IL “QUADERNO” DI DINO CAMPANA
di Silvano Salvadori
I Canti Orfici hanno costituito il prevalente terreno di caccia della critica letteraria. Forse di nessun poeta possiamo seguire un’evoluzione di testi poetici tanto sofferta e per di più testimoniata
Se fu avventurosa la vicenda del manoscritto dei Canti, non meno lo è stata quella dl Quaderno. Ritrovato dal fratello Manlio e contenente 43 composizioni, fu consegnato ad Enrico Falqui che ne curò la pubblicazione nel 1942 con la riproduzione fotografica di cinque pagine; il Falqui indicò a margine le varianti dei vari versi, senza fare una dettagliata ricostruzione delle sovrapposizioni nella stesura, densa appunto di ripensamenti e correzioni. Solo per la lirica “Oscar Wilde a San Miniato” la Ceragioli, in Belfagor, fece una trascrizione diplomatica che rivelò l’intenso lavoro di riscrittura tipico del poeta di Marradi.
Il Quaderno è poi incredibilmente sparito; sembra sia stato riconsegnato alla famiglia, ma questa dice di non averlo: la sorte si accanisce dunque con Campana!
Alcune poesie autonome Dino le rifuse nel grande canto di “Genova”, solo di altre quattro dette nei Canti una versione sintetica. In tutto questo si è visto quasi un ripudio di questa prima raccolta sistematica di versi da parte dello stesso autore, un’auto censura che però contrasta con l’insistenza con cui Campana chiosò questa sua raccolta poetica lasciata senza titolo.
Eppure alla data 1912 il Quaderno ci da un quadro esauriente di Dino poeta e in tale prospettiva andrebbe considerato: fare il punto di ciò che è Dino prima dell’elaborazione dei Canti, senza considerarlo in funzione di questi.
Non è stata finora fatta una pubblicazione autonoma sul Quaderno e crediamo che i tempi siano maturi per una sua rivisitazione, magari accanto alle altre liriche pubblicate su riviste o scritte da Dino con certezza prima del 1913.
I commenti finora fatti non hanno sciolto i tanti nodi interpretativi che esse presentano e per lo più peccano di preconcetti che bisogna superare.
Credo anche che un più attento esame dei luoghi frequentati da Dino, sia naturali - come le valli di Marradi - sia artistici - come monumenti ed opere d’arte -, potrebbe sensibilizzare il nostro occhio a vedere ciò che Campana ha visto nella sua esperienza concreta: occorre ridiscendere nel fiume ai piedi del concavo dirupo di Campigno, prendere in esame nelle foto d’epoca di Piazza della Signoria alcuni capolavori della scultura del Rinascimento, visitare la chiesa dove è conservata la statua della Madonna della Fortuna a Genova. La visione di Campana è sempre puntuale ed aderente e sempre s’invola da un qualcosa di percepito con acume critico incredibilmente moderno.
Un altro aspetto che mi si è rivelato importante è una sorta di religiosità sotterranea proprio là dove i critici hanno visto truculenti quadri da poeta maledetto, orge o fantasie erotiche; proprio lì a volte emerge un misticismo di rara purezza ed un sottofondo etico la cui ricerca non è meno importante della sperimentazione linguistica. Ben otto liriche sono da riportare in quest’ambito.
Insomma un uomo impegnato su temi umani, al di fuori dei fronzoli dell’intimismo tipici della poesia, con uno sguardo sull’esperienza altrui prima che sulla propria, dove questa ha senso come condivisione di quella.
E proprio di fronte all’esperienza tragica degli altri, Campana fa fare un passo indietro al suo io e preferisce oggettivare il dolore là negli occhi e nelle carni dove si trova, là nei volumi, nei colori e nei rumori delle cose, così che si crea un contrappunto fra l’occhio e la voce, contrappunto, tramite una notazione grammaticale ermetica, fra il suo sguardo perfino gelidamente cosmico e lo squillare dei fonemi più ricercati.
