«CANTI ORFICI» DI DINO CAMPANA

 

di Silvio Ramat

 

da: La poesia italiana

1903-1943

 

Quarantuno titoli esemplari

Marsilio 1997

 

 

Stagione di rigogliose fioriture autobiografiche e di non meno trascinanti verità d'autore consegnate a un genere istintivo qual era, e più non è, l'epistolografia, il primissimo Novecento ci affida comunque un libro, il libro unico di un poeta (i Canti orfici di Dino Campana), che quei sostegni non li possiede.

Rimangono, certo, il Quaderno e il Taccuinetto faentino e altri scartafacci ancora, a buttar sparse luci sui modi elaborativi dei testi di Campana e sulle idee-guida che li sorreggono. Manca però un supporto sincrono, di lettere o diari che chiariscano il cammino del libro e la consapevolezza di quel cammino.

Le non poche missive che Campana spedisce a Cecchi a Papini a Soffici e ad altri (sistemate e commentate ora da colui che si dimostra il più meritevole di elogio fra i cercatori di dati veridici sull'esistenza di Campana: Gabriel Cacho Millet) appartengono nella quasi totalità al periodo che segue l'edizione marradese (estate 1914) degli Orfici; e le poche anteriori a quell'evento sono legate all'ansia di procurare al libro una degna pubblicazione o tentano di riavere indietro (da Papini) il manoscritto malauguratamente smarritosi fra le carte di casa Soffici fino al '71.

Ossia fino a quando il fortuito ritrovamento svelò non solo un titolo inatteso - Il più lungo giorno - ma parecchie altre cose, prima fra tutte l'insostenibilità della diceria o leggenda, accreditata personalmente da Campana, che i Canti orfici come noi li conosciamo siano il risultato d'una riscrittura attuata disperatamente a memoria, una volta che il poeta capì di non poter più ricuperare il suo originale dalla sciagurata custodia dei dioscuri di «Lacerba».

Ma veramente non c'è vita di poeta, e di libro, che in quell'Italia a ridosso della guerra (un'Italia che Campana detestava per il «giolittismo» ipocrita, mentre non cessava di amarne una tradizione di arte «latina» e «toscana») sia caratterizzata da lacune paragonabili a quelle che gravano su Campana e i suoi Canti.

Dicevo della mancanza di lettere e diari d'accompagnamento alla genesi del libro. Aggiungo che non ci resta un minimo indizio di biblioteca; probabilmente non ne è mai esistita una, anche per via del nomadismo forzato e vocazionale del Nostro (quietato soltanto dalla finale reclusione quasi trilustre nel manicomio di Castel Pulci).

Solo una «biblioteca» avrebbe potuto concretare o scoraggiare le illazioni plurime sulle letture del poeta, a cominciare dalla fanciullezza in famiglia e dall'epoca del ginnasio a Faenza.

Ci manca inoltre qualcosa come un «piano di studi», che rafforzi quell'immagine di poeta cosciente, allertato e persino laborioso, sostituitasi man mano alla facile caratterizzazione del poeta folle,disadattato, senza creanza, in balia unicamente del caso.

Né ci rimane una documentazione, fuorché poetica, della sua avventura-clou, del viaggio che lo porta in Argentina, verosimilmente (Cacho Millet) fra il '07 e l'08.

Non ci soccorre nemmeno qualche datazione specifica, a piè di pagina o altrove, che fissi un ordine cronologico tra le varie «novelle poetiche e poesie» delle quali Campana scriveva a Prezzolini all'inizio del '14 - nel medesimo giorno che, forse, le offriva inutilmente all'editore Vallecchi.

Di fatto, prima del dicembre 1912 (quando sul foglio della goliardia bolognese «Il Papiro» escono quattro suoi componimenti, uno dei quali, Montagna-La Chimera, precorre da vicino La Chimera de Il più lungo giorno e poi dei Canti orfici), Campana è un autore totalmente inedito.

Ora non ci sembra che sarebbe irrilevante il poter stabilire se il ventiduenne che parte dal molo di Genova alla volta di Buenos Aires sia già un poeta in senso proprio, in esercizio, o se la poesia lo invada tuttora come una febbre vaga, come un'irrefrenabile virtualità.

