Ruggero Jacobbi
L'ESILIO E LA VISIONE
di
Ruggero Jacobbi
Intervento "a braccio" al convegno fiorentino organizzato dal Gabinetto Vieusseux
Pubblicato su "Dino Campana oggi", Vallecchi 1973
Sono veramente imbarazzato dalla circostanza di dovervi ammannire la mia eloquenza « a braccio » dopo i testi scritti, meditati e letti, di coloro che mi hanno preceduto. Non ho nulla di scritto. Cercherò brevissimamente di vedere in Campana e soprattutto nei « viaggi » di Campana (viaggi reali e immaginari), per piccoli esempi, l'incontro fra due temi di fondo, che non sono soltanto suoi ma di tutta una zona della poesia fra i due secoli: il tema dell'esilio ed il tema della visione. Anche in Campana si è manifestato, nella fattispecie di una Pampa e di un Sudamerica divenuti mito, quel desiderio di un libro da « negro », di un libro da « pagano », di un libro da noneuropeo, che Rimbaud espresse proprio in questi termini. Allo stesso tempo (come cercherò di dire, non di dimostrare; si dimostra con un apparato erudito, non con improvvisazioni) questa volontà di mettersi in esilio, di andare a cercare un altro spazio, o ciò che oggi chiamiamo Terzo Mondo, coincide — in quanto non sempre legato ad una realtà sperimentata, ma più spesso a memoria e fantasia — con la capacità visionaria di Campana. Basta guardare sulla pagina i passi dei Canti orfici e degli Inediti che si riferiscono all'Argentina.
Comincerò con l'accantonare la questione più grossa, una questione che lascio ai biografi: ed è quella — più legittima di quanto si creda — di verificare se Campana, laggiù, c'è stato davvero. Personalmente io sono tratto, da personale e molto lunga esperienza del mondo sudamericano (dove ho vissuto dai ventisei ai quarantanni) e da un'analoga diffidenza o sospetto di Giuseppe Ungaretti, che anche lui ne sapeva qualcosa, ad interpretare spesso quelle pagine come il riflesso di qualcosa più d'immaginato che di vissuto. Certo, bisognerebbe fare per Campana ciò che pazientemente i biografi francesi hanno fatto per Rimbaud, cioè andare a sfogliare le liste di passeggeri, i processi verbali per imbarco clandestino, i fogli di via e di rimpatrio; ricostruire insomma quei viaggi. Questo lavoro non facile — che dovrebbe essere svolto non solo a Buenos Aires ma nei porti settentrionali della Francia e del Belgio, oltre che a Genova — potrebbe illuminarci sul fatto. Ma il fatto forse conta poco; conta l'impressione che abbiamo, che tutto resti sempre fermo ad un primo verso, quello del Viaggio a Montevideo, e ad un titolo, quello della Passeggiata in tram in America e ritorno. Il primo verso è: « Io vidi dal ponte della nave »... Nel testo non c'è quasi una discesa a terra; la stessa Pampa è assai improbabile. Ci sono, sì, poche righe di Dualismo con una immagine di città che pare Buenos Aires, ma persino nel frammento intitolato Buenos Aires abbiamo una situazione di « sbarco » — di emigranti che sbarcano — vista da uno che sta a bordo e non può scendere; da uno che lì, a bordo, forse è prigioniero oppure sta lavorando. Prigioniero è il clandestino, che non viene fatto sbarcare lavorante è il mozzo, che è lì a lavare la tolda e a tirar gli àrgani mentre gli altri sventolano fazzoletti o si caricano le valige sulle spalle. (Poi il mozzo avrà, se l'avrà, una breve « libera uscita » e della città non saprà che una taverna o un bordello, e le chiacchiere che vi si fanno). Quindi, lasciando ai ricercatori e biografi il compito di verificare se Campana c'è stato sul serio, o se c'è stato da clandestino in catene (un riferimento all'aver trovato un cantuccio fra i sacchi di patate, e soprattutto il famoso Frammento o Bastimento in viaggio, dove tutto è veduto attraverso un oblò, farebbero pensare molto a questo stato di prigionia) o se si è imbarcato per un lavoro di mozzo o d'inserviente, atteniamoci a quella immagine di un mondo veduto « dal ponte della nave », cui dobbiamo aggiungerne subito un altro: il mondo che si può inventare costruire fantasticare anche trasformando il rumore del tram — sul quale si attraversa una città marina, la città di Genova — nel suono del motore di una nave, del pulsare delle caldaie, che subito crea una serie di associazioni mentali, come ad esempio in un famosissimo « mottetto » di Montale il rumore del rapido determina un ritmo di carioca.
