Piero Santi e Gabrio Ciampalini alla "Beppa", Firenze 1970
Ricordo di Campana
di Piero Santi
da: La Nazione (Firenze), 31 maggio 1939, p. 3
Piero Santi è nato a Volterra nel 1912 ed è scomparso nella sua Firenze nel 1990.
Ho conosciuto in anni lontani Piero Santi, straordinario intellettuale fiorentino, autore di libri come: "Due di loro", "Amici per le vie" e "Il sapore della menta". Nella casa studio, all'Erta Canina, sulle colline sopra Firenze, in mezzo a librerie senza fine, spiccava un quadretto con la riproduzione a stampa di una strana poesia. Era Piazza Sarzano di Dino Campana. "Un poeta nostro che devi leggere", mi disse Piero. Per me quello è stato l'inizio del grande incontro con Dino.
Non mi ha sorpreso quindi il sapere che nel 1939 Santi scrisse questo ricordo su Dino Campana, attualissimo ancora oggi, ricco di musica e di colori, di fremiti e di poesia.
(paolo pianigiani)
La poesia di Campana vive come espressione faticata di un muto colloquio interno, nascendo da una iniziale tensione umana: se inutile è cercarne la ragione in esteriorità̀ cronologiche, in precisazioni materiali di rapporti con i fatti della vita del poeta, non inutile sarà̀ ascoltare, attraverso le parole, il moto originario dal quale nascono le pagine migliori di Campana.
La poesia è per Dino, prima di tutto, bisogno di possedere visivamente, svelandoli in forme sofferte, i moti e gli oggetti delle sue apparizioni e dei suoi dolori; e il suo insistere in ritorni di parole, in allitterazioni, in riprese di solitari aggettivi e di frasi isolate ha una prima ragione in questa sua desolata necessità di comprendere – intendendo questo vocabolo in tutte le sue eccezioni – quel mondo che gli sfuggiva in un’assenza disumana.
Alla generica tendenza verso un senso nativo di poeticità̀ che spesso vive nelle pagine di altri scrittori, si contrappone questa aspra e dolorosa ragione di scrivere del nostro poeta; e nell’aderenza sinuosa di ogni moto del suo sangue con la verità̀ delle sue parole l’uomo Campana trova il punto d’incontro col poeta.
Fra gli scrittori del periodo vociano egli è solo, negli altri è un’intenzione che potremmo analizzare su una base comune, in rapporto anche a quella generica tendenza a cui ho accennato: Campana è isolato fra gli altri, col turbinare dei suoi sentimenti, eternamente accompagnato da una essenziale sofferenza di vita.
Mai egli giungerà̀ ad una contemplazione in cui ogni tormento sia superato: la frase del poeta rimarrà̀ per Campana una meta non raggiunta e non raggiungibile. Perché egli è tutto nel suo dolore; e soffre il suo stesso dolore; e il mondo intorno a lui è la proiezione di questa ansia interna che può̀ ricevere soltanto momenti di stasi, ma non sa innalzarsi in aure liberate.
E la sintassi di Campana, così avvolta, così apparentemente trascurata, corrisponde pienamente alla storia intima della sofferenza dell’uomo, divenendo più̀ distesa e, per così dire, più̀ logica là dove l’animo si calma dopo un lungo affannarsi di sentimenti. Per questo, ogni accostamento con altri poeti mi sembra vano ai fini di una comprensione critica di Campana.
Gli incontri con Rimbaud, ad esempio, sono di una occasionalità̀ che è inutile indagare poiché il nostro poeta pretende, come gli altri, e in certo modo ancor più degli altri, una critica diretta sulla sua opera tanto sono diventati ragione e vita di lui gli eventuali echi letterari che egli possa più o meno consapevolmente avere accolti.
La ripetizione di parole o di espressioni intere, le allitterazioni frequentissime, non servono a Campana per darci un’atmosfera impressionistica dell’ambiente ma sono un reale bisogno dell’animo suo, sorto da un affannato insistere di motivi interni; insistere talvolta anche ossessivo, cupo di echi. Da questi ritorni e avvolgimenti di frasi nasce senza dubbio un dominante valore musicale, di una musica oscura e lontana sotto il giro del periodo, che mai si scioglie in facilità cantabili.
Se leggiamo i brani migliori di Campana notiamo che, sulla base di una musica viva in un breve giro di parole e in una graduale aggettivazione, l’ansioso ambiente creato dal poeta si esprime, senza materialmente definirsi, con accenni di una comprensione acutissima: le notazioni sembrano ricavate non da un oggetto che sia posto dinnanzi agli occhi dello scrittore ma dall’anima stessa di lui; non abbiamo mai un attimo di pace: il paesaggio nasce nella pagina, com’era già dentro la mente di Dino, senza una pausa di respiro, con un’ansia di vita oscura e non facilmente caratterizzabile.
