PER UN PIÙ LUNGO GIORNO
di Domenico de Robertis
Quando Dino Campana affidò a Papini e a Soffici, l'inverno del 1913, il manoscritto di quella raccolta di poesie e di prose che oggi sappiamo s'intitolava II più lungo giorno, senza volerlo si era premunito per una lunga latitanza del suo libro; e, in un certo senso, aveva cooperato alla sua sparizione. Il manoscritto era nato per durare e sopravvivere (è, oggi, il meglio conservato degli autografi di Campana); e per durare e sopravvivere più a lungo di quanto non sia rimasto sepolto tra le carte di Soffici aveva, se così si può dire, la vocazione dell'oblio. A quella data per noi abbastanza remota, un anno avanti la prima guerra mondiale, il libretto su cui Campana aveva trascritto il nucleo fondamentale di quelli che saranno i Canti orfici poteva avere forse due secoli! Dopo la notizia della sua ricomparsa, e l'emozione di ritrovarci davanti questo libro amato e perduto, proprio perdutamente amato, è stata questa, almeno per me, la sorpresa più grossa del vivo incontro col manoscritto del Più lungo giorno.
Il manoscritto, per gentile concessione della famiglia Campana, è esposto nella sala attigua, per il breve spazio di questo Convegno, nella mostra di autografi e documenti organizzata dal Comitato promotore: aperto ad una delle sue pagine più significative (quella che all'inizio della prima parte, con un titolo quanto mai suggestivo, affronta, a mo' di dichiarazione di poetica, proprio una citazione sofficiana). Accanto, se ne può vedere l'aspetto esterno, la copertina e la legatura: ma non per effetto di alcuno smembramento, e nemmeno, nell'età della riproduzione e della duplicazione, per un magico processo di sdoppiamento. Si tratta di un manoscritto d'identica fattura che non mi è stato troppo difficile individuare, tanto comune ne è il modello, nella biblioteca dell'Accademia della Crusca (dove reca il n. 67), e che l'Accademia stessa ha consentito che fosse qui presente. Composizione, formato, tipo di carta, così come la copertina e la legatura, sono gli stessi. L'unica cosa che non coincide è, ovviamente, la scrittura. Esso contiene il « Supplemento » al Vocabolario della Crusca del conte Pietro di Calepio, scritto di suo pugno, probabilmente intorno al 1724. La presenza di annotazioni di Anton Maria Salvini non ci permette di scendere al di qua del 1729.
Chissà mai dove (nella propria casa, in qualche biblioteca in disfacimento, fra le carte di una canonica?), chissà mai dove Campana avrà scovato questo volumetto di tre doppi sesterni di buona carta d'antica fattura, con regolare filigrana, piegata e tagliata in 4°, con la caratteristica legatura in spago con punti fuoriuscenti in costola, evidentemente preparato per qualche scrittura, e rimasto bianco. Ma questo supporto d'altri tempi per il primo grande libro di poesia dell'età nuova, è più suggestivo forse che sorprendente. I richiami a Ribera e a Leonardo e le testimonianze del museo di Faenza accanto alla Fantasia su un quadro d'Ardengo Soffici e a Traguardo a Filippo Tommaso Marinetti sono più che un indizio del ripensamento della tradizione classica attraverso cui passa — da Soffici, appunto citato in epigrafe nel manoscritto, a Campana — la ricerca e la scoperta di una nuova dimensione poetica. L'innesto della « più viva sensibilità moderna » « nella linea della più pura tradizione italiana », per adoperare le parole stesse di una lettera a Papini del '15, era forse la suprema aspirazione (o l'ipotesi di lavoro) di Campana. A questa disposizione d'animo, tante volte affiorante, il manoscritto sembra corrispondere misteriosamente nella sua stessa lampante struttura fìsica. E se Soffici se l'era sin d'allora stampato nella mente come « un vecchio taccuino di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compre e vendite », come annoterà nei Ricordi di vita artistica e letteraria (oh questo incontro, questa preterintenzionale assimilazione di masserizia toscana e di tesaurizzazione di lemmi per il vocabolario, questo irresistibile onniavvolgente odore di buon pane!): se Soffici se lo ricordava così fatto, non c'è da stupirsi che Il più lungo giorno sfuggisse a tutte le ricerche.