Ma allorché, inviandola a Prezzolini (6 gennaio 1914) nella vana speranza che gliela pubblichi su «La Voce», parla de La Chimera come della «più vecchia e della «più ingenua delle sue poesie», forse non dice una bugia, almeno quanto al «più vecchia».

È effettivamente possibile che nulla di ciò che trova posto nel libro sia di stesura precedente al '13; e che lo stesso «diario» de La Verna, sebbene tragga la propria materia da un episodio del '10, nel 10 non fosse più che una serie di annotazioni, prese sul momento e serbate nella confidante attesa che, su colui ch'era il "pellegrino" Campana, intervenisse il poeta Campana.

Guardando alle date, qualcosa di simile si ipotizza anche più facilmente per Viaggio a Montevideo o Pampa, esaltanti referti dal Nuovo Mondo: più che mai, una prolungata sedimentazione dell'esperienza nel ricordo si rende necessaria a che l'emozione immediata finisca per corrispondere, come deve, alla mitologia e simbologia costanti di un libro nel cui titolo la forza programmatica dell'aggettivo prevale forse su quella (pur non generica) del sostantivo.

È un libro nel quale la tecnica della ripetizione formale (che si allarga in una tenace, frequentissima interazione fra testo e testo) costituisce un vistoso argomento in favore dell'unitarietà e omogeneità perseguite a tutti i costi; a costo magari di un eccesso di chiose connotative, chiamate a sciogliere il lettore da qualunque dubbio sull'intendimento del poeta.

Così è dove allega epiteti del tipo «enorme»,«infinito», «mistico», «misterioso»..., a oggetti ed eventi che spetterebbe a noi, liberamente, percepire come enormi, infiniti e via dicendo.

A tanto ci educa un gusto della parsimonia, se non proprio della ellissi, che stava del resto facendosi strada già allora in più d'uno fra i coetanei di Campana, poeta di ridondanze supreme nel raggio di un lessico abbastanza ridotto. Si prospetta quindi il caso di un'opera eseguita per intero in un arco di tempo conciso: diciamo il 1913, da gennaio a novembre?

La Chimera, ecco, giusta la confessione a Prezzolini, potrebb'essere «la più vecchia» fra le liriche organizzate in vista del libro - alle cui spalle c'è tuttavia molto del materiale stilato nel Quaderno, benché non si tratti sempre e solo di "cartoni" preparatori.

Si capisce che questa probabile contrazione cronologica della stesura del libro non è da comparare alla concitazione con cui si passa da Il più lungo giorno ai Canti orfici, sotto l'incubo del torto subito con quello smarrimento d'un manoscritto dato già per definitivo: incubo o meglio trauma, quantunque a posteriori ci si debba obiettivamente rallegrare che sia andata così, i Canti orfici rispetto a Il più lungo giorno denotando un indiscutibile progresso che s'avvale di espunzioni come d'integrazioni cospicue: su tutte quella che dà compimento al polimetro conclusivo, Genova, poema infelicemente bloccato (nel manoscritto) sul sintagma del «vomito silente», cioè sulla nube del fumo delle ciminiere nel porto della Superba.

Assenze, vuoti di grande evidenza, lacune documentarie...

D'altronde Campana, girovago che ha visto Parigi prima che vi approdasse Ungaretti (ma c'era già stato Soffici), per fatalità o per elezione non arriva all'appuntamento con alcuni centri esemplari della moderna geografia della letteratura e dell'arte. Conosce bene città come Bologna (e poi Torino, Ginevra); gli manca però Milano, la Parigi d'Italia, dinamica e luminescente quale straripa in commosse descrizioni del Giornale di bordo 1913 di Soffici, oltreché dei futuristi di stretta obbedienza.

Gli mancano, ancora, Venezia e Roma, che pur potevano fungere entrambe, in quella stagione, da stereotipi negativi. E tuttavia Campana è un «visivo» (come opinò Contini nel '37) solo finché gli giova; smette di esserlo già quando, en artiste, si comporta nella maniera che più tardi avrebbe sintetizzato al dottor Pariani (il caparbio psichiatra di Castel Pulci che pretendeva d'intervistarlo, in qualche caso ricavandone confessioni non prive di sostanza e di credibilità):

 

«Cercavo armonizzare dei colori, delle forme.

Nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi».