Qui il tram si mette in moto, sferraglia, diventa nave: la passeggiata attraverso Genova diventa una traversata dell'oceano. Il biografo ci dirà se questa è una messa in moto della memoria (il ricordo d'un viaggio per mare) oppure della fantasia. Certo, sulla pagina, il fantastico predomina. Che poi Campana fosse abituato a mescolare i termini della geografia secondo le sue particolari dimensioni psico-ideologiche, ci è provato da casi notorii. Una poesia che si riferisce a Firenze, Oscar Wilde a San Miniato, comincia: « O città fantastica o gorgo di fremiti sordi », e una poesia che si riferisce a Genova (uno dei tanti abbozzi del futuro poema Genova) comincia: « O città fantastica piena di suoni sordi ». Genova o Firenze, per Campana fa lo stesso: egli applica all'una ed all'altra, indifferentemente, le stesse parole, le stesse categorie immaginative. Non solo parlando di Genova usa i medesimi termini che indirizza a Firenze (tanto, sono due città « fantastiche »!) ma quando guarda Firenze dall'alto di San Miniato la vede come nave, battello bruciato, imbarcazione alberata di torri; è un porto anche questo, con pennoni ed antenne che per caso son torri, è un porto anche Firenze! Ugualmente colpisce, in varii testi, l'avvicinamento delle parole « prateria » ed « erba » con l'aggettivo « vergine ». Tutte le volte che si parla della prateria è per invocare la categoria della purezza, della verginità. Così « l'erba vergine » di Dualismo, così la « prateria vergine » di Ho scritto: si chiuse in una grotta... Gli esempi sono infiniti: allo stesso modo, la parola « melodia » o « musica » si porta sempre dietro una fanciulla. Nell'inizio del Viaggio a Montevideo (ho appreso ieri sera che era stato lasciato in bianco: per riempirlo con notazioni geografiche plausibili, che Campana sul momento non aveva?) d'un tratto viene fuori quel « come una melodia », « cioè una specie di melodia » come diceva Bonifazi, ma anche un modo francese o spagnolo (quelque chose comme une melodie, algo corno una melodia), — ed è stilema comunissimo nella poesia bette-loniana o stecchettiana, arriva fino al Pascoli (« e vidi come un correre di fiumi », « udii come un pianto di nido ») e diventa vezzo o vizio nella Negri; così come è comune in Campana l'estensione del « di » che usiamo per i pronomi (« su di me, sotto di sé, dentro di noi ») ad ogni sostantivo (« sopra del cerchio », « dentro del cielo stellare »)... Quando, dico, vien fuori quella « melodia », di colpo diventa « d'ignota scena fanciulla sola »; e per sapere che diavolo significhi bisogna andarsi a rileggere la Chimera, dove è detto a tutte lettere « musica fanciulla esangue ».
