Contributo alla ricostruzione della sua biografia

(Anno 1885 - Anno 1915)

 

di Francesco Monterosso 

 

dalla Fiera letteraria, ANNO VIII/numero 24 - giugno 1953, pag. 4

 

 

"Tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano vano è il sogno"

 

Provvisti, come siamo ormai, del bagaglio completo degli scritti Campaniani, la prima esigenza che sentiamo affacciarsi è di porre finalmente un poco di ordine nella selva intricata del contributo critico che a tale opera è stato dato da trentanni a questa parte: contributo che, se è valso, per la sua vastità, a nutrire l'intese di due generazioni attorno al nostro autore, non è riuscito tuttavia a risolvere adeguatamente il problema dall'essenza fondamentale della sua opera, a dirci il suo reale significato e la sua reale portata. Dominata quasi costantemente da una specie di «furor» questa critica ha finito con lo svisare non solo le prospettive e i limiti, ma la ragione medesima del messaggio Campaniano.

L'argomento è di eccezionale impegno: ma esula dall'intenzione, ben più modesta, che si è avuta nello stendere queste note: le quali varranno, almeno spero, a risolvere un altro problema, non meno urgente, quello di ricostruire la biografia del poeta fino all'anno 1915. In questo settore, la confusione che s'è fatta è piuttosto considerevole. E sebbene già qualcuno abbia confutato gli errori più grossolani, (cfr. Gino Gerola, La vita di Campana, Fiera Letteraria, 20 luglio 1952), tuttavia certe inesattezze continuano ancora a permanere, anche in studi recentissimi, come quello edito dal Vallecchi (Cfr. Giovanni Bonalumi, Cultura e Poesia di Campana).

Per ricostruire la biografia Campaniana, possediamo tre documenti. Il primo è l'Edizione dei Canti Orfici e altri scritti, curata dal Falqui (Vallecchi Editore 1952), corredata di abbondanti note e indicazioni. Il secondo è il volume di Carlo Pariani, Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, (Vallecchi Editore 1938). Il terzo è il gruppo delle lettere degli amici di Dino dal 1915 al 1917, una parte del quale è stata pubblicata su queste medesime colonne (Cfr. Fiera Letteraria, 31 luglio 1949).

Dino Campana nacque a Marradi, in Val di Lamone, il 20 agosto 1885. La sua prima fanciullezza trascorse serena, nell'ambiente familiare. «Da bambino ebbi un'infanzia felice — dichiarerà Dino al proprio medico Carlo Pariani. Anche la madre ce  ne dà testimonianza in una lettera del 1917:

«L'infanzia di questo figliolo è stata perfetta. Bello, pacifico, grasso, di due anni diceva l'Ave in francese...».

A Marradi, Dino compì gli studi elementari. Nel 1896, fu mandato a Faenza per frequentare il ginnasio, non al Torricelli, come Dino stesso affermò nei colloqui col Pariani, ma nel Convitto Salesiano, iscritto al secondo corso (Cfr. Gino Gerola, articolo citato). A quindici anni, ebbe «fenomeni di eccitazione e depressione, ma non gravi da impedire lo studio». Infatti nel 1900-1 frequentò, sempre a Faenza, il primo anno di liceo al Torricelli. Ma i risultati furono pessimi. «Rimase addietro negli esami, per le distrazioni» (Cfr. Pariani. pag. 97). Il padre lo mandò allora a Torino, facendolo presentare come privatista agli esami di ammissione alla terza liceo presso il Massimo D'Azeglio. Avuta la promozione, Dino passò poi a frequentare l'ultima classe nel Collegio Bresso di Carmagnola. (Cfr. Gino Gerola).

Sensibilissimo, ma estremamente timido e impacciato, dal carattere chiuso e sofferente, è facile immaginare quel che Dino abbia patito sentendosi costretto a un regime di disciplina collegiale. Dino recava nelle mura del collegio già parecchi dei segni psicopatici, che più tardi, sotto lo stimolo di elementi perturbatori, lo condurranno alla pazzia. Il medico Pariani parla, a proposito di questi primi anni, di «mutamenti forti e non giustificati dell'umore, irrequietezze ed impulsi, antipatia verso la madre, nomadismo». Siamo all'epoca precisa della pubertà. Che cosa sia accaduto di particolare in questo periodo, non ci è dato sapere con esattezza. Né abbiamo testimonianze degli anni immediatamente succeduti, 1901-1902, se non che subì il primo arresto della sua vita, con permanenza in prigione a Parma. Ma a una lettura attenta del primo capitolo dei Canti Orfici, La Notte, noi possiamo lentamente scoprire, dietro il velo delle immagini e dei simboli, quale fu il dramma di Dino giovanetto. Dino, forse già a Faenza, si inizia all'amore. Tutto il capitolo è stracarico del turgore e insieme dell'ossessione e dell'incubo di questa prima violenta esperienza.