Il manoscritto, giusta anche la sua destinazione, nel 1913, all'esame di due degli alfieri di « Lacerba », si presenta, e deve considerarsi a tutti gli effetti come una bella copia, anche se non si direbbe da passare direttamente in tipografia, e pur non presentando quei caratteri di regolarità e di calligrafìa, di cui Campana era capace, che contraddistinguono, ad esempio, gli autografi Bandini, d'altra parte redatti su carta protocollo rigata (e basta vedere a confronto l'ultima pagina di questi, la 27, di carta diversa). Impaginazione, giustezza, interlineo, allineamento verticale, specie per i versi, sono in effetti molto variabili: come varia il tipo d'inchiostro adoperato. E benché la maggior parte delle pagine siano di scrittura seguente e ordinata (salvo, s'intende, le impuntature della penna, e il vezzo di ripassare qualche lettera, specie la e, la a e la o), ve ne son molte che presentano correzioni non solo immediate, ma a distanza, dello stesso e di diverso inchiostro, e alcune in cui il lavoro correttorio passa attraverso fasi successive e le varianti si sovrappongono e si aggrovigliano: fino all'espunzione, in tre casi (di cui uno con segnalazione d'incompiutezza), d'interi passi, per dar luogo a diversa redazione o trasposizione di testo. Mai tuttavia che il groviglio sia inestricabile, almeno per quello che riguarda l'approdo finale. Il testo definitivo non solo è chiaramente individuabile, ma è effettivamente e regolarmente perseguito in ogni punto. E la scrittura, fin nelle correzioni, è sempre d'esemplare nitidezza; nella stesura base di notevole accuratezza ed eleganza, pur senza rigidezze calligrafiche. Rarissime le mende ortografiche: dietro alcuni scempiamenti del resto, irragiungibile, me-talixzato, tapezzeria, come un raddoppiamento, cappelliere per capelliere, trasparirà la tendenza della pronuncia romagnola, nell'ultimo caso con fenomeno d'ipercorrettismo. Sono richiesti, viceversa, alcuni interventi sostanziali, nel quadro, appunto, e vorrei dire nello spirito della constatata non provvisorietà del testo: col conforto dei Canti orfici, e anche in disformità da essi, come appare dall'edizione del manoscritto; per cui, soprattutto, La petite promenade du poète viene restituita alla sua intera regolarità prosodico-metrica, a dispetto, si vedrà, dello stesso autore.
Anche la composizione del libro tradisce un intento di sistemazione, tanto più se confrontata, per le parti corrispondenti, coi Canti orfici. Perché, come trasparì sin dalle prime notizie dopo il ritrovamento, e come ha già avvertito Falqui, il manoscritto, salvo che per tre brevi poesie, rappresenta circa i due terzi, e per gran parte i primi due terzi dei Canti, secondo una disposizione che è già, nelle grandi linee, e in molti particolari, quella dei Canti. Nell'ordine ormai familiare: i tre « poemi », in prosa e in verso, della Notte (qui La notte mistica dell'amore e del dolore), dei Notturni (qui senza titolo generale: ma i frammenti XX e XXI del Taccuinetto faentino segnalavano « i notturni », anzi « i canti notturni », e proprio al séguito della Notte) e della Verna (qui col sopratitolo 11 mattino: il pellegrinaggio: le sorgenti); più l'inizio della quarta parte, con Immagini del viaggio e della montagna (qui Alba) e Viaggio a Montevideo (qui senza titolo, e attaccando, ma lasciato ampio spazio bianco, col v. 18: « Ma un giorno | Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna... »), e, omessa la Fantasia su un quadro d'Ardengo Soffici, le due quartine di Firenze (Uffizi), ma spostate in coda ai Notturni; più tre pezzi della sezione finale di Varie e frammenti: Pampa, Passeggiata in tram in America e ritorno, qui contigui e invertiti d'ordine, e il canto di Genova, privo dell'ultimo pezzo « O siciliana proterva... », preceduti dal titolo generale inedito II viaggio e l'incidente. Gli inserimenti dei tre pezzi estranei ai Canti del '14 riguardano i Notturni, che prima di Firenze (Uffizi), ora nella quarta parte dei Canti, accolgono l'ultima parte, « Amo le vecchie troie... », la più violenta, o diciamo semmai quella prorompente in canto, di Notturno teppista (che del resto comincia « Firenze nel fondo... »), pubblicato dal Binazzi nel '22, ora tra i Versi sparsi; e più sopra, degli stessi Versi sparsi, Vecchi versi, qui Scirocco serale (Piazza S. Petronio), del resto dal Binazzi pubblicato nel '22 di séguito a Notturno teppista. Il terzo pezzo è, col titolo Giro d'Italia in bicicletta (1° arrivato al traguardo di Marradi), una terza redazione dell'ultimo testo del Quaderno, « Dall'alto giù per la china ripida... », e di Traguardo dedicato a Marinetti: quest'ultimo, come sappiamo dalla testimonianza di Parronchi, assieme a Notturno teppista e a Vecchi versi figurante in un foglio a stampa, conservato dall'editore Ravagli, che « ha tutto l'aspetto d'appartenere alle bozze della prima edizione dei Canti orfici »1.