Abbiamo addirittura il palinsesto di questa operazione, ed è un frammento, un appunto: « Ignota la scena fanciulla, la terra felice sola come una melodia blu, sulla riva dei colli tremava una viola ». Leggendo la Chimera si può anche pensare che « musica fanciulla » sia una fanciulla musicista o musicante, ma qui non ci son dubbi, « fanciulla » è un aggettivo. Si tratta d'una « melodia fanciulla », e questo aggettivo è uno dei tanti sinonimi di « vergine », cioè dello spazio evocato dalla musica. Il vento dell'oceano provoca una musica, la musica provoca una figura, questa figura è un messaggio di verginità, è la salvezza nel « negro », nel « pagano », nel « terzo mondo », nel rimbaudiano addio di Campana all'Europa. Ma per Campana l'esilio dovrebbe essere definitivo, egli cerca un luogo dove allontanarsi da « tutto questo » e non tornare più. Rimbaud questo tipo di soluzione lo adotterà soltanto dopo d'aver deciso di lasciare la poesia; prima, era regola in lui il sapere che ogni viaggio è possibile ma sempre si ritorna (j'y suis, j'y suis toujours) e tipico è il caso del battello ebbro che rimpiange l'Europa dagli antichi parapetti. Una formulazione quasi identica appare in Dualismo di Campana, dove di tale ritorno all'Europa si chiede perdono alla fanciulla « melodia », cioè a Manuelita Etchegarray (abbastanza improbabile l'anagrafe; il cognome è, guarda caso, quello del drammaturgo spagnolo che ha vinto quell'anno il Premio Nobel, e la grafia è francese, cioè Campana ha letto la notizia su un giornale magari di Bruxelles); la ragazza è veduta come il fiore meraviglioso « d'una razza eroica », e lui le chiede scusa di tornare verso « le calme oasi della sensibilità », cioè verso un'Europa che subito identifica letterariamente con Parigi. Questa città non è un riferimento autobiografico, è il nome di una patria letteraria, è il luogo di Baudelaire e di Rimbaud; la sensibilità della vecchia Europa non può non chiamarsi Parigi. La città « giovane e feroce » che scatta nella memoria è Buenos Aires, va bene, va benissimo (anche se qualche connotato è abbastanza arbitrario), ma è soprattutto una città futura, la città degli uomini liberi, un luogo vergine, un luogo senza storia. La tentazione è uguale in Rimbaud e Campana, ma la diversità è soprattutto di natura politica. In Rimbaud, nel suo sogno del terzo mondo, agisce la rabbia dell'antico comunardo: in Campana non c'è nulla di simile. Ma il moto interiore è analogo: tentazione, o illusione, di andarsene in un mondo senza storia, in un mondo tutto natura.
Abbandonare l'Europa è prima di tutto contestare (esotericamente, spiritualisticamente) lo storicismo culturale europeo: questo moto è fortissimo in Campana. In Pampa abbiamo un'idea della pampa da libro d'avventure; nella pampa non ci sono mai state tende, quelle « tende » appartengono ad un romanzo del Far West. Nella pampa il gaucho abita in capannoni, quelli dove si mettono a seccare le carni macellate e scuoiate (donde « l'odore del sangue », che può aver colpito Campana sia dal vivo sia in racconti di bordo o di bettola). L'idea che la pampa sia « nera » è profondamente simbolica, non corrisponde ad alcuna realtà; la terra della pampa quando non è nascosta dal verde (primavera, prima estate) è tierra roja, o nel Sud del Brasile terra roxa, cioè rosso-viola, ed è strano che ad un visivo, ad un colorista come Campana fosse sfuggita questa caratteristica cromatica, quel tono sanguinoso che impressiona chiunque. Ma parla anche di pampa « giallastra », ed allora può averla vista coi fieni tagliati, in autunno... Il pezzo più importante di Dualismo è quello in cui s'accenna ad un paese dove non c'è « nessun Dio », e dove nasce l'uomo nuovo. L'incantagione, l'operazione magica che Campana effettua evocando la pampa culmina dunque nella creazione di una nuova specie di uomini. Già nel Viaggio a Montevideo abbiamo visto emergere la ragazza (sempre ragazza, fanciulla, melodia vergine) « della razza nuova »; siamo nello stesso campo di evocazione di una libertà secondo natura. « Nessun Dio » non vuol dire letteralmente l'assenza di Dio, vuol dire piuttosto: nessuno degli dèi noti a noi europei, nessuno dei numi delle confessioni culturalizzate e storicizzate, cioè nessun valore, nessuno dei vecchi principii. Donde la suggestione costante della nave, o del porto come luogo da cui si deve continuamente salpare per andare di là dall'oceano, in quel mondo della libertà e della natura vergine. « Il porto ampio s'addorme stanco d'uman lavoro », dice Gabriele D'Annunzio in un libro intitolato, guarda caso, La Chimera... Questi due versi del D'Annunzio hanno impressionato Campana a tal punto che ha continuato a scriverli per tutta la vita, credendo che fossero suoi. Avevano, cioè, colpito un punto della sua sensibilità dove egli era particolarmente vulnerabile.