E sempre il paese di Campana vive estraneo a materializzazioni apparendo non come sfondo ma come espressione della sofferenza interiore e non altrimenti rivelabile del poeta: Dino si confessa anche nel paesaggio che viene ad avere lo stesso valore di uno scarnificante esame interno. Ad un certo momento non vi è più separazione fra l’uomo e l’ambiente: ognuno vive nell’altro: il dolore dell’uno è il dolore dell’altro: l’oscuro mistero dei vicoli stravolti verso vie ignote, miracolosamente s’incontra col mistero umano del poeta: e quando il paese, raramente, s’innalza in un desiderio di serenità, par che l’animo stesso di Dino ritrovi, per un momento, un respiro di purezza.
E le città di Campana: queste creazioni de suo sguardo inquieto, dove i nomi noti si isolano in atmosfere e ritmi nuovi, dimentichi di ogni antica realtà naturale o letteraria. Inutile cercare aderenze con qualche cosa che sia al di fuori di Campana: queste città, nelle loro pietre, nei loro vicoli gonfi, costituiscono tutte insieme la sua città: un’unica città che egli ritrovava in qualsiasi parte del mondo, quella che dolorosamente portava in sé, senza possibilità di evasioni.
Qui, un’altra ragione della solitudine chiusa in cui questo poeta ci appare: egli non ci dona un’interpretazione di un mondo che è dinnanzi a tutti noi ma completamente trasfigura e, per così dire, tradisce questo mondo, costringendosi a seguirlo nella vie sconosciute della sua città; ma da questa trasfigurazione, da questo doloroso tradimento, quanta luce nuova, quanti echi di approfondita sensibilità!
Mentre altri scrittori giungono ad una interpretazione del mondo mediante notazioni di realtà materiale, Dino porge ascolto soltanto agli occhi che il respiro sommesso del paesaggio risveglia nella sua sensibilità e le sue osservazioni esprimono questo rapporto intimo, al di là delle cose, fra lui e l’ambiente.
Nel «Viaggio a Montevideo», ad esempio non abbiamo nessun sostegno di realtà naturale: tutto è affidato ad un inseguirsi di rapporti ignorati ad una logica quotidiana, ed è proprio qui che si può scorgere il pericolo i cui Campana poteva cadere, ma non è caduto, di disintegrare la fantasia poetica in sensibilità gratuite e sterili.
Ma da questi versi nasce indubbiamente un’atmosfera, viva soprattutto per l’approfondito senso del colore. Colore intenso in un senso incomparabilmente più intimo di quello che non sia per altri: è un colore che egli, con una rara sensualità, vede nel fondo delle cose da cui le cose stesse ricevono una luce nuova; come del resto accade ai pittori veri i quali sentono il respiro degli oggetti attraverso colori intimi ai quali i colori apparenti non danno che una prima e vincibile approssimazione. Pensiamo a Carrà e a Rosai nei quali più visibilmente che negli altri è possibile riscontrare questa interiore realtà coloristica. Nell’ossessivo mondo di Dino il colore è la voce degli oggetti ed il colore che domina sugli altri il colore che domina sugli altri il colore base vorrei individuarlo in un rosso cupo, sanguigno, sfumante verso il viola.
Alcuni brani di Dino sono decisamente sono decisamente viola, nessuna caratterizzazione riuscirebbe forse meglio di questa ad esprimere l’atmosfera di alcune pagine. Di un mistero essenzialmente di colore vivono le notti di Campana: e cupe rosse sembrano commentare gli sconvolgenti rapporti sessuali del poeta. Rapporti sessuali che è necessario ricordare ad una maggior comprensione del poeta nel quale la sessualità rimane ad un punto iniziale che non sopporta possibilità di appagamento, chiusa in un mistero di quasi primitiva religiosità.
L’ossessione dei suoi rapporti di sesso potrebbe far lontanamente pensare a certe grevi sequenze di Duvivier: ma mentre nel regista abbiamo un’aggettivazione ambientale attentissima, talvolta anche folcloristica, in Campana corre sotto i suoi rapporti di sesso un mistero quasi mistico, incupito in atmosfere allucinate, in cui le donne hanno una loro dignità quasi sacerdotale. Talvolta, invece, il mistero diventa più carnale e i rapporti si incupiscono senza riposi, chiusi nel giro fatale della frase.
I limiti di Campana possono riscontrarsi in quella accettata, continua aderenza al proprio dolore in quell’avvolgersi eterno entro un’atmosfera che raramente s’innalza in una liberazione pausata. Ma qui è anche la ragione della sua emotività: in questa continua, viva aderenza dell’uomo nelle sue pagine, in questo mai raggiunto porto di pace: raramente avviene a Dino quello che immaginava quando scriveva: E così, lontano da voi, passavano quelle ore di sogno, ore di profondità mistiche e sensuali che scioglievano in tenerezze i grumi più acri del dolore, ore di felicità completa che aboliva il tempo, e il mondo intero, lungo sorso alle sorgenti dell’oblio». L’oblio non era fatto per lui; nella sua mania sconvolta doveva invincibilmente fissarsi un’attenzione senza speranza per il suo dolore.