L'atmosfera di questa notte è sanguigna e postribolare. Le pagine sono «un poema di lussuria e di morte». Di questa esperienza, egli si ricorderà più tardi, quando, per un bisogno improvviso di liberazione e di purificazione, si abbandonerà alla «fuga»: e rivedrà allora «un'antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle estinte». E questo ricordo, Dino stesso lo definirà «incubo, che gravava sul mio cuore». Del resto nella «Torre barbara, la mistica custode dei sogni dell'adolescenza, rossa impenetrabile arida» contro la quale si ripercuotono le onde dei suoi ricordi, non è difficile ravvisare un simbolo sessuale. Come non è difficile riconoscere un senso di profondo turbamento erotico nella continua ossessiva immagine della morte che accompagna queste pagine di prosa e quelle successive in versi.

Dopo un anno di collegio, nel 1903, Dino fa ritorno a Marradi. Torna come un essere diverso. All'ansia«della sua fanciullezza tormentosa assetata, e del supremo amore» Dino, disgraziatamente, non ha potuto fornire che un'esperienza indubbiamente brutale e profondamente perturbatrice. A Marradi al contatto con il paesaggio e l'ambiente dei suoi primi sogni di fanciullo scoppia il primo urto. «Non sapevo bene i costumi che c'erano fuori; quando tornai a Marradi mi deridevano, mi arrabbiai e divenni nevrastenico». D'ora in poi, l'amore non sarà per Dino che un puro anelito. «Tutto è vano vano è il sogno, tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta!»

Sui rapporti di Dino coll'ambiente del suo paese, Luigi Bandini ci ha fornito talune interessanti illuminazioni (Cfr. Meridiano di Roma 17 aprile XVI). Il Bandini, compaesano, esclude che a Marradi ci fosse della malevolenza nei suoi riguardi, ed indica come maniaca la persuasione che ne aveva Dino. «Chi mai poteva aver interesse a far ciò nei riguardi di Dino? Chi mai si occupava seriamente di lui? A meno che non ci sia stato di mezzo un odio verso i suoi. Ma anche questo mi pare da escludere..... Eppure, l'atteggiamento di Dino verso i suoi familiari, e specialmente verso la madre, in questo periodo, non è stato dei più sereni. Una lettera del padre, di lui ci occuperemo più avanti, parla esplicitamente di «impulsività brutale, morbosa in famiglia specialmente colla mamma». Ciò è più che sufficiente a illuminare l'oscuro dramma che agitava l'animo di Dino, solo che si abbia un minimo di conoscenza nel campo della psicologia dell'età evolutiva.

Nel 1903, Dino si iscrive alla facoltà di Chimica Pura dell'Università di Bologna (Cfr. Gerola): non dunque a quella di Chimica Farmaceutica, come egli stesso dichiarò (Cfr. Pariani pag. 45): «Finito il liceo, andai a Bologna nella facoltà di chimica farmaceutica per due anni». Il Gerola ha infatti consultato i registri della Facoltà, che portano il nome di Dino per l'anno scolastico 1903-1904. L'anno successivo, abbandonata Bologna Dino passò a Firenze, iscritto a Chimica Farmaceutica, presso l'Istituto di Studi Superiori, 1904-1905. Successivamente, rientrò a Bologna, 1905-1906, sempre iscritto a Chimica Farmaceutica (Cfr. Gerola). Cade quindi l'affermazione del fratello di Dino (Cfr. Falqui. pag. 331): «Finì il liceo (1903), andò a Bologna... per due anni (1905)... poi andò a Firenze un anno (1906)...» e cade altresì quella del Pariani, che dà invece l'ingresso di Dino all'Università alla data del 1908. L'errore che quest'ultimo commette provocherà un grave disordine in tutta la sua biografia, per cui tutti gli avvenimenti finiscono col subire uno spostamento di ben cinque anni. E sebbene il Gerola abbia già nel luglio del 1952 pubblicato la sua rettifica, l'errore riappare nell'agosto del medesimo anno in un articolo biografico di G. Ungarelli (Cfr. Emilia, agosto 1952) e nel recentissimo volume di Giovanni Bonalumi, già citato.

