Nota su Campana

 

di Franco Matacotta

 

da:  La Fiera letteraria, ANNO IV, numero 19 - maggio 1949

 

 

Precisazioni e rettifiche, sconfessioni ed abiure, avanzate dalla critica nostrana, non appena s'è trovata nella possibilità fisica di riprendere fiato dopo le convulsioni di questi ultimi anni, nei confronti dell'età letteraria del recente e lontano passato, non han tuttavia turbato, d'un solo indiscreto accenno, la grande solitudine colla quale Dino Campana rende viva la propria presenza nella poesia italiana di questa prima metà del secolo. Tanto è il mistero che circonda tuttora la sua breve passione terrena, di poeta e di uomo: e tanto è l'amore che i suoi fedeli gli han conservato lungo questi anni intatto, per la sua voce e per il suo messaggio.

 

Vien fatto subito di notare, che di tanto si vanno allontanando nel tempo, con non so che precario e stridulo timbro inattuale, le poetiche che fino all'ultimo ieri andavano per le maggiori, di altrettanto vigore, e incarto, e verità, ritorna a noi, come un irrimediabile riflusso, il colore e il sapore della sua esperienza.

 

Così scarso sì, — nonostante la pubblicazione degli Inediti, compiuta da Enrico Falqui colla cura e l'affettuosità di cui egli solo è capace — il bagaglio di questi Canti. E tuttavia ancora così allucinante di forza, e di senso, e di indicazioni: e soprattutto così profetico, delle cose che abbiam veduto e sofferto, quasi che non dal piccolo e impetuoso mondo della prima Guerra Europea egli traesse i succhi e le ragioni della sua figurazione lirica, ma dal profondo diluvio che ha travolto, ieri appena, così grande zona del tempo.

 

Redimere l'uomo, questa creatura "lâche, se pourrissant d'elle même”. Sanare il “miasme” della vita. Fare, degli “spettri”, delle creature “pure”. Tutto, fino alla fuga, al dileggio, al vagabondaggio, alla pazzia, tutto quanto era in potere della poesia, questo pellegrino irriducibile ha tentato: egli che, solo, attraverso il suo errare per i paesi mediterranei, ha saputo esprimere della nostra razza tutta la miseria e il dolore, e insieme tutta la forza e la vitalità. Ricavata dal ricco limo della tradizione popolare, la sua “Canzone all'Italia” resta oggi ancora come l'immagine più fedele della nostra terra, abituata ai diluvi. Là, è da ricercare la sua voce vera. E là, forse, la poesia italiana potrà prendere impunemente l'avvio, per un canto nuovo, più umano ed aperto.

 

Perché, la parola, non ci basta più. Nè ci basta più, per salvare in noi il nostro istinto di vivere, l’illuderci dell'estrema illusione della poesia. Quel che Dino Campana cercava, noi abbiamo cercato, con lui e senza di lui, lungo questi anni. Ma ora, che il dolore sembra chiuso, ed esauriti tutti gli obblighi di non sperare, ora è della nostra vita, e non solo degli attimi nostri, ma del futuro in noi, che soprattutto ci preme individuare e regolare le sorti. Ora che i “tamburi” che accompagnarono Dino e i suoi canti, come Giotto nelle sue Madonne, hanno accompagnato anche noi e le nostre vicende, e sono dappertutto taciuti, è della poesia il compito di trasformare quel che abbiamo sofferto in sostanza di vita, di giustizia, e di amore. Noi abbiamo terminato ciascuno il nostro personale Diario, la nostra Storia di uomo. Ora comincia, per la poesia, la storia dell'uomo quale noi vogliamo e ci sforziamo che sia.

 

Dino Campana continua, e continuerà lungamente ancora, a soffrire in noi. Ma non più come sentimento, od occasione del tempo: bensì, soprattutto, come un grande monito della coscienza. Ed è a questo monito che la poesia italiana dovrà rispondere.