tale che glielo contesta trovandolo sconveniente. Poco prima invece – mostrando anche qui la sostanziale differenza che lo divide dai suoi modelli, destinati a esiti ben diversi – si era convertito alla democrazia. Così, almeno, aveva affermato 23.

 


21) Op.e con.p.153. Anche per l'abortito duello.

22) Cartolina al Novaro del 27-2-1916, riportata in Op. e con., pp. 206-207. In questa occasione C. commette un errore: afferma di avere composto la poesia nel luglio del '15 mentre il Canto era apparso sul  « Cannone » del novembre '14.

23) Nella stessa lettera al Soffici ricordata nella nota 2.


 

Ma è proprio esaminando la composizione A Mario Novaro (apparsa sulla « Riviera » con le sole iniziali del dedicatario, e ciò per ovvio pudore visto che il Novaro era il proprietario della rivista) che risalta in tutta evidenza l'inanità del tentativo di integrazione perseguito dal poeta di Marradi.

 « Così comincia una poesia nazionale che continua in un rude canto popolare » aveva annunciato, in una lettera della primavera del '15, Campana a Cecchi 24. Si noti, magari per semplice curiosità, come qui compaiano strettamente legati due termini la cui fusione costituirà poi uno dei fondamentali nodi della riflessione gramsciana 25

 


24)  Op. e con., p. 206.

25) L'accostamento al concetto gramsciano di letteratura nazional-popolare, va fatto con la dovuta cautela. Ma è per lo meno curioso – e sottolineiamo il termine che rende avvertiti dell'ottica ridotta qui usata – che Campana impieghi lo stesso stilema cui, ovviamente, Gramsci conferirà tutto un altro e profondo spessore intellettuale. Può trattarsi, dunque, per Campana, di una semplice coincidenza stilematica che solo retrospettivamente assume interesse. Ma può anche trattarsi di un sintomo a suo modo rivelatore. Perché Campana aveva intuito che la lingua letteraria – nonostante la sommessa avanzata del colloquiale crepuscolare e la terapia d'urto futurista – non bastava più, era nettamente inadeguata di fronte al bisogno di rappresentarsi di una nazione moderna. E Campana, stiamo cercando di dimostrarlo, tentava con questo canto di proporre un preciso modello. Se si può considerare fallito il suo disegno, ciò non toglie che il progetto di fusione tra stile « alto » e stile « basso », velleitario fin che si vuole e tale proprio per carenza ideologica, avesse un'impostazione sostanzialmente corretta.


 

Ma l'innesto tentato dal poeta non riuscì perché non poteva riuscire. Voleva conciliare due cose tra loro inconciliabili: la realtà interventista, espressione di una classe e di una cultura dominanti, con quella popolare permeata di neutralismo (diverso anche se coincidente con quello giolittiano), pacifismo o, più brutamente, agnosticismo. Due erano le strade praticabili: o quella per cui si era messo Jahier, col paternalismo mediatore di Con me e con gli alpini, o quella che rinunciava all'apparato della coralità per campionare sul piano privato del singolo dramma esistenziale la tragedia collettiva (basti fare i nomi di Ungaretti e Rebora). Naturalmente ce n'era anche un'altra: quella che conduceva a comporre testi come Gorizia 26, espressione delle classi subalterne che pativano il macello, ma qui il discorso sarebbe lungo.

 


26) Riportiamo il testo di Gorizia. « La mattina del cinque di agosto / si muovevano le truppe italiane / per Gorizia, le terre lontane / e dolente ognun si partì. // Sotto l'acqua che cadeva a rovescio / grandinavano le palle nemiche; / su quei monti, colline e gran valli / si moriva dicendo così: // O Gorizia, tu sei maledetta / per ogni cuore che sente coscienza; / dolorosa ci fu la partenza / e il ritorno per molti non fu. // O vigliacchi che voi ve ne state / con le mogli sui letti di lana, schernitori di noi carne umana, / questa guerra ci insegna a punir // Voi chiamate il campo d'onore / questa terra di là dei confini; / qui si muore gridando: assassini! / maledetti sarete un dì. // Cara moglie; che tu non mi senti, / raccomando ai compagni vicini / di tenermi da conto i bambini, / che io muoio col suo nome nel cuor. // O Gorizia ecc. ecc.