Ma la chimica non fa per lui. «Volevo studiare chimica, ma poi non studiai più nulla perché non mi andava; (chiuse virgolette?Il secondo anno scolastico bolognese viene interrotto improvvisamente. Il primo maggio del 1936, il prof. Giovanni Vitali, medico in Bologna, scrive all'amico prof. Brugia. direttore del manicomio di Imola: «Il Signor Campana mi ha accompagnato il suo figliolo. Si tratta di una forma psichica a base di esaltazione, per cui si rende necessario il riposo intellettuale, l'isolamento affettivo e morale, e l'uso di preparati bromici. Con tali mezzi si otterranno vantaggi: ma quali? E fino a qual punto? Che peccato! Egli è un ragazzo tanto simpatico! Ad ogni modo insisti perché i suoi lo lascino tranquillo il più possibile: e chissà?».

Il 4 settembre 1906 Dino entra nel manicomio di Imola. La cartella clinica reca solo la diagnosi di demenza precoce... (Cfr. Pariani, pag 12).

Il 13 settembre, il padre di Dino scrive al prof. Angelo Brugia:

 

«Anni sono, una domenica mattina, si presentò a Lei un uomo vicino alla cinquantina, panciuto, non molto alto accusando disturbi nevrastenici. Ella subito non poté visitarlo, perché doveva partire col treno e gli disse di attendere fino a sera. Infatti la sera Ella tornò, lo visitò e gli fece due ricette, una delle quali unisco alla presente per riconoscimento. Ebbene quello uomo è il sottoscritto, è il babbo di quel povero giovane di Marradi, ricoverato testè in codesto manicomio. Guardi di guarire mio figlio com'ella guarì me, ricorrendo magari alla suggestione, se non gioverà la scienza. Egli ha la psiche esaltata avvelenata, pervertita, non sente affetti e prende presto a noia luoghi e persone. Nel 1900, allorché egli cominciò a dare prova dl impulsività brutale, morbosa in famiglia e specialmente colla mamma, lo feci visitare al professor Alberigo Testi di Faenza, il quale gli ordinò una cura di ioduro di sodio e mi consigliò di pazientare nella speranza che giovane, dopo i ventanni, si rimettesse. Nella primavera ultima scorsa, lo vide il professore Vitali di Bologna, il giudizio del quale Ella leggerà nella acclusa lettera. Questo mio figlio fisicamente non è mai stato malato, fino a quindici anni è stato di carattere sempre un po' chiuso, ma sempre buono, obbediente e giudizioso nelle cose sue, sebbene alquanto disordinato. Sua madre è donna sana, energica, intelligente, risentita. Dopo il parto allattò da sé tranquillamente e andava altera della robustezza del suo bell'allievo».

 

Il padre vuol riprendere il suo figliolo, e il Direttore Brugia, dopo due mesi di osservazione, così si esprime:

 

«Egli (Dino) è uno psicopatico grave, e riservatissima è la prognosi della malattia che lo affligge. Ei non sarebbe in istato tale da poter essere dimesso dal Manicomio, perché lontano ancora dall'essere guarito; ma, tenendo calcolo della insistenza colla quale ella lo richiede a casa, delle condizioni speciali di vita isolata che ella gli prepara in campagna, e anche del desiderio vivissimo e quasi eccessivo del malato di uscire di qui, io non mi opporrò a che ella lo ritiri dal Manicomio, in via di prova. Ma per ciò è necessario ch'ella venga qui in persona e qui rilasci sottoscritto un atto della più grave responsabilità per ogni possibile evenienza derivante dal ritorno del suo figliuolo alla libertà».

 

Il padre si reca ad Imola, firma l'Atto di Responsabilità col quale si obbliga ad avere per Dino la massima cura e sorveglianza. Promettendo di attenersi al disposto dell'Art. 65 del Regolamento sulla Legge del Manicomio, e conduce via il figlio il 31 ottobre.

Sei mesi dopo, il 25 maggio 1907, il Servizio Sanitario del Municipio di Marradi avverte la Direzione del Manicomio di aver visitato Dino e di «averlo ritrovato assai migliorato nelle sue condizioni di mente. Non ha più nessun delirio, e anche per quello che riferiscono i suoi di famiglia le funzioni psichiche si sono fatte assai regolari.» (Cfr. Pariani, pag.16)

A questo punto, è lo stesso Gerola, in genere così preciso, a incorrere in una inesattezza. Egli infatti dà il poeta di nuovo a Bologna durante l’anno scolastico 1906 - 1907, iscritto ancora una volta a Chimica Pura. Può darsi che l'iscrizione ci sia stata: ma non è possibile affermare che egli abbia potuto frequentare il corso, date le sue condizioni di salute precarie, la degenza nel manicomio e il successivo riposo a Marradi, durante la primavera. E' probabile invece che l'anno della ripresa della frequenza sia quello tra 1907 e il 1908: anno, anche esso interrotto, giacché nel febbraio del 1908, Dino parte improvvisamente per l'America Meridionale, imbarcandosi a Genova.