 

In quest'attitudine c'è già il «visionario» che, sempre nel '37, venne proposto da Bo: il poeta che rielabora l'oggetto veduto, o sognato, e lo sposta fino a farlo collimare con la figura ideale, con un principio che dentro di lui è già "scritto" e che s'attende solo conferme dall'esperienza: mai fortuita in un poeta della specie di Campana.

Del resto, alle rammentate carenze ci sono le contromisure, i ricambi.

Mancando Roma, uno specchio della degradazione morale d'Italia, Campana lo individua esemplarmente nella corrotta e corruttrice Firenze dei vociani («voci+ani», scherzo!): una Firenze che non ha niente a che fare col suo paesaggio stilizzato - e temo sterilizzato - di alcuni manieristici e non mirabili frammenti del libro.

E per una Venezia assente, non importandogli la guerra di Marinetti al passatismo e al chiaro di luna, Campana trova nei pressi di casa la scenografia orientale e bizantina che gli serve.

Cenni espliciti su visite a Ravenna non ce ne sono - e si che da Faenza, l'allucinata «vecchia città, rossa di mura e turrita...» de La notte, era corta la strada per giungere alla capitale dell'ex esarcato.

Ma qui Faenza traduce e assorbe Ravenna, ne preleva il fluido gemmato, ne succhia il sapore d’Oriente, attestando senza indugio la voracità d'una strategia compositiva.

Così Genova, più che surrogare Milano, la incorpora: e vale di più, in quanto città industriale ma anche marinara. In Lei, personificata e invocata in versi d’incontenibile enfasi, la religione del Moderno si corrobora in una simbiosi con il culto naturale e primario del Viaggio: il valore novecentesco, e nietzscheano nella fattispecie, della rigenerazione-trasformazione poggia su quel rituale perenne ch'è il circuito partenza-ritorno-partenza..., di cui il Porto si palesa come il simbolo, mobilmente e mostruosamente bello.

Genova è la Città, le Sfingi che ne decorano (secondo un gusto ben datato) i palazzi fastosi trasportano simbolicamente nelle Sue vie quei segni "orientali" che urgono carichi d'enigma alla fantasia costruttiva del Nomade e la compongono in strane miscele di esoterismo e di realismo anche minuto.

Ma è il consueto evolvere da visività a visionarismo che agisce attraverso l'intero libro, eccetto forse che ne La Chimera, dove l'argomento visivo sfuma come traccia irrecuperabile e la «visione» pertanto governa.

Non c'è dubbio che numero ed entità delle lacune abbiano sollecitato su Campana l'attenzione di critici e biografi (e di biografi-critici come il Vassalli, col suo romanzo-verità, La notte della cometa, ch'è un gran bel romanzo).

Di Campana si è potuto dire che sulla letteratura antica e recente avesse non più che informazioni incomplete, approssimative; e, al contrario, che la sua cultura fosse di prim'ordine e di prima mano; che la conoscenza delle lingue straniere gli giovasse a non più che trarlo d'impaccio nelle traversie della sua vita randagia; e che fosse, invece, così raffinata che, ne avesse avuto l'occasione e la pazienza, sarebbe riuscito uno straordinario traduttore (per esempio del suo prediletto Verlaine).

Tutto è ammissibile. Un po' forse si esagera nel dare come esempio di modernità folgorante la segnalazione (in una lettera ginevrina, del '15, a Soffici) di due «studi [...] di psicanalisi sessuale», quelli di Freud su Leonardo e di Abraham su Segantini. Campana vorrebbe farne «un riassunto per Lacerba», poiché li giudica nuovi per noi («cose in Italia inaudite»).

Ma più valore assume il proposito di utilizzare - non è l'unica volta che ne accenna - «la capacità di osservazione» dei tedeschi «in favore della nostra sintesi latina»: che, se vorrà ancora «esistere», «dovrà assimilare la Kultur».

Qui affiora infatti la candidatura di Campana a un ruolo storico, che richiede tenacia, chiarezza, metodo. Campana è un lirico sui generis, che ha bisogno di richiamarsi a un disegno etico-filosofico per trovare lo slancio e la durata. Più con l'Otto che col Novecento, quando in lui principio ideale e poetico fanno tutt'uno.