Non ho più tempo per svolgere la piccola tesi qui accennata. Salto, dunque, un'infinità di esempi e mi fermo su un testo: Ho scritto. Si chiuse in una grotta, ma prima voglio aprire una piccola parentesi. Qualunque sia l'esito della ricerca biografica, c'è un dato eh'è assolutamente « vero »; che è vero anche se veduto solo « dal ponte della nave », o anche se per esempio Odessa e gli zingari sono stati raccontati al poeta dal Russo, in prigione, a Bruxelles, senza bisogno che egli ci andasse personalmente. Quello che è vero, e importante, è che nel vagabondaggio da Italia a Svizzera a Belgio a Francia (di questi paesi siamo sicuri) Campana si è trovato inevitabilmente confuso alla folla degli straccioni, degli emigranti italiani. Questa dimensione più concreta dell'esilio (realistica, sociologica) gli si è mescolata alle volte con l'altra, metafisica, nella quale l'esilio coincide con la visione. Di qui certi accenni particolarmente patetici, come nel Canto proletario italo-francese (l'ultimo suo testo cosciente intero) quando di colpo, nel varcare l'Alpe, si accorge che quella montagna, tutta sassi traforati lavorati trasportati, porta il segno del piccone italiano. Allora dice: « Sull'Alpe c'è una scaglia di lavoro | Del povero italiano? Non si sa »... Questa versione significa: appena vede un segno di lavoro, cioè appena s'accorge che la montagna è stata tagliata e traforata per farvi passare le strade e i treni, Campana si domanda: « Chi ha fatto questo? Uno straccione italiano? ». In un'altra versione la punteggiatura cambia: « Sull'Alpe c'è una scaglia di lavoro | Del povero italiano non si sa », e cioè: non c'è più notizia del disgraziato italiano che ha fatto tutto questo, se n'è persa persino la memoria... Questa dimensione sociale dell'idea di esilio (ridotta in tal caso al semplice fatto dell'emigrazione) evidentemente non è immaginaria, è vissuta. E veniamo al testo che volevo leggervi. È la più violenta pagina protestataria di Campana. Bisognerebbe, alla prima occasione d'una seduta spiritica, chiedere al poeta il permesso di alterare un poco la punteggiatura, e tutto risulterebbe chiaro:
Ho scritto: « Si chiuse in una grotta
Arsenio fortissimo disegnatore
dipinse quadri piccoli e grotteschi
e tese l'anima in affreschi
per desolare l'immensità
della sua furia policroma
attese i gnomi e le fate;
cantava il ruscello » ecc.
Io mi domando. Ha ciò senso comune?
Aprendo e chiudendo le virgolette (l’eccetera indica proprio l'interruzione d'una poesia e l'attacco d'un irato commento a tale prova fallita) vediamo che è questo il primo testo nella storia della poesia italiana in cui viene messa in questione la nozione stessa di poesia, la sua utilità, la sua possibilità di riuscire a qualcosa di sostanziale per la vita; con il dubbio che, se essa non è tale, non serva a niente, non sia altro che lamentosa o decorativa letteratura. Campana ha cominciato una poesia carducciana o dannunziana, ne cita qualche verso e poi esclama: al diavolo questa roba. Si può immaginarlo che torna verso il tavolo dove è rimasto un foglietto con pochi versi abbozzati il giorno prima, li rilegge con stupore e poi grida: ma che sciocchezza ho scritto, che senso ha? « Io mi domando: ha ciò senso comune »? Ha senso comune, e a che serve, scrivere una poesia di questo genere? Il resto è un sfogo diretto, diramantesi in mille direzioni, stupendo:
qual cosa mi tortura e mi sospinge
all'assurdo. È il bisogno della morte
perché su tutto chiamo distruzione?
