Atti del convegno Firenze 18 - 19 marzo 1973

 

Seconda Giornata

 

EVOLUZIONE DEGLI STATI CROMATICO-MUSICALI

 

Di Maura Del Serra

 

(Trascrizione di Andreina Mancini)

 

 

Il tema di questo intervento costituisce in gran parte l'argomento di uno studio assai più ampio che esamina l'evoluzione della poetica di Campana; perciò non può e non vuole essere, in questa sede, una sorta di improbabile riassunto delle indagini stilistiche e testuali su cui si basano le conclusioni di quello stesso studio, che riguardano il divenire aperto delle immagini lungo l'intero arco temporale dei Canti orfici, che è notoriamente molto composito. Mi sembra dunque che qui possa risultare utile prendere le mosse, come base chiarificatrice, dal periodo centrale della creatività campaniana, quello che va dalla fine del 1910 con La Verna, da questa a Genova (1913 circa) fino agli ultimi frammenti, come Arabesco-Olimpia e L'infanzia nasce.., estremamente ricchi e densi di significati; e in questo itinerario mettere in luce, anche brevemente, il tipo e il significato del viaggio — un termine-guida della poetica di Campana — che le immagini percorrono lungo la loro direttrice costante di evoluzione negli Orfici. La direttrice è quella cromatico-musicale, sinestetica, o meglio analogica; intendendo quest'ultimo aggettivo in un senso dinamico che unisca l'eredità viva dell'analogia musicale del simbolismo europeo con i presagi, presenti nei lirici nuovi ma particolarmente in Campana, dell'analogia essenziale novecentesca, che sboccherà nella poetica dell'ermetismo.

La dimensione conoscitiva del «viaggio» campaniano è stata naturalmente sottolineata con i colori più vivi e vari dalla critica ormai sessantennale sulla poesia degli Orfici; ma questa vivezza di tinte, spesso addirittura esclamativa, ha sempre oscillato, e oscilla tuttora, nella cifra ambigua — o, per usare un'espressione del Campana di Castel Pulci, nel «giro suggestivo» — dell'orfismo, della veggenza, o, al massimo, in quello che può definirsi uno stilismo della visione. Più raramente i critici hanno preferito affidarsi — e qui pensiamo al Contini — alla cifra razionalistica, che riduce la contraddittorietà innegabile della poesia campaniana al livello visivo, cioè ad un impressionismo diaristico tinto di stupore, di fede o al massimo di nostalgia nei confronti dell'ideale. Si tratta della ben nota antinomia critica fra la linea orfico-veggente e quella visiva; e questa antinomia non sembra dissolversi sotto il peso del tempo e dei nuovi contributi interpretativi, ma piuttosto sembra alterare sempre più le sue proposizioni a favore della cifra orfica, anche se questa viene dilatata sempre più spesso in senso linguistico, storico, psicanalitico o filosofico.

Non si può dire che non siano stati fatti tentativi di interpretazione dell'equazione vita-poesia che fossero più aderenti al senso letterale dei testi, o che tendessero a smitizzare le coincidenze decadenti condanna-riscatto e poesia-follia in un senso antitragico, apollineo, solare o classicheggiante; oppure, ancora, che ricercassero una dimensione culturale più precisa per le intenzionalità ideologiche e stilistiche, spesso discordanti, proprie della poesia di Campana. Mi riferisco qui all'esempio di lettura di Montale, ormai vecchio di trent'anni ma sempre notevole per l'equilibrio con cui vi è sorretta la tesi della «poesia in fuga»; e anche alle divergenti letture complessive di Giuseppe De Robertis, del Bonifazi, del Venè e del Galimberti. Ma a questi tentativi di superamento del mito Campana non è corrisposta — o solo occasionalmente — un'analisi approfondita della struttura aperta e dell'evoluzione tensiva che guidano le immagini degli Orfici; un'analisi, cioè, della loro dissoluzione e ricostruzione continua, attuata prevalentemente attraverso processi analogici di tipo cromatico-musicale.