«Sul viaggio in America non v'è dubbio che avvenne nel 1908» — dichiara il fratello Manlio (Cfr. Falqui. pag. 331. Ma il Pariani dà invece nel 1908 l'iscrizione all'Ateneo Bolognese (Cfr. Pariani. pag. 17): e il viaggio in America nel 1913. Nel marzo del 1913 dimorava a Genova, attendendo di navigare verso l'America Meridionale (Cfr. Pariani. pag. 18). Come conciliare le due versioni cronologiche? Nell'opera del Pariani, Dino accenna più di una volta a questo viaggio d'oltremare. Sentiamo dunque la sua stessa testimonianza:

 

«Andai a Bologna per un altro anno (il 1907) poi andai in Argentina».

(Cfr. Pariani pag. 45).

 

«Verso i vent'anni non potevo più vivere, andavo sempre in giro per il mondo. Andai in America perché là è più facile trovare da vivere in quel modo. Stiedi cinque anni in Argentina facendo il pianista. A Buenos Ayres ho lavorato tre anni: stavo benissimo. Poi andai a Bahia Blanca, per un anno, Rosario de Santa Fé quattro mesi, un anno a Santa Rosa de Toay nel centro dell'Argentina, Mendoza un altro anno presso le Ande: a Mendoza coltivano il vino come in Italia».

(Cfr. Pariani, pag. 46).

 

«Dall'età di quindici anni, mi prese una forte nevrastenia, non potevo vivere in nessun posto. A quindici anni andai in collegio in Piemonte. Più tardi all'Università. Non riuscivo in chimica. E allora mi diedi un po' a scrivere e un po' al vagabondaggio. (Cfr. Pariani, pag. 49). Io studiavo chimica per errore e non ci capivo nulla. Non la capivo affatto. La presi per errore, per consiglio di un mio parente. Io dovevo studiare lettere. Se studiavo lettere potevo vivere. Le lettere erano una cosa più equilibrata, il soggetto mi piaceva, potevo guadagnare da vivere e mettermi a posto. La chimica non la capivo assolutamente, quindi mi abbandonai al nulla».

(Cfr. Pariani, pag. 50).

 

Questo abbandono «al nulla» non è che l'ingresso di Dino in quella che Bino Binazzi chiamerà iperbolicamente «la categoria dei girovaghi, ciarlatani, suonatori ambulanti, accattoni, saltimbanchi, truccatori d'ogni genere». Ma Dino correggerà l'affermazione eccessiva dell'amico con grande precisione:

Di questa fuga, («proclina anima al nulla nel suo andar fatale» dirà nelle Immagini del viaggio e della montagna: e altrove «ci abbandonammo all'irreparabile»), resta testimonianza la pagina del «Faust giovane e bello», nel primo Capitolo dei Canti Orfici.

 

«Ero giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartine levigate e flessuose, consacrate dalla mia fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un'ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull'abisso. Ero bello di tormento. Inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall'infinito del sogno... Salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato mistero... E povero, ignudo, felice d'essere povero ignudo, di riflettere per un istante il paesaggio quale un ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo: e giunsi giunsi là fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il cammino».

 

Di questa pagina, Dino disse: «Faust giovane e bello è una figura di fantasia, uno che non muore mai: sono io». Le donne di cui evoca l'immagine «levigata e flessuosa» sono le «petroniane». Il «poi fuggii», dice Dino, significa l'abbandono degli studi universitari e di Bologna, l'andata in America. «Fui preso dalla smania di vagabondaggio».  Circa l'accenno alle Alpi, dice: «Ho passato varie volte le Alpi: ho fatto il Gottardo, il Sempione e altri valichi. Viaggiavo a piedi. Andavo sempre in viaggio perché non sapevo che fare».

Tali testimonianze sono così precise da non lasciare dubbi circa l'andata in America successivamente al ritorno a Bologna per il terzo anno universitario. Resta da confutare soltanto l'affermazione di Dino sulla durata del suo soggiorno argentino. Se veramente fossero cinque anni, si andrebbe dal 1908 al 1913. Ed è questo l'errore in cui è caduto il Pariani, quando dice: «Raggiunse l'Europa sullo scorcio del '13 e il Belgio, dove scese, diede prigione e manicomio». In realtà Dino non si trattenne in America più di un anno, esattamente otto mesi, se nell'aprile del 1909 lo troviamo a Firenze, ricoverato nella Clinica delle malattie nervose mentali.