Ma qui, lasciando i temi più alti, proviamo a commentare una di queste liriche Umanità fervente sullo sprone e a coglierne tutti gli elementi.
IL RISCATTO DALL’EVENTO ALL’ETERNITA’
La poesia sorge da occhi che sanno vedere il quotidiano, ma in quel quotidiano trovano lo stupore: è questa la capacità di riscatto della poesia, messaggio salvifico: cioè che salva il reale dal suo essere solo cosa ed evento, facendolo diventare anima e eternità.
Allorché si spiegano queste poesie del Quaderno si rimane stupefatti come siano prodotte da cose attentamente osservate; occasioni banali, a volte, ma che la volontà di visione, l’intensità di visione trasforma in eventi emblematici, in bandiere di fede, di ideali.
Le cose non son più cose, ma rivelano la loro anima e quest’anima divien parola.
Parola: rivelazione del senso di esse; non più episodi staccati, ma amalgama del vivere.
Banali i fatti delle poesie del Quaderno, magnifici i miti che sorgono da quelle stesse pagine.
UMANITÁ FERVENTE SULLO SPRONE
Umanità fervente sullo sprone
Che discende sul mare
Umanità che brilla e si consiglia
Sotto l’azzurro dell’infinità:
Passano l’ore, vengono i prodigi
Suoi giù dal celo
E tace e ondeggia l’umana famiglia.
Si stirano le bimbe come gatti
Di sopra al mare dell’umanità
Inverso la commossa aeroplanata
Infinità.
Su di un costone roccioso (sprone) che scende proteso verso il mare (discende sul mare), un nugolo di persone si agita: tante persone che parlano fra di loro sotto il sole (brilla e si consiglia), sotto la volta del cielo infinitamente azzurra (l’azzurro dell’infinità). Sono lì in attesa, e finalmente ciò che il genio umano ha prodotto (i prodigi suoi), gli aeroplani, arrivano come novelli Icari: a quello spettacolo tutti rimangono muti e seguono le peripezie col loro ondeggiare tutti insieme (tace e ondeggia l’umana famiglia).
Le bimbe per veder meglio si stirano allungandosi sui loro piedini come fanno i gatti, alcune sono sulle spalle dei genitori e sembrano navigare su quel mare umano (di sopra al mare dell’umanità); esse tendono i loro occhi commossi (inverso la commossa) e pieni di infinito verso l’infinito, trascinano come aquiloni i loro sogni a far da compagnia agli aeroplani.
Il tono iniziale è eroico: sembra presentarsi al giudizio tutta l’Umanità, poi alla parola “sprone” sembra di vedere tutte le genti d’Italia nel profilo dello stivale che scende giù dalle coste appenniniche protese verso il mare; ci sembra di sentire l’orgoglio del suo genio: l’umanesimo e il rinascimento, quasi la fede per cui eccelse si alzarono cupole di stupore al cielo; questa folla brilla quasi di scintille geniali, inventa prodigi in un fervore da cantiere, da Scola filosofica e di eloquenza (sembra d’essere alla Scuola d’Atene!) sotto il cielo infinito che abbraccia Roma e Atene. In un tempo che dura da secoli, sembra scossa come frumento maturo dal vento: grano sui pendii, farina d’umanità con cui impastare l’Uomo Nuovo. Ci si presenta un popolo che finalmente ha realizzato il sogno di Leonardo e che nei tempi moderni sembra trasformarsi da marinaro ad aereo: così tutto ci appare. Ma….
Poi tutta questa epopea incontra delle bimbe che si stirano come gatti e le ultime parole, aeroplanata infinità, risolvono tutta la scena: lo si capisce che è lì il segreto. Allora rileggi e rileggi, e ti appare l’evento, la manifestazione acrobatica, una qualsiasi festa che ha richiamato gente.
Tutti avrebbero parlato degli aerei, invece Campana parla della gente e solo quando gli occhi dei bimbi si alzano al cielo, anche lui li vede: e le cabrate non son meccanica del volo, ma pura poesia!