Si esalta, a elevatissima temperatura, la fedeltà alla via nietzscheana, una fedeltà che Bonifazi per primo illustrò nel suo articolarsi all'interno della vicenda di Campana, dall'«infatuazione» giovanile alla profonda «motivazione» che poi lo sostiene lungo i Canti orfici.

Del verbo di Nietzsche anche passano sulla pagina campaniana citazioni perifrasi applicazioni: questo non nei soli Canti orfici ma nei materiali diversi che fanno da prezioso contorno al libro, siano scritti palesemente preparatori o altri che, venuti dopo, suggeriscono l'eventualità di un "secondo libro", irrealizzato ma non escluso dai progetti del poeta (domanderà a Cecchi nel maggio del '16: «Lei crede che si potrebbe fare un bel libro coi miei frammenti?»).

Un libro nuovo, da non confondersi col «piccolo Faust», l'autoantologia esemplare di cui scrisse al Binazzi dalla desolata inerzia di Castel Pulci; ma un libro nel quale pezzi come Arabesco-Olimpia e Toscanità avrebbero forse strappato Campana a quel côté decadente (sulle cui "memorie" nei Canti orfici ha fornito un ventaglio di dati plausibili la Del Serra) per volgerlo ad un'attualità modulata in chiave di «frammento».

Non era facile tuttavia adeguare linguaggio e ritmo a quell'auspicio di poesia iniziatico-nietzscheana resistendo frattanto all'influenza della tentacolare parola di D'Annunzio: un abusivo finché si vuole, nella sua appropriazione o espropriazione del superomismo, ma comunque al centro di quel finiseculare e primonovecentesco estetismo che Galimberti mise bene a fuoco nella sua equilibrata monografia su Campana, dove ci sono pagine sostanziose sul ruolo avuto in quell'area da Angelo Conti, amico di Gabriele.

Va osservato che l'ostilità, critico-umorale, del poeta degli Orfici nei confronti della maggior parte dei coetanei non può, se non molto di rado, interpretarsi come la mossa di fastidio di chi si senta "più avanti".

Non sopravvaluterei quella battuta di commento - «Povera nostra poesia!» - con la quale Campana si risponde al quesito «Su qual terreno potrebbero intendersi per esempio Baudelaire e Palazzeschi?».

Chi, infatti, dice che dovrebbero «intendersi»? Qui il presupposto è accettabile: è la presenza di Baudelaire alle origini del Moderno; ma, del Moderno, Campana ha una opinione tutt'altro che nitida (vi fa il suo gioco, saltuariamente, anche il Carducci), per nulla coerente al procedere dei tempi e della storicizzazione del gusto poetico.

Tutto ciò non gli preme, anzi non lo riguarda, sicché non stupisce che la lingua dei Canti orfici non appaia quasi mai "allineata" alla media d'una sperimentazione vociana o delle avanguardie coeve, per dirla genericamente.

Quella lingua vibra o più indietro, cercando autorità nella tradizione europea, ma più spesso italiana o «toscana»; o si tende a un cielo vuoto e in direzioni troppo vaghe perché sia lecito caratterizzarla in termini di pre-ungarettismo e men che meno di pre-ermetismo, come qualcuno ha proposto.

Eppure, e forse per questa medesima sfasatura o intempestività che lo separa da qualsiasi koiné poetica di quegli anni, il libro di Campana conserva integro, a ogni rilettura, il suo potere di fascinazione.

Anomalo, se non nel titolo (restituibile ad atmosfere tardo-simboliste: Nerval come gradus ad Nietzsche), nella didascalia: dove si parla degli «ultimi Germani in Italia» e della loro «tragedia».

Il senso di quelle parole, Campana l'avrebbe spiegato a Cecchi: identificarsi nel «germano» era per lui un richiamarsi al «rappresentante del tipo morale superiore (Dante, Leopardi, Segantini)».

Nessuna allusione alla Germania 1914, ma la dedica suonava provocatoria tuttavia («a Guglielmo II imperatore dei Germani»), sicché per amichevole consiglio, entrata l'Italia in guerra contro i tedeschi, per parare le accuse di germanofilia Campana provvedeva poi a raschiarla da ogni copia degli Orfici che gli capitasse in mano.