Perchè Dino abbia prolungato il suo viaggio, non si sa. Dopo vent'anni, evidentemente, non fu più in grado di dare una determinazione cronologica rispondente alla verità. In Argentina, negli otto mesi, dovette sperimentare diversi mestieri per campare e girare più parti e vedere più luoghi, dal momento che egli non era capace di fermarsi a lungo in nessuna esperienza. Il bagaglio dei ricordi argentini divenne così carico, da indurlo ad allungare il periodo del suo viaggio.

Reduce dall'Argentina, sbarcò ad Anversa. «A Buenos Ayres mi imbarcai su un bastimento inglese per raggiungere il Belgio. Lavorai nel traversare l'Atlantico, facevo il marinaio; così guadagnai il passaggio. Sbarcai in Anversa, andai a Parigi e da Parigi venni al mio paese ». (Cfr. Pariani, pag. 46). Nel Belgio, viene ricoverato in manicomio e conosce la prigione. «Mi arrestarono e mi tennero nella cella, per due mesi, di una prigione: Saint Gilles». Frutto di questa esperienza è la pagina «Sogno di prigione». Quindi fu rinchiuso in una specie di casa di salute a Tournay. Fu là che conobbe il personaggio chiamato nei Canti Orfici: «Il Russo».

Indebolito dalle privazioni e dalle sofferenze, Dino s’imbatte in un nuovo periodo di crisi, per cui si rende necessario il suo internamento nella Clinica fiorentina per diciotto giorni. Ne esce «per insufficienza di titolo, ossia non riconosciuto pazzo». (Cfr. Pariani, pag. 17). La causa del rilascio ci assicura che «se commise stoltezze prima di entrare, là non si ripeterono e dipendevano probabilmente da bevande spiritose». 

Nessuna notizia sono stato finora in grado di avere per il periodo che va dall'estate 1909 all'estate 1910. Il 15 settembre 1910 Io troviamo sulla strada di Campigno, diretto alla Verna. (Cfr. Canti Orfici, La Verna. Diario, pag. 49).  «Ci andai alla Verna - dice Dino al medico Pariani - quando avevo venticinque anni. Partii da Marradi». (Cfr. Pariani, pagina 62). Il 17 settembre a Castagno, nel Mugello, sulle pendici della Falterona. Raggiunta la vetta della Falterona, Dino scende «per interminabili valli selvose e deserte», a Stia, nel Casentino, «bianca elegante tra il verde». Il 20 settembre 1921, si avvicina alla Verna:  «In un'ora arriverete alla Verna». E l'anima di Dino innalza qui la sua preghiera al paesaggio, cominciando colle note parole:  «Io vidi dalle solitudini  mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte». Il 22 settembre è alla Verna. Nell'ottobre, dopo una costa a Campigno, dal cui balcone rivede la  «pianura di Romagna», rientra a Marradi.

Del 1911 mancano notizie. Ma quasi certamente Dino è a Marradi, o nei dintorni, intento alla composizione dei Canti Orfici. Luigi Bandini (Cfr. Meridiano di Roma, numero citato) lo ha conosciuto press’ a poco in quest'epoca, e ci dà di lui un interessante ritratto. «A Campigno, più solo con se stesso, si trovava meno a disagio, la gente lo urtava meno. Ma sopratutto la natura per se stessa del luogo (di un primitivismo che gli consentiva di sentirsi fuori del tempo) era singolarmente atta ad esercitare il più intenso fascino sul suo spirito. E credo che proprio le sue cose migliori le abbia scritte o almeno rifinite lassù». E' l'epoca questa del suo contatto con l’ambiente letterario fiorentino e del suo più intenso interessamento alla vita studentesca bolognese.

Che sia da collocare qui il presunto viaggio in Russia, non mi pare assolutamente possibile. Io sono portato anzi a credere che la faccenda del viaggio a Odessa sia una vera e propria invenzione di Dino. Non è cosa che possa stupire. Si sa, da talune testimonianze di compaesani e di amici, che Dino aveva non solo il gusto degli itinerari picareschi, ma anche l'abitudine di farsi bello di chi lo ascoltava, narrando cose strabilianti di sé. Lo stesso Bandini dice che Dino soleva «épater le bourgeois»,  nel suo paese. Per cui, la dichiarazione: «Sono stato a Odessa. Mi imbarcai come fuochista, poi mi fermai a Odessa. Vendevo le stelle filanti nelle fiere. I Bossiaki sono come zingari. Nei dintorni, vendevano calendari, stelle filanti. Sono compagnie vagabonde di cinque o sei persone» va preso con molto riserbo, almeno fintanto che non sopraggiungano elementi atti a documentarla.