Cfr. G. VETTORI, Canzoni italiane di protesta, Roma 1974.


 

Campana, invece, si trovava in un vicolo cieco e tutto il suo progetto epicizzante gli si sfaldava tra le mani, con esito ben diverso dalle robuste creazioni cui aveva dato vita interpretando miti e miserie di quell'autentica realtà popolare che era l'emigrazione.

La lunga e prometeica lotta che il poeta neo-interventista condusse per insufflare la vita al suo mostrum è testimoniata dal testo e dalle sue peripezie linguistiche e stilistiche. Così che anche l'aspetto definitivo con cui si presenta è assimilabile a un arcipelago di strofe di diversissima ampiezza e qualità e come squassato da un ciclone che ha reciso legami e spazzato via quasi del tutto ogni sistema di riferimento interno. E non si parli di incompiuta perché, caso mai, è una malnata. Ma vediamola più da vicino, questa composizione.

Lo stesso autore considerava A M [ario] N [ovaro] niente più che un abbozzo dando peraltro la netta sensazione di non sapersi proporre in nessun caso alcuna plausibile direttrice di elaborazione; eppure questo « definitivo abbozzo » ha alle spalle una storia che si chiama Canto proletario italo-francese, un testo - ora in Taccuini, abbozzi e carte varie  27 – più esplicito, disteso e articolato. Inoltre, raffrontando le due versioni, si può notare come il processo di fusione e di condensazione – che di solito avviene nel passaggio da una primitiva redazione a quella finale – abbia dato scarsi, discutibili frutti e provocato più dubbi che soluzioni.

Tornando alle dimensioni e alla struttura metrico-strofica di questo lavoro, ci si accorge subito (anche se nulla si sapesse della accertata presenza, sullo sfondo, di Villon) che Campana vuole dargli una forma a metà strada tra la canzone e la ballata 28.

 


27) Op. e con., p. 398.

28) Per la presenza di Villon cfr. Op. e con., p. 240. Per quanto riguarda il ricorso alla canzone è perfino ovvio ricordare che questa forma di componimento poetico ha tutta una tradizione colta, da Petrarca a Leopardi, i quali 1a privilegiano proprio per pronunciarsi sull'Italia e sulle sue traversie. Una semplice curiosità: anche nella prima strofa della canzone leopardiana All'Italia c'è un riferimento alle torri: « l'erme torri ».


 

Abbondano ottonari e decasillabi, tipici versi della tradizione engagée risorgimentale (Berchet) e della mimesi popolare romantica. Endecasillabi e novenari si legano spesso proprio come nelle Odi pascoliane mentre anche la carducciana strofe alcaica fa obliqua e ufficiosa comparsa (« Hai fatto strada per le montagne / con poco canto con molto vino / sei arrivata vicino / fin dove si poteva arrivare »: non fosse per un contestuale verso che precede e per la gracilità del terzo, un'alcaica pressoché perfetta).

Anche D'Annunzio incombe, come sempre del resto. Un accostamento puntuale? Campana cerca soluzioni anche attraverso l'esametro, come è dimostrato dai versi – ma non sono i soli – che precedono il refrain finale (e che nel Canto proletario erano in prosa). Saltano subito alla memoria gli esametri dannunziani del Canto augurale per la nazione eletta di Elettra; cui sarà forse da riferire anche qualcos'altro: non tanto l'invocazione all'Italia, abbastanza scontata, quanto lo stesso titolo e, più ancora, l'enigmatica immagine delle « torri d'acciaio » che apre A M.N.  e la ritma con il suo refrain (D'Annunzio: « Tutta la gran carena sfavillava al rossor del tramonto» e, strofa finale:   «Gli uomini dell'acciaio sentirono subitamente / levarsi nei cuori una fiamma / Italia, Italia ») 29.