Nulla dunque, per un verso o per l'altro, che non appartenesse già, che non sapessimo appartenere alla storia dei Canti orfici. E quanto all'ordine dei testi, i mutamenti rispetto all'edizione del '14 (e alla serie degli autografi Bandini) riguardano essenzialmente la sezione dei Notturni, con anticipazione della Petite promenade al 3° posto e del Canto della tenebra al 4°, e, dopo l'inserimento di Scirocco serale (ossia Vecchi versi), anteposizione dell'Invetriata a La speranza (qui Sul torrente notturno. La speranza). Il Giro d'Italia in bicicletta, s'è detto, va a separare le Immagini del viaggio e della montagna dal Viaggio a Montevideo. E all'interno delle Immagini, si segnala l'inversione della 2a e della 3a lassa. Quanto alla consistenza delle parti prima e terza, della Notte e della Verna, la corrispondenza di pagina a pagina è puntualissima; e per la Verna si registra solo l'acquisto, sul principio, sotto il riferimento geografico Le Scalette, della leggenda del Conte Landò, con un richiamo più avanti, al ritorno, di contro all'assenza della pagina Sulla Falterona (« La Falterona verde nero e argento... ») e dell'altra Marradi (Antica volta. Specchio velato), penultimo capoverso della Verna, con Venere che « passa in barroccio » (ma un'intestazione Marradi: senz'altro séguito chiude il diario nel manoscritto). Si aggiunga l'interposizione di due serie di 4 e 3 pagine bianche, tra i Notturni e La Verna e tra il Viaggio a Montevideo e la Passeggiata in tram (ossia II viaggio e l'incidente), a scandire la distinzione delle parti come nei luoghi corrispondenti dei Canti orfici.
Le varianti riguardano sostanzialmente l'elaborazione interna, ossia il divenire delle singole parti e dei singoli pezzi: con la normale significativa coincidenza dei punti più travagliati con quelli di maggior distacco della stampa del '14 dal manoscritto, e l'abbastanza ovvia conseguenza di uno stretto legame, resta da stabilire di che natura, fra le due testimonianze. Benché presentandosi come un altro libro, Il più lungo giorno non è che la sezione verticale di un processo che doveva far capo, l'anno dopo, complice la perdita del manoscritto, ai Canti orfici. E si comprende che Falqui abbia parlato di « delusione »; restando ben inteso, prima di tutto da parte sua, che anche la minima variante individua un percorso che in molti casi non era dato fino ad oggi nemmeno di ipotizzare, e che questa dimensione, questa profondità, questo spessore è un acquisto che dobbiamo alla ricomparsa dell'autografo. D'altra parte, anche la semplice quantità d'informazione, come si dice oggi, ricavabile dal manoscritto, è notevole. Per restare ai dati già enunciati, così come l'accostamento di Firenze (Uffizi), benché d'inchiostro diverso, agli ultimi versi di Notturno teppista testimonia di una comune ' fiorentinità ', originaria o a posteriori, dei due pezzi (il secondo, torno a ricordare, comincia « Firenze nel fondo era un gorgo di luci di fremiti sordi... »), l'aggregazione temporanea dello stesso Notturno teppista e di Vecchi versi (per ora: Scirocco serale) alla serie (peraltro anonima) dei Notturni giustifica in