Vale la pena piuttosto di riferire quel che il Bandini dice a proposito delle conversazioni di Dino con lui. «Parlavamo passeggiando ed io non vedevo più nulla intorno a me, ma gli splendori evocati, orizzonti ignoti, alte visioni di luce. Erano spesso gli altissimi: Shakespeare. Leonardo, Dante, Michelangelo. I grandi maestri fiamminghi e spagnoli (veduti da lui qua e là durante gli avventurosi vagabondaggi) o erano scorribande lungo tutti i sentieri della letteratura francese, con preferenza del periodo che va da Flaubert a Verlaine (conosceva bene però anche il resto: e il Medioevo, e iI Rinascimento, e il periodo d'oro; né aveva trascurato i contatti coi greci e coi latini); e Heine, Oscar Wilde, Poe, Whitman, Ibsen, i Russi... Mi ricordo che mi fece un grande effetto un'osservazione che azzardai a proposito della dottrina dell'eterno  ritorno di Nietzsche... Una delle scene che più mi impressionarono e mi commossero: eravamo di notte per una strada di campagna; miparlava di cose tristi, di avventure sue penose. C'eravamo fermati a sedere sulla spalletta di un ponticello: ad un tratto scoppia in singhiozzi e si butta disteso sulla stretta spalletta, smaniando e invocando coi più dolci nomi la mamma. "Oh mamma, la mia mamma! ", perduto di disperazione. Passai parecchi minuti in preda allo spavento che - senza più, come pareva, capacità di controllo - mi precipitasse di sotto. Calmatosi, riprendemmo silenziosi Ia via del ritorno».

A questo punto, dal 1911 in poi, fino al 1914, la biografia di Campana è un perpetuo vagabondaggio: seguirne la cronologia è davvero cosa ardua. Nel febbraio del 1912, Dino è a Genova. Abita nel Vico Vegetti 27, interno 2. Sono di questo periodo le esperienze narrate nelle ultime pagine dei Canti Orfici, che culminano nella  poesia a Genova. Della  «Passeggiata in tram in America e ritorno», il Pariani dice che contiene la descrizione del viaggio da Genova a Buenos Ayres. In realtà, a chi legga attentamente, viene ovvio di riconoscere invece che il brano è soltanto una visione del viaggio avuto da Dino percorrendo la città ligure in tram. « Ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare rabbrividiva nella sua fuga veloce. Sulla poppa balzante io ero già partito lontano nel turbinare delle acque... Riodo il preludio scordato delle rotte corde sotto l'arco di violino del tram domenicale.. ».  (Cfr. Canti Orfici, pag. 105.)

Alla fine del 1912, esattamente il 22 novembre, Dino si iscrive ancora una volta al quarto anno di Chimica Pura presso l'Ateneo Bolognese. Le notizie di questo periodo ci sono fornite dall'Ungarelli, nell'articolo dedicato alla vita bolognese di Dino. «Timido e scontroso per natura, mantenne, pur prendendo parte alle rumorose manifestazioni goliardiche, una sorta di riserbo, rotto a volte da improvvisi quanto violenti accessi dovuti a quello stato di profonda nevrastenia ed abbattimento psichico a cui spesso soccombeva già sin d'allora. In quei tempi la goliardia bolognese non mancava di dare in tutte le manifestazioni cittadine il suo carattere di scapigliata e spensierata allegria.

Altri studenti accorrevano in massa all’Eden per ascoltare Donnarumma e Pasquariello che cantavano "Marechiaro" e "Surriento" o all'Arena del Sole ad applaudire Garavaglia o Ruggieri che recitava "La passeggiata" dall'allora in voga "Poema Paradisiaco" dannunziano. Così fervevano al Caffè San Pietro le discussioni sul futurismo (nel gennaio del 1913 cominciò ad uscire a Firenze "Lacerba”). Al Bar Nazionale, vicino alle due torri, si riuniva la camerata romagnola a cui Campana s’era unito, promotrice di feste e di manifestazioni studentesche».

L'8 dicembre, Dino pubblica le liriche La Chimera e Barche ammarrate e la Lettera aperta a Manuelita Etchegarray nel numero unico «Il Papiro», uscito in occasione della festa delle matricole. Dino usa tre pseudonimi, Campanula, Campanone e Din-Don. Nel febbraio del 1913, in occasione del Convegno Nazionale Universitario, esce il «Goliardo», che reca, colla firma di Campana, i primi capoversi de La Notte. A Bologna Dino abita dapprima in una pensione di via Zamboni, all'angolo di via del Guasto. Ma deve presto sloggiare in seguito ad alcune risse, che gli procurano perfino la prigione. Si trasferisce allora presso l'amico Olindo Fabbri, in una cameretta a Porta Castiglione. «Da qui scendendo giù per via Castiglione, giunto all'altezza di via Monticelli, risaliva l'erta di San Giovanni in Monte per andare ad ammirare i due angeli dipinti dal Costa (Cfr. Ad un angelo del Costa nei Canti Orfici pag.154). Frequentava la Biblioteca Universitaria, dove leggeva i suoi testi preferiti: Carducci, Leopardi, Poe e Whitman, di cui cominciavano allora ad apparire in Europa le prime traduzioni », (cfr. Ungarelli).