Ci pensavo nel porto questa sera
(ecco, è scattata l'immagine prediletta)
nel porto enorme carico di navi
tramonto aranciato mi ha dato lo spasimo
della febbre malarica
oh avere un cielo nuovo
un cielo puro del sangue d'angioli ambigui
senza le zuccherine lacrime di Maria
un cielo metallico ardente di vertigine
senza i miasmi putridi dei poeti e delle fanciulle
che accolga il respiro vergine violento e sublime della prateria
dove il tramonto bruci in fiamma vera
col solo aroma purificatore della forza
nuova, infinita, intatta; un cielo dove
frati e poeti non abbiano fatto la tana come i vermi
è questo che io voglio e lancerei
le navi colossali verso il paese nuovo (non putrida patria)
le navi sferrate sul mare senza colore
sì senza colore alla fine. Com'è infinitamente stupido
l'azzurro infinito
chiudiamo gli occhi o squarciamo il pavone bastardo
anche il mare hanno imbastardito
come il sangue che oggi sa di miasma
hanno mai pensato che odore salutare ha il sangue nella prateria vergine
il ferro per fortuna si copre di ruggine o li stritola
schiacciamo una volta gli infami decrepiti
certamente è ben questo che vorrei.
Questa poesia limpidissima e violenta è il più alto testo di contestazione e di avanguardia della lirica italiana, ed è una dichiarazione di guerra a tutta la cultura, a tutto il passato, a tutta la letteratura del tempo. Attenti, però, alla mossa finale: essa è rivelatrice di un'intenzione futurista. Due dita di mistificazione letteraria ci sono anche in questo testo così sincero: c'è un desiderio di essere accolto in « Lacerba », di essere preso sul serio dai futuristi. Campana agisce come farebbe uno scrittore d'oggi, estraneo alla contestazione giovanile, ma che trovandosi a parlare con dei giovani dice: « ma sì, in fondo sono d'accordo con voi, soltanto sono diverso, ci arrivo per altre vie » (e così facendo ricupera la sincerità). « Schiacciamo una volta gl'infami decrepiti » è tipica terminologia futurista. « Certamente è ben questo che vorrei » significa invece: sì, certamente, sono con voi, non mi obbligate a firmare manifesti né a scrivere parole in libertà, ma in sostanza sono d'accordo. Certo, d'accordo ma per un'altra e più grave ragione, che non invoca il regno delle macchine, perché le macchine « si coprono di ruggine », ma invoca il Salutare, il Vergine, la Future Vigueur del Bateau Ivre.
Infine questo tema d'un mondo di là dall'oceano, inteso come generoso mondo nuovo, brave new world, è anche il nucleo dell'incontro di Campana con l'autore dell'epigrafe del suo libro — un americano, Whitman — e della somiglianza, che si potrebbe analizzare, fra il testo che abbiamo letto ed i testi withmaniani di Ruben Dario; una sorta di trascrizione in termini latino americani della tematica democratico-umanitaria del maestro. Ci sarebbe anche da vedere la serie di debiti che Campana ha con un poeta del primo futurismo, Paolo Buzzi, e con le sue poesie portuali o metropolitane (Al porto di Kiel, Canto della città di Mannheim, ecc.) le quali contengono uno schema di verso libero molto vicino a quello spiraliforme del Viaggio a Montevideo, di Genova eccetera. Sono tutti sospetti, appunti, indicazioni che lascio a chi alla consuetudine con Campana (all'amore) voglia domani aggiungere l'erudizione e la pazienza.