Come in tante altre circostanze, la sveltezza dell'esemplificazione - «Dante Leopardi, Segantini» - denota il sincretismo tipico di Campana, la sua propensione a ridurre inappellabilmente ad unum (nel segno, qui, della comune purezza «primitiva» e «barbarica») opere e personaggi di vario carattere.

Sono le sue fonti. Wagner e Francesco d'Assisi, Nietzsche e Michelangelo, Whitman e Leonardo. Neanche, a rigor di termini, tutti «artisti», ma l'immaginazione di Campana li fa membri concordi d'una sola famiglia, fratelli vissuti e viventi in una età intemporale che non può consumarsi.

O che, se corre questo pericolo, reclama allora l'avvento d'unpoeta quale Campana è o tende eroicamente a diventare. Non a caso ho parlato di "fonti": quei nomi nutrono: solenni, impegnativi e caritatevoli sopraggiungono agli snodi essenziali del libro; e Whitman, leggendario poeta dello sconfinato Nuovo Mondo, soccorre con quella citazione
(lievemente ritoccata e disposta nel colophon a guisa d'iscrizione lapidaria) che, sempre nella lettera a Cecchi del 13 marzo 1916, Campana avrebbe raccomandato come il luogo più significativo dei Canti orfici.

Il cruento sacrificio di vite ancor giovani evocato nel Song of Myself lascia trasparire infatti anche il destino al quale si sentiva mosso Campana, accompagnato e definito dalle sue «novelle poetiche e poesie».

Veramente più che una traiettoria lungo la quale s'accertino miglioramenti stilistici e perfezionamenti d'una "cifra", nei Canti orfici si coglie la costruzione e la descrizione - per sommi capi e non senza qualche debolezza nei raccordi interni - di un destino: e di un uomo (d'un poeta) che di quel destino intende essere degno.

Il «primitivo», in Campana, il «barbarico», sono scarsamente carducciani e neppure si legano alla sua matrice paesana e montanara (Marradi).

I Canti orfici inseguono il miraggio della condizione barbarica (con le innumerevoli spie lessicali nel campo del «caotico», «selvaggio», «bizzarro»...) come s'insegue un primum: ch'è anche traguardo supremo.

Nell'«eterno ritorno» di Níetzsche non c'è solo il passato, individuale o universale, bensì l'avvenire che non si raggiungerà una volta per tutte. La «fuga», connotato, anzi crisma peculiare dell'arte di Campana (ravvisato da Montale nella recensione del '42 ai Canti orfici e agli Inediti nella memorabile edizione Vallecchi del Falqui, capostipite d'ogni fortuna filologica e critica di Campana), è fuga da e fuga verso punti immaginari - immaginario anche il «ricordo», attivato subito dove il libro si apre, ne La notte.

Dove quell'episodio che - «anni e anni» addietro - non sarà stato di per sé che una prima esperienza di amore venale, oggi è riconosciuto (da un «ricordo» che agisce solamente fuori del corso del tempo lineare) come rito iniziatico decisivo.

Quanto, nell'impostazione d'insieme e nelle particolarità lessicali, derivi a Campana da un'opera come I grandi iniziati dello Schuré, nuova per quei tempi, ha puntualmente dimostrato Bonifazi.

Ma se le più evidenti risonanze di quella lettura si trovano ne La notte, l'«uomo nuovo» nasce ogni volta e rinasce nelle fasi vertiginose, alle stazioni-vertice, del libro: che, dopo La notte, corrispondono ad altri due poemi in prosa (La Verna, Pampa) e infine a Genova, il sinfonico poema in versi ambientato nella città «Fantastica di trofei» che, nella propria animata struttura tentacolare, incarna l'idea stessa di Città.

È la sede nella quale ogni potenza elementare irradia sopra una «umanità fervente» un influsso a cui deve ispirarsi quella sorta di "primo uomo" che è o tenta di essere l'itinerante poeta degli Orfici.

Che, eccetto Genova, questi canti maggiori siano scritti in prosa, suggerisce una vicinanza, almeno una!, tra Campana e la variegata officina generazionale da cui escono i Trucioli di Sbarbaro, i Prologhi di Cardarelli e le faticate prove del Boine "creativo".

Contano di più, beninteso, gli esempi del Baudelaire prosatore e della Saison di Rimbaud, per via di una non già sommersione ma decantazione proficua del verso nella prosa: ciò che Campana forse riscontrava in sommo grado nello Zarathustra nietzscheano, scrittura densa e levitante, "a chiave" e profetica.