qualche modo (e forse ne fornisce la prova) l'unione fattane dal Binazzi nella « Teda » del '22, e insieme indica nella testimonianza delle bozze conservate dall'editore Ravagli l'estremo prolungamento di un'ipotesi che risaliva ben più addietro che il disegno della stampa del '14. Così, ragionando per opposti, l'assenza del penultimo foglietto della Verna, Marradi (Antica volta. Specchio velato), nel manoscritto forse destinato a chiusura, dà una funzione precisa al frammento XIX del Taccuinetto faentino che appunto comincia « Antica volta specchio velato » e finisce « un commento variopinto di archi »; allo stesso modo che il titolo primitivo di quella che sarà La notte, Cinematografia sentimentale, poi La notte mistica dell'amore e del dolore. Scorci bizantini e morti cinematografiche (anche qui, fin qui, tradizione e attualità), dà finalmente senso a quelle tre parole incolonnate del Taccuinetto stesso, frammento XIV: « Nostalgia | Cinematografia | Sentimentale ». Con una « Cinematografia sentimentale » si apriva dunque, sin almeno dal '13, il libro delle poesie di Campana. Non dimentichiamo che la prima poesia di Ungaretti, datata 1914, è Roman cinema.
E a proposito di titoli. Quello generale del libro, Il più lungo giorno, viene da D'Annunzio, se ne sono già accorti in diversi, dalle prime pagine del Forse che sì, di cui costituisce il tema struggente (« È il più lungo giorno... Oggi è il più lungo giorno, è il solstizio d'estate... »; « D'improvviso rientravano nell'azzurro e nell'oro, riudivano la melodia dominante, rivedevano splendere il più lungo giorno.,. ») e gli risponde, poco avanti: « È la notte più breve ». Ma vi è nel manoscritto un richiamo interno che, mentre conferma la polarità giorno-notte, sembra limitarne la portata, l'occasione: alla fine del primo capoverso della III parte, II ritorno, de La notte mistica (e secondo un testo, va subito aggiunto, che già affiorava dal frammento XX del Taccuinetto faentino): « E si raccoglie la mia anima — e volta al più lungo giorno de l'amore antico ancora leva chiaro un canto a l'amore notturno »2. E tuttavia un'altra pagina del Taccuinetto, frammento XXII, che, come il frammento XX la sistemazione finale de La notte e il suo collegamento coi Notturni, registra e chiosa alcuni titoli, dei Canti orfici e no [« Il russo l'incontro | da unirsi a impressioni di città prose e poesie | finisce i notturni »; e prima: « Novelle (titolo del libro: incidenti) a gran velocità »], mi sembra riimmetta quel motivo in un più ampio circolo, ne allarghi la risonanza a tutto il libro: « Parte prima del libro i notturni | e il libro finisce nel Più chiaro giorno di Genova e la discussione sull'arte mediterranea ». Persino l'epigrafe nietzschiana (o titolo provvisorio, visto i grandi caratteri in cui è tracciata, quelli del titolo appunto che troverà posto solo sul rovescio della coperta?) « E come puro spirito varca il ponte », poi cancellata, compare nel Taccuinetto, frammento XXV, in realtà alla prima apertura, anche qui nel rovescio della copertina. Con implicazioni ognun vede quanto imponenti per la stessa ' interpretazione ' del titolo.