 


29) Non è molto, d'accordo. Per quanto riguarda più propriamente – al di là del vago, anche se psicologicamente interessante, rapporto analogico con D'Annunzio – l'immagine delle « torri d'acciaio », si tenga conto del milieu storico culturale che  può contribuire a darle un senso molto più concreto di quanto si creda. Che Campana, più o meno volutamente, si riferisse (o ne prendesse spunto) a un vero idolo della «Belle époque », la Tour Eiffel, può anche essere legittimo. Tra gli altri anche Soffici, il suo odiato maître, le dava spazio nei suoi versi e proprio in quel torno di tempo: « Una gran gioia è d'essere questo accumulatore in mezzo alla storia, / Alto più della Torre Eiffel, zampillo di fiamma » (cfr. la poesia Correnti in Simultaneità e chimismi lirici, '15).

Di certo la mirabolante e giovanissima creatura (1889) dell'ingegnere francese, doveva costituire una fonte continua di stimolo non solo metaforico per tutti i feroci antipassatisti dell'epoca, futuristi in testa. Campana, in particolare, componendo questo suo Canto proletario italo-francese (questo, come sappiamo era il titolo iniziale) aveva l'occhio rivolto alla Francia. Si veda anche, all'inizio, il distico che evoca – sotto forma di ingenuo enigma cromatico – il tricolore francese.


 

Affrontare più da vicino il caos metrico e tematico di A M.N. sarebbe di grande interesse: rivelerebbe tutta la vastità di uno scacco. Permetterebbe di riconoscere allo stadio primario tutta una congerie di elementi che un'ambiziosa operazione alchemica non è riuscita stavolta a trasmutare. Campana ne era ben cosciente se tentò di salvare il salvabile, isolando e trasferendo altrove i soli due nuclei poetici che avessero dato un barbaglio d'oro. Aurei frammenti, sì, ma perfettamente impermeabili all'epos: lirici. E sono, curiosamente, proprio i gruppi di versi iniziali e finali. Come a dimostrazione dell'agire di un meccanismo di rigetto, di una forza centrifuga scatenata proprio dall'assenza di una qualsiasi energia coesiva. Il riferimento va a quelle brevi composizioni che, adesso autonome, compaiono con i titoli di Come delle torri d'acciaio e Nel verde si spostarono le rondinelle 30.

 


30) In Taccuini, abbozzi e carte varie 1, Op. e con., pp. 387 e 402.


 

Ma per rintracciare il filo di un discorso che rischierebbe di essere perso di vista – e lasciando da parte tutta una serie di considerazioni molto promettenti – torniamo all'ambizioso proposito campaniano di scrivere « una poesia nazionale che continua in un rude canto popolare ». Su che cosa intendesse il poeta per « poesia nazionale » crediamo vi possano essere pochi dubbi e i rapidissimi accenni fatti prima al riecheggiamento da parte sua di precisi moduli metrici, sono abbastanza indicativi. Ma, naturalmente, molto più decisivo è l'accostamento ai nuclei tematici e allo spirito che caratterizzano i poemi « nazionali » così come vengono sacralmente partoriti dall'accreditata trimurti letteraria (Carducci, Pascoli e D'Annunzio) che con odi, inni, canti ecc. ha posto una pesante ipoteca su tutto il settore. E proprio al Pascoli – questo illustre conterraneo significativamente oggetto di una totale «rimozione» da parte del Germano di Marradi – Campana è più largamente debitore.