Del resto, la prosa dei Canti orfici non solo offre ampia facoltà di interne scansioni metrico-ritmiche (lo ha rilevato assai bene la Audisio: soprattutto, com'è ovvio, per gruppi endecasillabici), ma ubbidisce a impulsi melodici sostenuti anche da un'interpunzione che, se proprio non tocca il livello semantico, comunque indica quale dovrebb'essere l'intonazione del testo.

Singolarissima la frequenza dei due punti, avviso grafico d'uno svilupparsi continuo, frase da frase, figura da figura, che esprime, chissà, la ricorrente figura dei «portici»: eguali l'uno all'altro gli archi ma, nell'insieme, specchi del movimento, della fuga... Il punto di mira è la «leggerezza», sogno sublime di Nietzsche.

Campana ne rammenta l'esigenza a Papini, nella più antica delle sue lettere: «arte giuliva, leggera, fuggevole...».

Non è che il primato della prosa cancelli dal libro il segno delle liriche in versi: basterebbe citare L'invetriata, con una libertà di soluzioni metriche adibita a promuovere quella poesia del presagio che il secolo adulto farà sua; o Giardino autunnale, composto e decoroso canto fiorentino che, collocato nella sezione dei Notturni immediatamente dopo La Chimera, ne colmerebbe (Ceragioli) il drammatico vuoto, l'assenza.

E venendo a La Chimera, ch'è in assoluto fra i testi celebri del Novecento, si tratta di un campione quanto mai ardito di sintesi poetica e di retorica inquisitiva (fin dall'attacco: «Non so se...»); ma la sua melodia (la «melodia» della quale l'ambigua Eponima invocata è detta «regina») non possiede la stessa forza trascinante che hanno altre «melodie» nei Canti orfici: così la «melodia docile dell'acqua» che, sola, saprebbe «rendere» quel «paesaggio» di cui ne La Verna è «regina» e che l'arte dell'uomo resta incapace di rappresentare finché, rigenerandosi sul modello, non si trasformi in ritmo puramente naturale.

Avvince il lettore, ne La Chimera, l'immobilità del contemplante, l'interminabile surplace (nulla di dannunziano!) di chi, «poeta notturno», vaneggia ormai non sopra un'immagine (che potrebb'essere, lo suggerisce la Ceragioli nel suo commento, anche un'ipostasi della Poesia fuggevole), ma sopra la traccia perduta di un'immagine: che la poesia di Campana non riesce a ricondurre a sé.

In uno spazio testuale piuttosto limitato, l'abbondanza e la molteplicità delle fonti risaltano più che mai corpose, palpabili: e non le amalgama neppure la melodia verbale che imita, nel proprio inseguimento-vaneggiamento, la sinuosità del Soggetto assente.

L'armonizzazione di risonanze memorie imprestiti (questo segreto dell'anomala "attualità" di Campana, che misconosce o scarta le strumentazioni più "moderne") si verifica meglio in altri luoghi del libro: così ne La Verna, ad esempio, quando l'ebbrezza subcoscienziale e abissale del descensus sperimentato ne La notte si converte in un ascensus opposto e complementare.

Nella rincorsa del barbarico, ovvero del primitivo-naturale, si è detto, le fonti aiutano.

Ma che Leonardo (quel Leonardo che presso Merezkovskij, autore caro a Campana, è un Cristo-mago) venga convocato nominalmente al cuore d'un paesaggio o alla radice d'una figura, questo un poeta "novecentesco" avrebbe evitato di farlo, temendo di interporre, tra emozione ed espressione, filtri ritardanti, appannanti.

E invece nei Canti orfici fonti e filtri del genere si presuppongono, anzi si desiderano come potenze autenticanti. Artisti "naturali", nel marmo o su tela o su pagina, interpretano indelebilmente la verità d'una persona, di un ambiente con cui seppero entrare in comunione «mistica».

Parole, forme d'arte, aliti segreti (come quelli francescani nel paesaggio appenninico) hanno "impressionato" oggettivamente un volto, un luogo.

È quanto si svela a colui che, per elezione e per ardui allenamenti, proceda, «nello spazio, fuori del tempo», alla scoperta delle «pure», «prodigiose commozioni».