Ed è appunto dopo il primo periodo della produzione campaniana, il periodo della Notte, dei Notturni, e della maggior parte degli esperimenti del Quaderno (cioè gli anni 1908-1912 circa), che si afferma nei risultati più validi la dialettica dell'immagine, il suo viaggio: dalla partenza — che è il moto ascendente, la dissoluzione musicale, il termine invisibile della metafora — al ritorno, che è il moto discendente e fissante, la ricostruzione musicale e materica, la metafora compiuta. È una dialettica sempre rovesciabile nei suoi momenti, piena di intersecazioni, contrasti e piani multipli di leggibilità, ma insieme alla legge del work in progress che regge gli Orfici, vi resta costante la coincidenza fra lo spaziotempo umano, psicologico, e quello ambientale, naturale o architettonico. È proprio a partire da La Verna che questi ultimi due piani acquistano un rilievo « sculturale » (per usare un aggettivo caro a Campana): nella dimensione apparentemente diaristica sono posti in interazione, ora come piano di sfondo ora come dominante, due piani: il piano che possiamo definire « atmosferico », in quanto è dominato dalla presenza prospettica dei grandi elementi naturali — rocce, monti, acque, colori, cieli — e il piano dell'immagine umana che il poeta fa risaltare sullo sfondo stesso, a volte all'inizio, a volte alla fine dello scorcio di « diario »; e la fa risaltare per mezzo di una messa a fuoco tonale e musicale in senso psicologico, che è sempre tesa a cogliere gli elementi simbiotici e analogici fra la cornice e le immagini portanti. Il segno di questo equilibrio musicale è messo in evidenza da Campana in una lettera in francese a Sibilla Aleramo, anteriore alla stesura della Verna, dove dice: « Sarei felice se potessi farvi partecipe della mia ammirazione per questa linea severa e musicale degli Appennini, che caratterizza dopo Dante e Michelangelo lo spirito dei nostri migliori ». È questa linea severa e musicale che plasma l'apparente bozzettismo e impressionismo della prima parte della Verna secondo una scansione dinamica che di solito concresce su se stessa a spirale, saldando la prima immagine all'ultima attraverso un arco di richiami e paralleli analogici.

Il processo si può seguire chiaramente attraverso una delle immagini iniziali della Verna, quella dei fianchi della Falterona, che in apertura si presenta ad una distanza analitica corretta però in senso ritmico dall'elemento onde, cioè: « La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare ». Il tocco successivo, che è: « La pioggia ha reso cupo il grigio delle montagne », arricchisce l'immagine in senso coloristico; e la scena seguente si ricollega ai motivi dell'acqua e del sole, per introdurre le presenze umane: « Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Castagnini attendendo il sole, aduggiati da una notte di pioggia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci porterà tutti ».

Complementare a queste presenze riappare subito il piano naturale, che si incupisce e lascia trasparire il senso di impotenza psicologica del poeta sotto la veste descrittiva della partecipazione sociale: « Il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le rocce ripide della Falterona: dovrò salire, salire ». Un inciso ambientale di tipo architettonico fa emergere dai precedenti il piano iconico delle presenze femminili: « Nel presbiterio trovo una lapide ad Andrea del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piacevoli! forse ». Quest'ultimo piano (le presenze femminili) e l'armonia francescana di un paesaggio crepuscolare rimpianto sono unite da un'analogia musicale che resta sottintesa, ma è resa avvertibile dall'allargamento spaziale dell'immagine: « Come differente la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! »

Come si vede, c'è qui un'ombra di enfasi, che però viene cancellata dalla breve ripresa sinestetica dello stesso motivo: « Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero ». La brevità della ripresa non è casuale, ma funzionale in senso prolettico alla seguente evocazione delle forme rocciose che si collocano in una dimensione non solo spaziale e ritmica (cioè musicale) ma in quella analogica della presenza umana rarefatta e armonizzata: il canto, le onde, e l'eco delle voci allungate corrispondono infatti simmetricamente all'arco solitario e al semicerchio dentato: « Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all'agguato dell'infinito, io  non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci.

E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall'eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute ». Segue una pausa riflessiva imperniata sull'immagine di un silenzio, e arricchita di riprese anaforiche che reintroducono le presenze femminili: « Il canto fu breve: una pausa, un commento improvviso e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte! ». Ma è nella chiusa dell'immagine, notevole per la sua essenzialità, che la pagina raggiunge il suo punto di maggior ricchezza espressiva, sia in senso lirico-psicologico che spaziale e temporale: « Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo ».