Sarà perché Giovannino indulgeva a un suo speciale populismo intriso di un sentimentalismo filantropico che stemperava in elegia anche l'epos più tronfio, sarà perché questo morbido Pelizza da Volpedo della penna si estasiava più davanti alle rondinelle che non davanti alle aquile sfreccianti nei poemi patri, più di fronte ai piedi nudi del contadinello che non di fronte ai calzari delle quadrate legioni di marcia. Sarà per tutto questo, certo che è – relativamente – il meno pompier dei tre; e che la sua Italia è pur sempre « proletaria », magari nell'accezione che un altro romagnolo « proletario » le doveva conferire una decina d'anni dopo, quando le salì sulla groppa.

A ogni modo, il populismo pascoliano è quello che ci vuole per passare al « rude canto popolare »: costituisce l'anello intermedio. E non è neppure difficile rintracciare, nell'autore di Odi e Inni, temi, immagini e toni che possono essere serviti benissimo a Campana (Gli eroi del Sempione, solo per citare un esempio) 31.

 


31) In realtà Campana adotta anche inizialmente un registro umile, accanto e insieme alle immagini vigorose (come quella delle «  torri d'acciaio »). Probabilmente per questi motivi: 1) per dare più spessore al concetto di  « poesia nazionale » chiamando a farvi parte anche quella meno aulica, più crepuscolare e in rapporto di complementarietà con i pistolotti ufficiali della poesia civile dei vati (ecco l'immagine della pastorella, elegiaca personificazione dell'Italia, immersa in un crepuscolo vero e proprio, vistosamente significativo); 2) Per pervenire, senza bruschi trapassi, al « rude canto popolare ». E per questa operazione il tono umile serviva egregiamente. Ma, in entrambi i casi, la mediazione del Pascoli diveniva necessaria.


 

Ma a Campana non poteva, ovviamente, bastare Pascoli che, se andava bene per i modi dimessi, non aveva la stoffa per interpretare la rudezza, diciamo pure: la verità, popolana; e di questo nessuno aveva più chiara coscienza dello stesso Campana che viveva, o comunque conosceva dal di dentro, certe realtà che per altri erano solo occasioni e oggetto di un canto calato dall'alto dopo approssimativi approcci più o meno benevoli.

Il nostro poeta va più in là e tenta un esperimento che – a parte il risultato poco felice in sintonia, insistiamo, con tutta la composizione è di grande originalità. Non ci pare che la critica si sia accorta – e del resto A M.N. non è mai stata indagata veramente a fondo – che il nostro Germano fattosi interventista, inserisce nel suo canto, quasi di peso, versi e spezzoni di canzoni che, combinando motivi del repertorio classico popolare con altri provenienti da una tradizione « umile » guerresca, dovevano poi - in un ampio gioco di varianti - dar vita (o comunque recuperare in senso nuovo) a alcuni tra i più popolari canti della Grande Guerra.

L'importanza di questo tentativo è enorme, e non solamente sotto il profilo linguistico. La carica dirompente dell'inserto diretto – come stimolo permanente in funzione anticoagulante nei confronti della rigidità e univocità di lettura delle forme espressive – è un tipico fenomeno della grande arte novecentesca. Nel campo della poesia basti un nome: Pound. Inserire senza castranti mediazioni elementi afferenti a sistemi « diversi », per indurre la disintegrazione di un sistema ormai chiuso e inerte, demandando più soddisfacenti soluzioni a equilibri ulteriori o alla negazione stessa dell'equilibrio, proprio questo è un fatto artistico fondamentale del nostro tempo, in sintonia con le nuove dimensioni che – sul piano epistemologico – schiudeva la fisica einsteiniana e nucleare.

E non aveva tentato proprio di far questo il Futurismo? Incapace però, almeno nella sua dimensione letteraria, di aprirsi all'« altro » e condannandosi a strapazzare i dati connotativi di un ben preciso e limitato sistema culturale al quale poi, in definitiva, mediante un accurato montaggio erano tutti riconducibili: quello del borghese europeo « d'altura ». E così anche la precedente sperimentazione linguistica pascoliana non aveva fatto altro che crearsi degli strumenti sensibilissimi per una sua egocentrica lettura del mondo.