Energie di natura, le "fonti" chiariscono e familiarizzano il traguardo cercato.

Dove La Verna gratifica Leonardo come il «divino primitivo» che aveva già «compreso», il riferimento è all'unità arcana che sussiste fra un paese e i suoi abitanti.

Non sempre il nesso è pacifico: si pensi alle fattezze delle «castagnine», un po' aspre e un po' gentili, in rapporto alla pittura toscana del genius loci Andrea.

Ma le rocce di Caprese "spiegano" e riflettono la scultura «notturna» di Michelangelo, e così nella materna grandiosa pianura di Romagna l'eco del «grido di Francesca» immette un respiro vitale in più.

In agguato c'è sempre un meccanismo "facile", sul tipo di quello che in D'Annunzio scatta durante la seriale impresa delle Città del silenzio.

Campana avverte il rischio, lo esorcizza per mezzo della citazione-parodia («Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile») ma non è che non ne resti condizionato e imbrigliato quando si vincola a scenari già resi illustri, e dunque bloccati, in qualche salda formula d'arte.

Solitamente però, e la prosa ne è il registro più adatto, l'impeto della rincorsa al punto culminante-originario è così travolgente che il carico delle citazioni, volontarie e involontarie, non mantiene quel peso proibitivo che avrebbe (o ha) in qualsiasi altro poeta di quegli anni.

L’“innocenza” di Campana è abnorme: al vaglio delle prove di merito cui si sottopone, viene sacrificato ogni motivo - il poeta medesimo è pronto a sacrificarsi.

Sono prove che lo sospingono dall'acclimatazione "notturna" del poema inaugurale (nel manoscritto intitolato già, con dovizia di particolari tematici: La notte mistica dell'amore e del dolore. Scorci bizantini e morti cinematografiche) a quella "mattinale" de La Verna (già Il mattino: il pellegrinaggio: le sorgenti, ch'è quasi un sommario) e da ultimo a quella dentro «il più lungo giorno» di Genova: canto di conquista e di dedizione «mistica» allo spirito «mediterraneo».

Vi si fondono l'apollineo e il dionisiaco teorizzati da Nietzsche: con effetti, anche, di virtuosismo gioioso che rendono a tono la perizia del costruttore d'una poesia chimericamente protesa a rigenerarsi, a farsi natura.

Poche le soste: l'«E varco, e varco» de La Verna vige per quasi l'intero tragitto del libro, dove sarà dato d'incontrare fratelli di avventura o di sventura come Regolo o il Russo.

E se una bevanda, mutata in allucinogeno dall'invenzione del ricordo, concede a Campana «peón de via» (Cacho Millet) nella Pampa il privilegio di scrutare le costellazioni, quegli astri palpitano dei «più meravigliosi drammi dell'anima umana».

Nessun ozio nemmeno nella sosta: e d'altronde è qui che «con delizia» si sente la nascita dell'«uomo nuovo».

Come non c'è divario fra i tempi, così tra luogo e luogo la scrittura di fantasia («cinematografica?») produce sovrapposizioni mitiche, prossimità intuitive.

Ecco irrompere uno «scorcio» di Pampa dalla finestra spalancata del postribolo di Faenza; ecco Bologna travisata in città dal «grande porto», in sorella di Genova.

Non balzi astrusi di palo in frasca, ma bagni confidenti e abbandoni al sempre misterioso flusso epifanico, si tratti di apparizioni attese o di altre non previste: la lavandaia fanciulla tra le nevi alpine ne La notte, la soave coppia di anziani nell'albergo di Stia ne La Verna, la «bianca» inesplicabile «visione di Grazia» che il vento di Genova trae dall'elemento stesso, l'«alto sale»...

Rinunciare a questo Campana, in un'antologia ipotetica (ma non troppo: cfr. la Letteratura dell'Italia unita di Contini, 1968), e sostituirgli magari il maldestro nottambulo che tamburella i suoi ottonari ne La petite promenade du poète, ne comporta una riduzione in termini bozzettistici.

Togliere rappresentatività (ma è vero che Contini incluse in quel suo repertorio anche Piazza Sarzano) al pellegrino e all'adepto dei «misteri» significa non prenderlo sul serio come poeta «notturno» e non perdonargli i suoi eccessi, vistosi ma di superficie.