Poco innanzi la primavera del 1913, Dino lascia Bologna e si trasferisce a Genova, dove ha ottenuto il passaggio in quella Università. In data 3 marzo, infatti, il professor Nicola Spano che (non era professore, rettifica il Gerola), della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, scrive al padre di Dino una lettera il cui contenuto viene riassunto dal Pariani: «Dino è stato veduto da alcuni amici a Genova dove pare non stia male. Ha cominciato a frequentare laboratorli e lezioni ma nessuno può rendersi mallevadore della perseveranza in quegli studi. Occorre incoraggiarlo, distoglierlo dalle abitudini scioperate, fargli terminare gli studi. Potrà laurearsi nel luglio del 1914 e poi entrare una farmacia e guadagnare qualcosa. Non lo ritiene però adatto per ricevere il pubblico».

E' a questo punto che il Pariani genera la confusione cronologica di cui s'e detto, dando in questo lasso di tempo il viaggio di Dino in Argentina. Effettivamente, Dino si imbarca in aprile: non per varcare l'Oceano, ma per un viaggio in Sardegna, del quale recta il documento nella lirica «Prosa in poesia», che comincia: «Un verde bizantino — Sopra un occhio dorato — Descrivo le lastre a quadri — Dell'isola Maddalena», da me pubblicata nel Taccuino e quindi ripresa dal Falqui.

Altrettanto è certo, che Dino pensasse di tornare in America. in seguito alla sollecitazione di un amico tale Orlandelli. La riprova la si ha nel brano dei Canti Orfici. «L'incontro di Attilio [sic] Regolo». « Regolo e uno che andò in Argentina. Si chiamava Regolo Orlandelli, era di Mantova. Lo incontrai in Argentina. a Bahia Blanca. Prima l'avevo conosciuto presso Milano. Viaggiava il mondo. In America aveva un'agenzia di collocamento: a Milano faceva il commercio ambulante (Cfr. Pariani, pag. 75). Dino lo incontra nella circonvallazione a mare». «Stesi sui ciottoli della spiaggia seguitavamo le nostre confidenze calmi. Era tornato d'America. Tutto pareva naturale ed atteso. Ricordavamo l’incontro di quattro anni fa laggiù in America... Avevo accettato di partire.. Ma come partire? La mia pazzia tranquilla quel giorno lo irritava... » (Cfr. Canti Orfici. pag. 108. Nella quale pagina, c'e, esplicita, la affermazione di Dino che stabilisce la data del viaggio americano, 1908). I due amici si lasciano in Piazza Corvetto. «Partì, — dice Dino —. Io rimasi a Genova». (Cfr. Pariani, pag. 76).

Nell'inverno del '13. Dino è veduto sovente a Firenze. Nel dicembre, reca da Marradi il testo del Canti Orfici per sottoporlo al giudizio Soffici e di Papini. «Robusto e impacciato vestito a miseria, tremava per il freddo e si fiatava nelle mani gonfie dal gelo ridendo nervosamente tra un soffio e l'altro». Nel gennaio del 1914, riapparve alla mostra d'Arte futurista, in via Cavour, dove Soffici pure esponeva.

Il 6 gennaio, scrive una lettera all’editore Vallecchi, chiedendendogli di pubblicare i Canti Orfici. «Ci ho tante novelle e poesie da farne un libro e se lei volesse Incaricarsi della stampa oserei sperare in un discreto esito.  «Denari non ce n'ho ma le garantirei lo smercio immediato di una cinquantina di copie...».

Il manoscritto era già pronto da qualche tempo, sebbene non ancora nella forma definitiva, se il Bandini afferma: 

 

«Aveva mandato a me, non completo, il manoscritto dalla Svizzera. Temeva che gli venisse sottratto dalla polizia, o temeva forse per la sua vita stessa: conservo il biglietto, piuttosto enigmatico, col quale mi preavvertì dell'invio. Poco dopo giunse lui stesso in paese, rimpatriato. Si dette allora d'attorno a Firenze per la pubblicazione. Fra ripulse di editori, e presunti tradimenti di amici (comunque, vera era almeno l'indifferenza) smaniava, inferociva».