Campana, dunque, preleva di peso elementi di un sistema subalterno basato, per lo più, sulla tradizione orale, e lo fa anche per una cosciente apertura che in lui, per quanto siamo venuti dicendo finora, non può del tutto stupire. Ecco allora anche spiegato quel piccolo enigma di cui Falqui non sapeva trovare il bandolo 32. Perché Jahier aveva accostato ai seguenti versi campaniani « Cara Italia che t'importa / Ti sei fatta a forzare la pietra / Prendi coraggio questa volta / Che la porta ti si aprirà » questi altri di ignota paternità « Novantanove datti coraggio / che le porte son bombardate / tra fucili e cannonate / anche l'Austria cederà . . . »?

Falqui era roso dal dubbio: « Campana? Jahier? Interrogativi che molto probabilmente rimarranno senza risposta aumentando l'eccezionalità di un testo ecc. ecc.». A noi non sembra poi così difficile: con molta probabilità Jahier aveva compreso il tipo di operazione tentata dall'amico e commentava l'inserto campaniano con altri versi, chiaramente omologhi, sentiti cantare nelle trincee 33 .

 


32) Op. e con. p. 207.

33) Qui sarà bene fissare un'osservazione. Cultura « subalterna » non vuole, per ciò stesso, dire alternativa. Si commetterebbe un grave errore a trarre una semplicistica equazione del genere. Se Gorizia, e altre, erano canzoni impostate su di un chiaro antagonismo alla cultura dominante (che appaltava la creazione degli inni, come Il Piave, ai suoi funzionari postali visti come invalicabile soglia inferiore), molte canzoni della Grande Guerra, pervenute al fronte per le più strampalate vie, erano subalterne nel senso di una passiva accettazione di moventi non oggettivamente propri però assimilati attraverso un antico abito di obbedienza, sottomissione e rassegnazione che conferivano a questi prodotti, sempre popolareschi, quel fascino disarmante e ingenuo – e perché no quell'epos  – che tutti conosciamo. L'elemento popolaresco presente in Campana pertiene quasi esclusivamente a quest'ultima costellazione psicologica.


 

Non si dimentichi, poi, che Jahier ci aveva provato pure lui e che il suo mimetismo stilistico e linguistico di Con me aveva anche saputo essere magistrale: si trattava però, pur sempre, di mimetismo, di ottica « faziosa ».

Ma certamente quelli che sottolineava Jahier non erano i soli versi (o spezzoni) a vantare strette parentele con canzoni popolari. Possiamo anche dichiarare aperta la caccia, per conto nostro ci limitiamo a segnalare un altro caso, quel « Prendi il fucile guarda il nemico ti tocca andar » che, rilanciato da un verso quasi analogo poco sopra, tocca il culmine della tonalità emotiva (il verbo « prendi » ritorna altre due volte) inerente all'ultima lassa. Una popolare canzone adattata alle esigenze di guerra – i cui versi iniziali recitano: « Gran Dio del cielo / se fossi una rondinella (curioso: sono proprio le rondinelle che con il loro lento volo chiudono la canzone campaniana) – ha questi versi finali: « Prendi il fucile e vattene alla frontiera / Là c'è il nemico che alla frontiera aspetta » 34.

 


34) Ne riportiamo il testo secondo la versione adottata dal coro della S.A.T. (Società Alpinisti Tridentini), cfr. Canti della montagna, F.lli Pedrotti, Trento-Bolzano 1970: « Gran Dio del cielo / se fossi una rondinella / vorrei volare / in braccio alla mia bella // Prendi la secchia / e vattene alla fontana / là c'è il tuo amore / che alla fontana aspetta // Prendi il fucile / e vattene alla frontiera / lì c'è il nemico che alla frontiera aspetta ».


 

Non ci sembra, in fondo, di lavorare eccessivamente di fantasia.