Certo, quel bituminoso dispendio di luci e rabeschi egizio-bizantini... Essi però cantano molto meno del sacro fuoco, la cui temperatura arroventa alcune zone destinate del libro, dove la parte dell'io dovrebbe sciogliersi in pronuncia naturale, caotico-naturale.

Gli esiti allora sono d'una solennità rarissima, in Italia e nell'orbita del post-simbolismo: che d'altronde non sembra ammettere poesia «minore».

 


 


NOTA BIBLIOGRAFICA


Dei Canti orfici (Marradi, Ravagli, 1914) l'edizione più accreditata è adesso quella a cura di Fiorenza Ceragioli (Firenze, Vallecchi, 1985; poi Milano, Rizzoli, 1989), alla quale si deve anche l'edizione critica, con commento, dei Taccuini (Pisa, Scuola Normale Superiore, 1990).

Per gli altri testi di Campana cfr. i due volumi di Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1973 (per Vallecchi, 1941 e 1942, lo stesso Falqui, aveva fornito edizioni dei Canti orfici e degli Inediti).

Dell'originario manoscritto Il più lungo giorno l'edizione critica (con riproduzione fototipica) è uscita nel 1973 a cura di Domenico De Robertis (Roma, Archivi-Firenze, Vallecchi).

Per l'epistolario e ogni altra documentazione biografica si vedano:

Dino Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di Gabriel Cacho Millet, Milano, All'insegna del Pesce d'oro, 1978;

Dino Campana, Souvenir d'un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari, a cura di Gabriel Cacho Millet, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985;

Gabriel Cacho Millet, Dino Campana fuorilegge, Palermo, Novecento, 1985.

 

Per un orientamento critico di massima:

Neuro Bonifazi, Dino Campana, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1964; 2a edizione accresciuta, Roma, Edizioni dell'Ateneo; Bizzarri, 1978.

Maura Del Serra, Dino Campana, Firenze. La Nuova Italia, 1974.

 


 

Questo capitolo fa riferimento ai seguenti saggi e testi:

Gianfranco Contini, Due poeti degli anni vociani. II. Dino Campana. in «Letteratura», ottobre 1937, poi in Esercizi di lettura, Firenze, Le Monnier, 1939, 1947 2 , infine in Esercizi di lettura. Nuova edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino, Einaudi, 1974

Carlo Bo, Dell’infrenabile notte, in «Il Frontespizio», dicembre 1937; poi in Otto studi. Firenze, Vallecchi, 1939

Carlo Pariani, Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938; separatamente poi Vita non romanzata di Dino Campana, Con un'appendice di lettere e testimonianze, a cura di Cosimo Ortesta, Milano, Guanda, 1978; a cura di Tiziano Gianotti. Firenze, Ponte alle Grazie, 1994

Sebastiano Vassalli, La notte della cometa. Il romanzo di Dino Campana, Torino, Einaudi, 1984

Neuro Bonifazi, Dino Campana, cit.

Neuro Bonifazi, Introduzione a D. Campana, Canti orfici e altre poesie, Milano, Garzanti, 1989

Maura Del Serra, L'immagine aperta. Poetica e stilistica dei «Canti orfici», Firenze, La Nuova
Italia, 1973

Cesare Galimberti, Dino Campana, Milano, Mursia, 1967

Angelo Conti, La beata riva. Trattato dell'oblio, Milano, Treves, 1900

Eugenio Montale, Sulla poesia di Campana, in «L'Italia che scrive», ottobre 1942; poi in Sulla poesia, a cura di

Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976

Edoardo Schuré, I grandi iniziati. Storia segreta delle religioni, prima traduzione italiana. Bari. Laterza, 1906; 1973 16 (e ora anche a cura di Maria Grazia Meriggi, Milano, Rizzoli, 1991)

Felicita Audisio, Sul ritmo di Campana, in «Paradigma», 6, 1985

Fiorenza Ceragioli, nel Commento ai Canti orfici, cit. Dmitrij S. Merezkovskij, Leonardo da Vinci o la resurrezione degli dei, prima traduzione italiana, Milano, Treves, 1901

Gianfranco Contini, Letteratura dell'Italia unita 1861-1968, Firenze, 1968.