A questo punto due sono i problemi che la ricomparsa del manoscritto, e la tardiva ricomparsa, fuori cioè della portata dell'autore, propone ed impone al lettore e al critico. L'uno è quello del rapporto genetico tra il manoscritto e l'edizione dei Canti orfici del 1914: un rapporto che fino ad oggi si poneva nei termini stessi del dramma vissuto da Campana al momento della scomparsa del suo libro: la faticosa ricostruzione « a memoria » (« de mémoire », secondo la testimonianza dello stesso poeta nella cartolina a Boine del 18 gennaio 1916) del testo perduto. Contro tale affermazione, nel senso beninteso di una ricomposizione ex novo, riattingendo al più profondo della propria immaginazione e ritentando da zero il processo creativo, sta la nuova testimonianza ora disponibile, sta la perfetta sovrapponibilità di testi anche di notevole estensione, dalla loro organizzazione e articolazione generale ai minimi passaggi e alle più sottili inflessioni, sta, addirittura, il riprodursi, nella stampa, degli stessi punti critici del manoscritto. Restando ben avvertito anche che la parte della memoria è ineliminabile, anzi fondamentale in qualsiasi processo correttorio e innovativo anche condotto fisicamente sul testo. Ma le due grandi prose (o poemi?) della Notte e della Verna non sono ricostruibili nemmeno da parte di una memoria prodigiosa, nemmeno se operante in quel « tempo di forza tranquilla » che Leopardi conosceva e che forse Campana non conobbe mai. E se tutta una serie di varianti della stampa rispetto al manoscritto testimonia, non bastassero le altre carte a noi pervenute, il continuo ritorno del poeta sulla propria opera, l'acquisizione alla redazione definitiva del '14, volta a volta, di lezioni dell'autografo poi superate da ulteriori interventi sul medesimo, e di lezioni introdotte o sostituite nel manoscritto in un secondo tempo, spesso attraverso capillari aggiustamenti, postula, a monte dell'uno e dell'altro testimone, l'esistenza di un testo base, probabilmente in movimento esso pure, da cui l'uno e l'altro derivarono in due successivi e distinti momenti.
La Verna, per la sua stessa natura di « diario », come si legge nella stampa, o di « note di viaggio », com'è nel manoscritto, presuppone un taccuino che non è certo identificabile con la stesura del Più lungo giorno. Si tratta fra l'altro del testo di Campana per cui meno soccorrono le altre carte sparse; e si spiega proprio con la natura particolare di esso. Ma intanto è significativo che proprio uno dei due pezzi introdotti ex novo nella stampa, il penultimo foglietto del « diario », risalga, isolato, al Taccuinetto. E altrettanto significativo è che il secondo foglietto dell'autografo, il ricordo della leggenda del Conte Landò, con quella precisa localizzazione, Le Scalette, corrisponda a una fila di puntini nella stampa: indicazione di un vuoto della memoria, o di una soppressione calcolata? L'altro riferimento alla leggenda, nel percorso di ritorno, è anch'esso espunto nella stampa. Si noti ancora che due capoversi (il 2° e il 3° del Ritorno, « La tellurica melodia della Falterona... » e « Campigno: paese barbarico, fuggente... ») compaiono dapprima invertiti nel manoscritto, quindi riordinati mediante indici numerici: riordinamento che la stampa conferma. E appunto nel primo (secondo l'ordine definitivo), una prima redazione sommaria dell'ultimo periodo (« In fondo, nel frusciar delle nere selve... ») viene immediatamente cancellata e svolta secondo quello che sarà sostanzialmente il testo del '14; così come la pagina che immediatamente segue appare cancellata, e si ritrova più avanti, sotto la data di Campigno, al posto che resterà definitivo3. Il manoscritto di partenza, pro-bilmente tumultuoso come i taccuini, registrava dunque già, più fidato della memoria, tali decisioni. Qualche particolare ancora. Il passaggio per la foresta di Campigna (« Campigna, non Campigno », avvertiamo con l'autografo), nel percorso di andata, contempla un primo capoverso « Le case quadrangolari in pietra viva... » compreso tra parentesi: nell'uno e nell'altro testo; e questi non son dati che la memoria potesse registrare, bensì la carta. La pagina centrale del pellegrinaggio, che si apre con la confessione di Francesca B. riconosciuta sul muro della Via Crucis (« Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatrice... », con una data, nel manoscritto, probabilmente più attendibile, 15 luglio ormai del secolo ventesimo — anche col Pariani Campana era stato evasivo, come spesso: « dev'essere una di Marradi che ha scritto »), la pagina, dicevo, s'interrompe più avanti, nell'uno e nell'altro testo, allo stesso punto, dopo la descrizione della pala della Vergine, e riprende dopo breve spazio (nella stampa contrassegnato da puntini) a riga nuova, senza a-capo, con lettera minuscola, con le identiche parole. Infine: le date del diario, dal manoscritto alla stampa, sono tutte modificate, ma secondo un ritmo regolare e quindi con mantenimento degli intervalli: nell'andata portate avanti di un giorno, nel ritorno di due, fino al generico « ottobre » dell'ultimo foglietto (Presso Marradi), nel manoscritto precisato (in un secondo tempo?) in « 1° ottobre ». Alla fine, nel manoscritto, l'altro riferimento, Marradi: , come s'è detto, seguito da due punti; e il resto della pagina bianco. Bianco, è presumibile, anche il taccuino delle note; e la stampa, oltre a ricuperare, ma per anticiparla al penultimo posto, la pagina del Taccuinetto, sposterà alla fine del capoverso quel « fine del pellegrinaggio » che nel manoscritto seguiva alla data sopra citata, e introduceva il ricordo.