C'è motivo insomma di ritenere che in Campana agisse – e non sempre in maniera completamente inconscia – una forte matrice popolaresca in modi più viscerali di quanto non si creda: lo stesso ostentato disprezzo del poeta per la « plebe » era, in definitiva, il riconoscimento di un profondo legame e, al tempo stesso, un tentativo di esorcizzare una realtà che si opponeva a tutti i suoi sforzi di integrazione alla cultura dominante. E smantelliamo certe mistificazioni: fare di Campana il rappresentante cosciente di una determinata classe, sarebbe violentemente travisarlo e non comprendere quanto impermeabile al populismo (perché così immancabilmente andavano a finire i vindici del popolo, si chiamassero Ada Negri o altro) egli fosse. E’ populista chi sconta il suo senso di colpa prostituendosi a una confusa realtà collettiva che riassume in modi estremamente sommari strati accomunati dalla bassa estrazione sociale, ma chi, radicato culturalmente in questo mondo  « infero», si autorappresenta non lo potrà mai essere: sarà, caso mai, popolaresco. Oppure, raggiunto un chiaro livello di coscienza e colti i rapporti reali cui obbedisce la vità sociale, si potrà usare la categoria « popolare » in un senso preciso e positivo che, proprio per essere tale, rimanda subito a altre realtà concettuali meno fumose e senz'altro più pertinenti.

Prima di concludere questa parte che ha visto uno scavo inteso a mettere allo scoperto l'intrico dei fattori che conferiscono spessore all'immagine culturale di Campana (e se abbiamo proceduto in maniera difforme non è stato casuale: certe componenti erano state già da tempo messe quasi completamente alla luce mentre altre giacevano sepolte bene in fondo), vorremmo portare un ultimo esempio che dimostra quanto sia tenace e sorprendentemente attivo – anche quando meno lo si aspetti – quel retroterra campaniano che definiamo « popolaresco » dandogli una dimensione socio-psicologica.

Alludiamo al Canto della tenebra, una delle liriche campaniane presenti fin dalla prima edizione degli Orfici. Lo spunto ci è offerto dal verso finale, quel « Pùm! mamma quell'omo lassù! » che concludendo a sorpresa una lirica caratterizzata da una sostenutezza letteraria con le stimmate inequivocabili della tonalità pascoliana, ha lasciato la critica fortemente perplessa. « Prosaicizzante, tra pascoliano, maudit e palazzeschiano » commenta, a esempio, Silvio Ramat 35.

 


35) Op. e con., p. 110


 

Il che è abbastanza vero - a parte il maudit, piuttosto gratuito - ma non del tutto soddisfacente. È proprio una stranezza quel verso o non è, per caso, profondamente legato da vincoli di intensa affettività a tutto il clima di regressione psicologica e sentimentale che pervade l'intera composizione?

Non costituisce, magari, il necessario sbocco di una lirica che svolge con struggente nostalgia il tema centrale di un ritorno alle origini (le « sorgenti », termine ripetuto ossessivamente per ben cinque volte in tre versi), di un regressus ad uterum dapprima vagamente teosofico e universalizzante e poi sempre più privatamente esistenziale? Il canto perde a poco a poco le sue velleità di interpretare una condizione generale per diventare proustiana recherche di una preistoria personale, e anche ritmicamente si accosta ai modi della ninna-nanna.

La « dolce fanciulla » è così, al tempo stesso, la madre come ricordo mitico ma anche la morte; e questa ambiguità si chiarisce quando si pensi che entrambe schiudono alla pace, consegnano all'indeterminato, alla dimensione in cui il prima e il dopo della vita si identificano. E l'azione del cullare reca il più affettuoso degli annientamenti poiché mima, provocandolo a arte, il ritmo abituale alla condizione intra-uterina di pre-vita.