In questo rapido diminuendo musicale, corretto da un'accensione cromatica, si avverte implicitamente il peso multiplo di tutte le immagini precedenti, dall'oggettivazione fisica all'identificazione di tipo mistico, fino alla dialettica fra l'io del poeta e il mondo naturale o umano circostante. Il peso di questa catena di corrispondenze allaccia la prima chiusa dell'immagine alla ripresa finale, dove ricompare l'immagine-guida, la Falterona: « Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed elegante, semplice e austero, veramente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su una costa una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi della Falterona, spoglia di macchie, che scopre la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva bruciano le erbe del camposanto ».

Qui la chiesa prepara la croce montana; il sasso intero anticipa la Falterona spoglia e sassosa, e la fiamma pallida finale si riallaccia alle precedenti luci delle finestre nella valle; le luci a loro volta preparano la simbiosi analogica e musicale fra le finestre accese del paesaggio e la luminosità delle figure femminili dai capelli vegetali che compaiono nell'immagine seguente: « Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese; così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu ».

E cosi via. In tutta la seconda parte poi, il Ritorno, la dilatazione e concentrazione dell'immagine è impiegata sistematicamente attraverso effetti musicali intensivi, con funzione prospettica, come rime e riprese ad arco, sinestesie multiple, sintagmi ripetuti circolarmente ecc. Come esempio dell'armonia dinamica di questa parte si può scegliere un'immagine che Campana considerava emblematica, dandole il significato dialettico di « sopravvivenza nella morte », e cioè: « Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla roccia cola un filo d'acqua in un incavo. Il vento allenta e raffrena il morso del lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d'oro ». In questa immagine il simbolismo concettuale si fonde col simbolismo naturalistico tanto caro a Campana, e ad essa si collega una frase di senso nietzschiano delle Storie, variamente interpretata: « Nel giro del ritorno eterno vertiginoso l'immagine muore immediatamente »; ma anche una del Taccuinetto faentino, cioè: « Nel fuggire la stretta oppressione dei contrari si crea l'arte ».

La prosa e la poesia campaniane sono legate da un'interdipendenza molto stretta che abolisce fra loro il confine logico; tuttavia è ai versi successivi alla Verna che si addicono le esplicite dichiarazioni fatte da Campana al Pariani sulla qualità musicale e cromatica delle sue composizioni, come: « Sono note musicali che facevo io ». « Sono stati di fantasia. Sono colorismi più che altro. Sono un effetto di colori di armonia; una armonia di colori e di assonanze ». « Il verso libero futurista è falso, non è armonico. È una improvvisazione senza colori e senza armonie. Io facevo un poco di arte ». « Cercavo armonizzare dei colori, delle forme. Nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi ».

Questa linea di evoluzione guida la « costruzione pittorica di piani » della Verna verso le premesse tonali di Genova (l'espressione « costruzione pittorica di piani » è di Campana, e si riferisce in senso elogiativo e proiettivo al Binazzi). La prima di queste premesse è rappresentata dalle dissoluzioni per risonanza del Viaggio a Montevideo, che è costruito su cromatiche intense; basti citare i vv. 1-17: « Io vidi dal ponte della nave / I colli di Spagna / Svanire, nel verde / Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra colando / Come una melodia: / D'ignota scena fanciulla sola / Come una melodia / Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola... / Illanguidiva la sera celeste sul mare: / Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale / Varcaron lentamente in un azzurreggiare.../ Lontani tinti dei varii colori / Dai più lontani silenzii / Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave / Già cieca varcando battendo la tenebra / Coi nostri naufraghi cuori / Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare ». 