Analogo discorso si potrebbe fare per La Notte, per cui abbiamo invece il soccorso e il conforto di tutta una serie di abbozzi frammentari di varia provenienza; ma per cui non si dà nemmeno il caso di spostamenti interni al manoscritto né di soppressione di parti con la stampa. Non parlo naturalmente delle frequenti trasposizioni di frasi e immagini, testimonianza della diversa distribuzione di una « materia », mi si passi l'espressione, perfettamente misurata e testualmente dominabile. Il manoscritto tuttavia, attraverso correzioni, varianti e integrazioni, appare molto più « svolto » rispetto al testo dell'edizione, che spesso ci riconduce alla lezione primitiva dell'autografo. Proprio questa coincidenza della stampa col testo base del manoscritto (si vedano in ispecie i due episodi della ruffiana e della fanciulla ambrata, nella prima parte, e quello che comincia « O il tuo corpo, il tuo profumo... », nella seconda, entrambi particolarmente tormentati), ci persuade che in molti altri casi, dove la stampa appare come « sfrondata » rispetto al manoscritto, si sia in presenza di un processo d'integrazione compiuto direttamente su questo, e di cui il manoscritto base non recava traccia. Un caso ci tocca in modo particolare. La pagina della seconda parte che comincia « Ritorno. Nella stanza ove le schiuse sue forme... » non solo ha nella stampa un diverso sviluppo e una diversa soluzione, con un taglio che è registrato anche in questo caso sotto forma di puntini; ma dopo la cadenza, ritornante dalla prima parte, del « panorama scheletrico del mondo », è caduto tutto l'ultimo periodo, che abbiamo già letto, con quel richiamo al titolo de Il più lungo giorno che non pare fosse cancellato totalmente dalla memoria, ma che non aveva più ragion d'essere in un libro che il titolo aveva mutato in quello di Canti orfici.
Ma forse più illuminanti sotto questo rispetto sono le poesie dei Notturni, delle Immagini del viaggio e della montagna, di Genova; di alcune delle quali, oltre tutto, già erano disponibili altre redazioni manoscritte. Che le varie testimonianze abbiano come archetipo la memoria di Campana dalla quale si sarebbero successivamente irradiate, è poco credibile anche in un tempo in cui per la rappresentazione di qualche caso di tradizione testuale non rigorosamente meccanica (di ripetuta collaborazione, cioè, alla costituzione del testo) si è creduto di proporre, con semplificazione forse eccessiva e insieme per una sorta di furor stemmatico, la figura della raggiera. Poco credibile, dico, con un poeta che ha tanto sviluppato la consuetudine e la tecnica del taccuino, fosse quaderno di scuola o libretto di conti da sensale o da fattore, per fermare l'impressione o la parola fuggente: « per rendere il paesaggio », al modo di un pittore errabondo. A parte che il confronto con lo stesso autografo del Più lungo giorno è sufficiente, una volta tanto, a rivelare nella stessa stampa del '14 una stratificazione elaborativa poi svoltasi, o fissatasi, in variazione: il caso della 4a lassa delle Immagini del viaggio e della montagna, perfettamente coincidente con l'autografo per i vv. 5 e seguenti, ma i cui primi 4 versi, « Andar, de l'acque ai gorghi, per la china | Valle, nel sordo mormorar sfiorato: | Seguire un'ala stanca per la china | Valle che batte e volge: desolato » (dopo di che la ripresa « Andar per valli... » ecc. fino a « o tu immortale | Anima! o Tu! ») figurano in quello (con varianti notevoli rispetto al testo a stampa citato) come prima redazione poi cancellata (e sia pure a lapis) dell'intero pezzo:
Andare udendo pel torrente a china
Nei gorghi il sordo mormorar del Fato,
Levar, fuggendo sovra la reclina
Fronte un'ala: fu il tuo bacio affiorato?