 

Più più più

Intendi chi ancora ti culla:

Intendi la dolce fanciulla

che dice all'orecchio: Più Più…

 

dove questo morbidamente suasivo avverbio di grande suggestione fonica e semantica (compare sei volte ma nel manoscritto originale quasi il doppio) imprime decisamente l'andamento di una nenia per bambini. Ma allora, se questo è vero, il verso finale non è più una stranezza, diventa funzionale e plausibile. Diventa la rivisitazione di un trauma infantile o, più semplicemente, di un incubo che interrompe come una dissonanza - e con effetti catartici positivamente reattivi, da frustata – il fascinoso e fino allora irreversibile canto della sirena del nulla.

L'« omo lassù » – spiegava il poeta al Pariani  –  « sarebbe uno che si è ucciso » e tagliava corto: « Son tutte fantasie » 36. Deludente quanto mai; a parte il riferimento al suicida che può essere - e non sarebbe il primo caso - un alter ego proiettato all'esterno e che scende nel gorgo (al posto del poeta salvato dallo choc che lo ributta nel dolente fervore esistenziale) in perfetta sintonia con il senso e il ritmo di tutto il Canto 37.

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36) Le spiegazioni, o più spesso i brandelli di queste, che Campana ricoverato a Castel Pulci offre al medico Pariani, sono quasi sempre  insoddisfacenti  o addirittura fuorvianti (per la presente cfr. Op. e con., p. 144). Lo stato di salute del poeta solo parzialmente rende ragione di ciò; anche nei suoi momenti di massima lucidità egli sembra assente e staccato dalla sua opera, come se non fosse più in grado di comprenderla o di ripercorrerla emotivamente. Al massimo egli fornisce dati biografici o comunque di natura esterna e dà l'impressione di avere perduta la chiave se mai l'aveva posseduta, di accesso alle proprie « fantasie ». Offre così un caso clamoroso e estremo di un autore che diventa semplice spettatore della propria opera, confermando la verità dell'assunto che vuole l'opera si spieghi da se stessa come garanzia di verità artistica.

37) A proposito della proiezione di un moto pulsionale intimo e della sua personificazione, interessante quanto afferma Freud: « Affini alle creazioni proiettive dei primitivi sono le personificazioni mediante le quali il poeta esterna da sé, come individui distinti, gli opposti moti pulsionali che combattono in lui » (S. FREUD, Totem e tabù, Torino 1972, p. 104, nota n. 3). Nel nostro caso la proiezione sembra essere scattata soltanto per la pulsione autodistruttiva.

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Ma, una volta accertata la coerenza interna di tutta la lirica, torniamo a questo sorprendente verso finale che continua a presentare ampie zone d'ombra anche se ne abbiamo chiarito la funzionalità e proposto una traccia a sfondo psicologico che potrebbe portare assai lontano (a imbattersi in Edipo, per esempio). Giunti a questo punto, però, anche un'altra an di tutto il peso che la parte sommersa può avere nell'economia generale « intrusioni » popolari o popolaresche che, considerate sotto il profilo storico-sociologico oltre che psico-analitico, appaiono ancora una volta forti golazione ottica appare molto produttiva: ed è sempre quella attenta alle di un iceberg

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Giunti a questo punto però, anche un'altra angolazione ottica appare molto produttiva: (ed è?) sempre attenta alle "intrusioni " popolari o popolaresche che, considerate sotto il profilo storico-sociologico oltre che psico-analitico, appaiono ancora una volta forti di tutto il peso che la parte sommersa può avere nell'economia generale di un iceberg". Non mi torna ":ed è" in quella posizione, ma la frase dev'essere

Nella sua nostalgia del Grembo, la lirica ci ha ricondotto all'infanzia, a quell'età in cui vecchi miti popolari riacquistano vita con tutto il loro fascino e la loro terribilità. Non è forse una fantasia popolare tra le più universali quella che legge sulla luna piena (e quindi « lassù ») la presenza di una figura umana sempre un po' bieca e triste, si chiami l'errante Caino curvo sotto il peso del tremendo fratricidio o l'Impiccato o, ancora, il Grande Peccatore punito? A monito dei bambini spesso le madri – ci riferiamo sempre a determinati strati sociali oggi magari fortemente ridimensionati anche numericamente – la evocano per una loro funzionale e empirica pedagogia.

