Ritorno del poeta

 

di Giuseppe Raimondi

 

Da: La Fiera Letteraria  della domenica 11 Giugno 1953

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“In ogni caso né da vivo e tanto meno da morto, si avrà ragione di me”

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E la leggenda di Campana continua. Continua in braccio ai terrori filologici degli zelanti, o preda della critica che vuole servirsene a rovescio, per sospingere in un mondo di leggenda anche la figura concreta dell'uomo, e tende a interpretare il suo lavoro come il prodotto di una notte del «sabba» futuristico, la facile pazzia del secolo. Campana medesimo, durante la vita terrena, si compiacque forse di alimentare la leggenda, appoggiandosi ad elementi di costume letterario che, nella provinciale Italia degli anni tra il '912 e il '915, recavano con voce di favola delle vicende, non tanto lontane, di Rimbaud, Verlaine, di parnassiani e simbolisti.

Anche per temperamento, è vero, egli amò celarsi dentro i noti travestimenti: nomadismo, alcool, disordine sociale e spirituale. Non era, forse, che un suo movimento di pudore e di riserbo, sotto l'apparenza scandalistica. Come, tentiamo di riportare dalla memoria, la sua querula violenza, a tratti, non fu nient'altro che un affiorare della tristezza che arrossisce, e della sua impacciata modestia.

Difatti, quando il luogo tragico gli inpose l'estrema sincerità e semplicità, vennero, per bocca sua al medico Pariani, i commenti definitivi, alla rilettura dell'edizione Binazzi dei «Canti». Così di «Piazza Sarzano» osserva: «Son note musicali che facevo io». Di «Toscanità»: «E' un po' enigmatico. E' una fantasia pittorica, sono stati di fantasia. Sono colorismi più che altro. Sono un effetto di colori e di armonia: una armonia di colori e di assonanze». E in fine di «Arabesco-Olimpia» precisa: «Cercavo di armonizzare dei colori, delle forme. Nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi». Che può essere quasi, mio Dio, la dichiarazione della sua poetica, bene ardua ma lucidamente praticata, all'infuori dei passati travestimenti; e dovrebbe, in sede critica, essere chiarimento ad ogni leggenda. Parlando della sua poesia, cioè della sua vita, poteva essere sobrio a questo punto.

La critica «filologica», così infallibile nello scrutare ogni formazione del linguaggio poetico, nello scoprire il primo, il minimo movimento nell'articolarsi di una poesia, non ha avuto un naturale trasalimento di fronte al destino che uno scrittore può essersi imposto per realizzare un suo scopo, un disegno di «Poesia». La vita, non i dati biografici, di questo uomo, la interessa scarsamente. Eppure, qualcosa da meditare può offrire la follia, lo smarrimento fisiologico e verbale, cioè spirituale, di Campana, se non altro per l'ineluttabile forza che impongono a taluni scrittori, come a Rimbaud, dopo la «Saison» l'abisso della vita pratica, i commerci diabolici, e bestiali, di riconsegnarsi al silenzio della creazione.

E' allora che il poeta ritorna uomo fra gli uomini. Fu consueto agli uomini artisti del secolo scorso, anche a tapini del primo ventennio di questo, di offrire la propria vita al raggiungimento di una «forma poetica» perseguita strenuamente, che finiva per divorare la vita stessa. Anche se i resultati non furono ogni volta perfetti, era il segno di una sorta di intellettuale stoicismo, di una dignità di lavoro, di una coerenza morale. Questo, tra gli altri, fu il caso di Campana.

Una poesia è il riassunto del gusto, della vita, della cultura di un'epoca, quella del suo autore. I giovani di oggi non possono quindi accettare che a stento quella materia che nell'opera di Campana è ancora troppo «vita», «tempo», ecc. Così accade anche dei loro rapporti con altri poeti delle passate generazioni. Facile è separare le scorie che ingombrano la poesia di Campana. Ma, criticamente, a che vale? Lo spirito, in ogni luogo, vi è quello glorioso dell'avventura lirica. Avanzi di un riconoscibile gusto «liberty» sono nell'aggettivazione: «Infrenabile», cielo «latino», mitico», «mediterraneo», «imperiale», ecc. (Corbière usa l'aggettivo «contumace›, quasi per una musicale libertà, come Campana «imperiale»). Ma, attenzione a questo genere di «liberty»! E' qualcosa di talmente fermo e composto, già divenuto stile. Anche in Mallarmé rispunta il «floreale», con le sue rose di bronzo e arborescenze verbali dl un'irrealtà assoluta. Campana ricava gli elementi della sua cultura, oltre che da quella classica, e da quella dell'800 italiano, dall'arte letteraria francese moderna: i nomi sono noti.

O da quelle che In questa arte si riconoscono, com'è il caso di Whitman introdotto da Claudel. Sua bibbia, lo confessava volentieri nei caffè letterari, furono le «Fleurs du mal»: ne aveva una conoscenza fanatica e puntigliosa. E attraverso Baudelaire, evidenze di Poe nella climaterica, importata lirica: «Dianora», che, se fosse sua, s'inscriverebbe bene nel lavoro di Campana, quasi programma di una poesia retta da un ripetuto incanto musicale. Lo si è voluto definire: un visivo: con una specificazione di gusto razionale e materialistico. Si sono apprezzati i suoi occhi, la penetrazione della sua rétina. Non la particolare inflessione del suo tormento d'espressione, la chiara tristezza, di cui sono traccie in questo suo 4 carnet de damné ). Forme: colori: e il resto è musica: è lieto di sbrigarsi il critico, appoggiandosi alle parole dell'autore. Non si è vo:uto guardare nei paraggi della sua anima. un luogo abba-stanza devastato, in verità, e percorso da fumate sinistre. Non certo attribuirgli il progetto, umano e degno di un poeta, di volare «posseder la vérité dans une âme et un corps».

 Campana ci parla del glorioso, disperato tentativo di salvare il «messaggio» che i grandi poeti dell'epoca moderna ci avevano tramandato. Vi riuscì? Certo nessuno più di lui vi si sforzò. Del resto si direbbe che qualcosa del tragico «bégalement»  mentale degli ultimi diari di Baudelaire (le sue note d'igiene, tra i lampi del genio postremo, i mistici vaneggiamenti, sia stato ereditato nel balbettio verbale, nell'incerto, nell'impedito svolgersi della frase poetica di Campana, che ha i soprassalti e gli abbattimenti, le cadute, gli smarrimenti di una fisiologica catastrofe: — «Bianca, quando nel rosso del fanale, Bianca lontana faticosamente, ecc.» — Ma quando egli ritrova le forme di un paesaggio, e ricompone la visione di una città (Faenza, Bologna, Genova), di un luogo reale, appuntandola anche con la battute di un dialogo, o con un particolare improvvisamente realistico dopo tanta lirica evocazione («Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci porterà tutti»), accade che egli sforzi il tempo a immettersi nei luoghi, quasi in maniera fiabesca, o come fa Goethe in talune parti del «Meister», riuscendo ad una rappresentazlone della vita, ad una viva proiezione del reale sullo schermo della fantasia poetica. E allora qualcosa di idillico, da goethiano  «Arminto e Dorotea» permane nell'aria del suo Diario della Verna.

(1943)