Chimera?
come mostra appunto quest'ultima parola sospesa, come lì « Anima »; con l'interessante richiamo a distanza al primo dei Notturni, appunto Chimera. E di contro, nel manoscritto, il Viaggio a Montevideo che comincia « Ma un giorno | Salirono sopra la nave » ecc. lasciando spazio sufficiente per i primi 17 versi, che cosa implica se non una stesura di questi non ancora matura, ma anche fisicamente delineata, e che troverà accoglimento solo con la stampa?
A parte ciò, dicevo, e a parte gli stessi vari taccuini, l'ipotizzato archetipo, il manoscritto base in qualche parte è conservato. Ed è, mi pare, il recentemente riedito « fascicolo marradese », anch'esso qui esposto, di Federico Ravagli: non taccuino o quaderno, ma un lacerto, piuttosto bruscamente estirpato, di un fascicolo più grosso, composto di grandi regolari fogli protocollo rigati cuciti insieme; ed è rimasto il segno dello strappo. Alla p. 7 leggiamo quello che sarà II canto della tenebra, in una redazione tormentata in più punti di ripetute correzioni che (tranne per il verbo del penultimo verso, per cui sarà preferita la lezione primitiva va via su fuggì ad essa sostituito) ritroviamo al suo stato d'arrivo nello stato primitivo della redazione del Più lungo giorno; ivi compreso quel finale a sorpresa, « O guarda coglione! Quassù? », variante « Qui tu? » (testimoniato anche in un lacerto del Taccuinetto con variante « anche tu? »4) che nel Più lungo giorno è « E ancora un coglione è lassù » prima di diventare il testo definitivo « Pum! mamma quell'omo lassù ». Tutto chiaro, tranne che per i tre versi inizianti identicamente Sorgenti sorgenti, i più tormentati di tutti, del resto, anche nelle carte Bandini, seguiti dal quadruplice Più Più Più Più che sparisce nella stampa. Ma a pie della stessa pagina 7, la redazione a pulito (pur con qualche ritocco) di questi versi è quella che passa in prima stesura nel Più lungo giorno.
Per Genova, Il canto di Genova, ci sono anche le ampie testimonianze del Quaderno; i cui rapporti col testo del Più lungo giorno richiederebbero un più maturo studio. Intanto Attimo meridiano, secondo pezzo nel manoscritto ritrovato, non è che i vv. 7 e seguenti di Piazza S. Giorgio, numero XXXVII del Quaderno. Manca invece nel Quaderno il primo pezzo, « Poi che la nube si fermò nei cieli »; ma degli ultimi versi c'è nel « fascicolo marradese » due pagine intere di prove ripetute, frammentarie, affannose, in un perpetuo avvolgimento. E proprio di queste prove una prima redazione ricapitolativa, ma con la nota finale « imperfetta », e cancellata, precede, nel manoscritto ritrovato, quella più concisa definitiva, passata nella stampa del '14 con solo in più un ulteriore ricupero finale di due versi, direttamente dal « fascicolo ». Con ciò, abbiamo toccato già, sommariamente, dei rapporti tra il manoscritto del Più lungo giorno e gli altri autografi noti, e implicitamente della sua posizione rispetto all'edizione del 1914: posizione di anteriorità, non occorre dirlo, ma anche di codex interpositus, generalmente, fra gli altri autografi (non parlo qui delle belle copie Bandini) e la stampa.
Resta sempre l'altro problema: di che cosa rappresentò per Campana, per il lavoro di Campana, il codice perduto; o, che è lo stesso, di che cosa rappresentarono i Canti orfici una volta perduto il manoscritto consegnato a Papini e a Soffici. Un problema anche per chi si accingerà all'edizione critica dei Canti, che ormai s'impone. Mi pare evidente che, qualunque cosa si proponesse di farne, Il più lungo giorno, così come rimase congelato al momento di un distacco che doveva risultare senza ritorno, rappresenta a quella data il libro di Campana, per giunta definito entro proporzioni che le stesse dimensioni fisiche del manoscritto, le poche pagine bianche residue e del resto distribuite lungo il corpo dell'opera fanno presumere non destinate a immediati cospicui incrementi.