E, per finire, non si parlava prima di ninna-nanna?

 

Nanna-ò nanna-ò,

i' bambino a chi lo dò?

E lo dò all'omo nero che lo tenga un anno intero,

e lo dò alla befana

che lo tenga una settimana,

e lo dò all'omino di bronzo

che la sera lo porti a zonzo,

e lo dò all'omino d'ottone

che ci paghi la pigione 38.

 

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38) Canti popolari italiani, op. cit., p. 60.

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Si tratta di una ninna-nanna popolare e, guarda un po', di origine toscana; poco intonata, se si vuole, agli ultimi dettami della psicologia infantile, ma tant'è. Questo omo/omino » vi appare con tutta la diabolica ubiquità dell'incubo.

Anche linguisticamente, del resto, l'« omo » di Campana rimanda a un mondo dove il dialetto è la condizione naturale del bambino di provincia non ancora inghiottito dalla macchina scolastica; non si tratta di un tardo e colto recupero: la stessa intensa tonalità emotiva lo esclude. Certo non si può dimenticare che qui parliamo di dialetto toscano (se Marradi era, ed è, toscana più che altro dal punto di vista amministrativo, la madre di Dino lo era a pieno titolo) e che quindi deteneva un prestigio e poteva permettersi delle libertà di interferenza nella lingua, impensabili per altri vernacoli.

Questo comporta due conseguenze per Campana: a) Il senso più profondo della comparizione saltuaria di una sua eterodossia linguistica può spesso sfuggire / b) Egli può fare molto cammino sulla strada dell'inserto linguistico – proprio anche sul piano coscienziale – perché sa che questo non è veramente né scandaloso né provocatorio: esiste tutta una tradizione letteraria consolidata che snobba il linguaggio forbito cortigiano e cittadino per puntare – non per adesione ma per proporsi determinati effetti di tipo espressionistico – sulla parlata becera o comunque tipica del contado (quasi sempre toscano).

Era un fenomeno che il piccolo verismo toscano aveva rinverdito e con cui si era misurato lo stesso Campana quando lo prendeva un certo estro tra il goliardico e lo scapigliato: il Campana, insomma, che si dava arie da teppista ostentando un maledettismo da strapazzo e che finiva spesso sospeso, come un personaggio felliniano, tra beffa e buffo. Un fenomeno che in pieno Novecento sarebbe esploso come ideologia strapaesana così bene imbragata da certo turbolento e baruffante « fascismo delle origini » pregno di una sua selvatica purezza che trovava poi un suo spazio politico-letterario in organi come « Il Selvaggio » (appunto!).

Ma non è questo l'aspetto del nostro poeta che a noi interessa di più: proprio perché questi suoi modi basso-mimetici con agganci all'« eversione » futurista, sono posti lì, in tutta evidenza e, quel che più conta, sono pienamente coscienti e voluti. Perciò non è questa l'area – ovvia precisazione, dopo tanto discorrere – della sua radicazione culturale popolare (o popolaresca: si può discutere). Crediamo di avere fatto il possibile per dimostrare dove consista quest'area e quali frutti dia. Anche se gli esempi prodotti non sono stati esaurienti, possono tuttavia bastare a conferire una qualche consistenza alle nostre osservazioni.

Abbiamo forse smentito l'ipotesi di partenza per cui avevamo definito Campana come un poeta «provinciale concessosi interamente alla cultura dominante »? Non crediamo di essere caduti in contraddizione, perché Campana fu « popolare » malgré lui e quando, sul tardi ormai, si pose il problema – come in A Mario Novaro – fu bloccato dalla precisa impossibilità di realizzare una coabitazione (figurarsi la fusione!) tra due modelli culturali antitetici. Non ultima delle antitesi, delle fratture che dovevano portare il poeta al suo lungo e doloroso scacco finale.