Seguono il breve vortice luminoso e musicale della Fantasia su un quadro d'Ardengo Soffici, e il quieto rispecchiamento speculare delle immagini nelle due quartine di Firenze. Un'espressione campaniana della seconda Firenze (in prosa) e cioè: « Pure nostra è la divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche! » si attaglia non solo alle quartine precedenti, ma anche all'armonia simmetrica dei vari quadri e piani spaziali di Faenza. Questi piani sono costruiti sull'immagine-guida della « grossa torre barocca », che percorre la prosa comparendovi tre volte in un arco iconico, all'inizio, a metà e alla fine. L’arco è incorniciato da una sinestesia uditiva di tipo dinamico, come: « Nell'aria si accumula qualche cosa di danzante.

Ascolto: la grossa torre barocca ora vuota mette nell'aria un senso di liberazione »; e anche da una rete di scorci cromatici dai toni solari (bianco, luce) che sono posti in dialettica coi toni sordi del rosso e dell'ombra. Attraverso l'onda fonica circolare di Barche amarrate e i toni dissonanti della prosa Dualismo, il viaggio dell'immagine tocca i leitmotiv sinestetici di Sogno di prigione (il « silenzio di fuoco »,  i bianchi e i viola, le « canzoni bronzee » il « blu del sonno » inquadrato pittoricamente in « rabeschi di sbarre bianche ») e poi si ferma nei silenzi argentati di Pampa, che dilatano le presenze e la dimensione psichica del viaggio in direzione spaziale e viceversa.

Una nota dissonante è rappresentata dai colori (o suoni) stridenti di Passeggiata in tram in America e ritorno, sospesi fra la musica, la sinfonia sorda e il rombo del mare: « Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enormi palazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. Corro col preludio che tremola si assorda riprende si afforza e libero sgorga davanti al molo della piazza densa di navi e di carri. Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d'azzurro: nel mentre il mare tra le canaglie del molo come un fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce verso l'eternità del mare che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell'orizzonte ». In Scirocco la dialettica fra gli elementi vento e città turrita viene ricomposta in senso cromatico: sia dal timbro dei bianchi di luce e dei rossi, sia da quello musicale delle sinestesie (ad es. « Sbiancava nel cielo fumoso la melodia dei suoi passi »).

Un esempio di valore interamente ritmico delle dilatazioni cromatiche e spaziali è costituito dagli scorci di Crepuscolo mediterraneo; a partire da questa composizione diventa appropriato, per l'estetica campaninana, il concetto europeo di Klangfarbe teorizzato da Kandinskij proprio in quegli anni: il colore che risuona musicalmente, in senso insieme psichico e spaziale, è usato infatti da Campana come un leitmotiv dinamico, vagamente surreale, e crea alla fine del brano un vero sipario musicale, formato dalla catena luce elettrica-notte-oro-verde metallico-bianco minerale-oro crepuscolare-notte-profumi-accordi: e qui bisogna rimandare all'integrità della prosa, che non permette citazioni isolate. Nell'immediato antecedente di Genova, Piazza Sarzano, gli stati analogici della materia e del colore hanno un senso più equilibrato, e tendono a riportarsi a una dualità interdipendente di coppie; e cioè, da un lato la dialettica dinamica fra calma lineare e moto vibrante; dall'altro quella cromatica fra il rosa-bianco di luce o d'acqua — che corrisponde alla calma lineare — e il rosso minerale-verde metallico, che corrispondono al moto vibrante.

A questo tessuto cromatico sono funzionalizzate le numerose anafore e riprese musicali che avvolgono la prosa (o forse sarebbe più giusto dire: il poètne en prose) e che la rendono autonoma dal suo senso logico, come ad esempio questo: « Un vertice colorito dall'altra parte della piazza mette quadretta, da quattro cuspidi una torre quadrata mette quadretta svariate di smalto, un riso acuto nel cielo, oltre il tortueggiare, sopra dei vicoli il velo rosso del roso mattone: ed a quel riso odo risponde l'oblio ». Oppure: « Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate ». « Le grandi case rosse tra i meandri verdi continuano a illudere il crepuscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un ritmico strido: un fanciullo a sbalzi che fugge melodiosamente ». « La quadricuspide vetta a quadretta ride svariata di smalto mentre nel fondo bianca e torbida a lato dei lampioni verdi la lussuria siede imperiale. Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l'orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all'eternità della piazza » (Il finale, come si vede, è di tipo decisamente pittorico-metafisico, alla Carrà).