 

Il libro esce a Marradi, l'estate seguente, presso l'editore Ravagli. I contatti col Ravagli ci sono riferiti sempre dal Bandini. L'editore chiede a Dino duecento lire di anticipo. Dino è costretto a promuovere una sottoscrizione in paese a quota fissa, di due lire e cinquanta. Bandini aiuta il poeta nella colletta, e riscuote il danaro delle prenotazioni.  «A me, dice Dino, nessuno dei tuoi compaesani affiderebbe di certo due lire: nemmeno cinque soldi». Ma gli ottanta sottoscrittori necessari non si trovano. Si arriva soltanto alla metà. E Ravagli, sospirando, deve contentarsi soltanto delle centodieci lire raggranellate.

Uscito il volume, Dino fa la spola tra Firenze e Bologna, per la vendita. A Firenze, gira tra i tavoli del caffè Paszkowski o delle Giubbe Rosse: a Bologna, al caffè San Pietro. Ma nemmeno la pubblicazione del libro dà a Dino la quiete. Amareggiato dalla incomprensione, o almeno da quello che lui credeva tale, alla fine dello stesso anno riparte, imbarcandosi alla Spezia, diretto a Genova. E’ deciso questa volta a riattraversare la frontiera. Di questo viaggio per mare abbiamo traccia nella lirica «Bastimento in viaggio», già «Frammento». Prima del febbraio 1915 si trova a Torino. E’ sempre intento nella distribuzione dei Canti Orfici agli amici piemontesi, e col miraggio di tornare in Svizzera. Ma trovato senza documenti di identificazione, viene ancora una volta fermato e rimpatriato. Il 28 febbraio è di nuovo a Marradi, dove lo raggiunge una lettera di Francesco Meriano: e successivamente, il 28 marzo, una lettera dell'Aldovrandi, redattore della «Gazzetta del Popolo». Dice:

 

 «Caro Dino. ... Nulla ho da dirti di me, che possa farti piacere… all'infuori - se pure questa fosse una notizia consolante - del sincero rammarico per la tua improvvisa partenza e del senso di vuoto che essa ha lasciato attorno a me. Vuoto pneumatico. Questa gente, caro amico, mi esaspera, come già ha esasperato te... Ho già collocato diverse delle 10 copie dei Canti Orfici, che mi lasciasti in deposito. Spero di esitarle tutte. Quando ti occorre, ti manderò il corrispettivo. Lavora, Dino: non hai ancor detto l’ultima parola. Tuo Aldovrandi».

[Nota (p.p.): Matacotta sbaglia sempre a riportare il nome dell'amico di Campana, che in realtà si chiamava Aldo Orlandi e non "Aldrovandi"]

 

A questo punto, io stesso debbo dichiararmi responsabile di un errore di cronologia, a proposito della poesia «A Mario Novaro» ovvero «Canto proletario italo - francese». Questo canto, da me pubblicato su queste medesime colonne, corredato delle varianti, non appartiene, come data di composizione, al 1915: in quanto che esiste una stesura fornita dal Ravagli colla data del 1914. (Cfr. Falqui, pag. 356). «Quella del Ravagli è databile verso la fine del 1914». Ripreso l'esame delle varie stesure della poesia nel  «Taccuino», dalla particolare qualità della grafia e dalla collocazione delle stesure stesse è lecito riportare la sua composizione esattamente all'anno precedente, quando Dino varcò la frontiera per recarsi in Svizzera, sul finire del 1914.

Del resto, anche circa la data fornita da me per il «Taccuino» bisogna retrocedere, e di parecchio. In esso, ho ritrovato accenni di motivi, attacchi di pagine già pubblicate nella edizione del Ravagli. «E non un dio era nella sera d'amore di viola» -  «la china eburnea fronte fulgente» - «una così semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piacevoli» - «andavo intanto difeso dagli incanti» - «Leonardo primitivo» - «Ie enormi roccie, pacificatrici dopo che l’ideale aveva fatto strazio e sacre alle più vive commozioni della mia vita» e altre parti, sono già nel  «Taccuino» allo stato talora embrionale, talora corrispondente al testo dato alla stampa. Segno dunque che il «Taccuino» ha accompagnato tutta la composizione dei Canti Orfici e quella delle «Varie e Frammenti»  aggiunte dal Binazzi alla primitiva stampa Ravagliana. Per il resto della biografia Campaniana, dal 1915 al 1918, data dell’internamento finale, rimando al lettore a quanto ho pubblicato sulla «Fiera Letteraria»  in questi ultimi anni: grato a tutti coloro che, possedendo altri elementi biografici, vorranno cortesemente aggiungerli a miei, e rettificare, se è necessario, laddove sono incorso  in qualche involontario errore.