Come è credibile che a questo libro tornasse con la mente, a questa immagine battesse la memoria di Campana dopo la sua perdita, quel disegno ricercasse il poeta nelle carte da cui l'aveva estratto. Il che, in linea generale, gli venne fatto: con tutto l'altro che quel rinnovato sforzo fece precipitare. È abbastanza significativo che nulla, o quasi nulla, almeno fino alle bozze, andasse perduto nei Canti orfici del primo libro. Ma le carte non potevano restituire l'intero prodotto dello sforzo primo, l'arricchimento subito, se non per quanto del manoscritto consegnato si fosse riversato già in quelle (e in qualche caso proprio gli autografi Bandini sembrano avvalorare questa possibilità) o ne rappresentasse un'alternativa non accreditata in prima istanza.
La registrazione, nella stampa del '14, di lezioni che nel manoscritto del Più lungo giorno appaiono superate, e superate attraverso un processo di cui è traccia nel manoscritto, di pari passo con l'accoglimento, viceversa, dei risultati ultimi di tale processo; la scomparsa, la seconda volta, di contro ad altrettanto frequenti integrazioni, di tutt'una serie di sviluppi, scomparsa solo in parte riferibile a un procedimento eliminativo (nel diario della Verna, eliminazione di elementi troppo strettamente cronachistici), e che molte volte sembra imputabile ad un arretramento alla condizione primitiva, contratta, del testo; lo stato, talvolta, come provvisorio del testo, in certe parti poetiche, per esempio nelle Immagini del viaggio e della montagna rispetto ad Alba del manoscritto, la prima lassa soprattutto, nella stampa quasi ancora filiforme abbozzo rispetto ai pienissimi versi del manoscritto: troppi sono gli indizi della singolare e drammatica condizione del poeta, costretto a riinterrogare quelle carte che avevano già parlato, a ridare vita a ciò che aveva già dato vita. Il nuovo processo elaborativo aveva insieme il carattere e quasi il limite di un processo riproduttivo (tanto più sotto l'assillo del testo da mettere al posto del primo): un processo riproduttivo in assenza della testimonianza della precedente elaborazione: la condizione dell'autore e insieme del copista.
Con qualche riflesso d'importanza, specie mancando l'originale, sul lavoro del critico. Due filologie testuali, quella dei testi a tradizione elaborativa e quella dei testi a tradizione riproduttiva, qui si scontrano e si confondono: se pure, del resto, son mai, se non occasionalmente, separabili. Il nodo che la filologia è chiamata non a sciogliere, ma a individuare, è quello stesso della natura ambigua del rapporto fra un prima che è già andato tant'oltre ed un poi frutto del ricominciamento da più addietro di dove quello aveva perfin cominciato. La domanda, cioè, include già in qualche modo la risposta. Il rapporto di reciproca assenza tra i due testi non fa che riproporre esemplarmente, in termini di storia della tradizione, la condizione di imperfectum che è alla radice della poesia e dell'opera di Campana.
note
1 Enrico Falqui, Per una cronistoria dei Canti Orfici, Vallecchi, Firenze 1960, p. 103.
2 Così nella parte IV, La sosta, la lezione interrotta « Il vostro passo... », poi sostituita da « Passano [ne la veglia...] », potrebbe richiamare alla citazione da Nietzsche (poi abolita) della prima pagina del manoscritto « L'incesso e il passo dei vostri pensieri tradiscono la vostra origine ».
3 Tanto per fare un altro esempio, alla fine di Pampa una fila di puntini, dopo l'immagine del « cielo come la terra in alto misterioso, puro, deserto dall'ombra, infinito » che provvisoriamente chiudeva il pezzo, appare nel manoscritto superata da un ultimo movimento (« Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili » ecc.) tal quale nell'edizione del '14.
4 Dino Campana, Taccuinetto faentino, Firenze, Vallecchi, 1960, nota al frammento XX, p. 62 (p. 42 del manoscritto: dal che s'induce che le pagine asportate contenevano II canto della tenebra).