A questo punto le strofe di Genova non segnano un punto d'arrivo, ma piuttosto una sintesi, sempre dinamica, delle tecniche di restituzione nel senso conoscitivo pro-prio dell'immagine nella sua presenza memoriale. Queste tecniche si fondono qui in una strutturazione verticale delle catene d'immagini, e nella loro fissazione spaziale, che è ottenuta a volte mediante frantumazioni, riverberi e sfaccettature sintattiche e foniche, a volte attraverso riprese circolari variate. Naturalmente, e qui più che mai, la parola « fissazione » si deve intendere in senso evolutivo, non statico, nel senso cioè parallelo e complementare alla dilatazione dell'immagine stessa. Incidentalmente, è in questo senso di sintesi formale dinamica, che rinvia sempre a un « oltre », che va intesa la frase del Taccuinetto: « Il valore dell'arte non sta nel motivo ma nel collegamento e quindi nel punto di fusione si ha la grande arte: e la grande arte come la grande vita non è che un ponte di passaggio ». Il carattere di sintesi di Genova, per quanto armonioso, è estremamente composito e stratificato, perché tutte le sette strofe, tranne l'ultima, derivano da precedenti composizioni del Quaderno; ma questo non torna a svantaggio della loro ricchezza analogica, perché lo spazio biografico e poetico che separa i due ordini di composizioni ne rende il rispettivo significato molto diverso, anche nei versi che materialmente si corrispondono.

Il Parronchi ha studiato gli effetti pittorici di queste catene cromatiche con risvolti musicali nel suo saggio del 1953, Genova e il senso dei colori nella poesia di Campana; la loro caratteristica principale è che aderiscono al ritmo vario dei versi lunghi, e che sono rappresentate da: verde statico-bianco dinamico nella prima strofa; rosso dinamico e verticale (la torre) e verde lineare (le terrazze) nella seconda strofa, fusi alla fine nel canto di Genova; mentre nella terza strofa ai piani-colore precedenti si sostituiscono delle costanti umano-ambientali, nella progressione: donne-città illuminata-mare-prostitute-musica. Quanto alla celebre quarta strofa, è stata spesso citata come frutto esemplare della dissociazione psichica e linguistica di Campana; ma le rifrazioni visivo uditive multiple e gli effetti di  Klangfarbe, che è  impossibile citare uno per uno, non hanno, così mi sembra, un senso « dionisiaco » e disgregante, quanto un valore di riverbero ascensionale e musicale (l'inizio è appunto « Quanto melodiosamente »... ecc.), e a formarlo concorrono in gran parte gli elementi vento-sera-vicoli-preludii, uniti alle gamme cromatiche del bianco marino (palazzi, mare, cielo) e del rosso urbano (le ali rosse dei fanali). Nella quinta strofa le immagini si allargano invece in cerchi concentrici sempre più ampi, e l'arco panoramico porto-mare-cielo si inquadra in un bianco luminoso, legato all'oro crepuscolare e ai suoni della città tonante; mentre la sesta strofa è guidata da un'ondulazione cantante e omofonica di aggettivi, che rientrano nella zona cromatica dell’ombra silenziosa (vasto, vanito, vegliato, vivo, vasto).

Nell’ultima strofa riprende e si accentua il movimento di confluenza sinestetica delle presente coloristiche e musicali precedenti: la catena è qui quella matrona-città mediterranea-grigi rosei-ombra-mare ombra-luce stellare-notte-silenzio, e giustifica, nella sua natura aperta e ambigua, ma non certo cupamente involuta, il messaggio che Campana aveva assegnato a Genova: « E tutto finisce nel più chiaro giorno di Genova e la discussione sull’arte mediterranea ». La struttura iconica di Genova, così attenta, rende ragione anche di due frasi programmatiche del Taccuinetto: « Ad ogni poesia fare il quadro » e « Il motivo e la forma del collegamento Suppone l’immagine ». La prima frase definisce con esattezza anche la natura di Bastimento in viaggio, un « frammento » ritmato da un moto cromatico e musicale costruttivo ma chiuso e ciclico, e dalla cornice spaziotemporale sinestetica.

Il timbro dell’analogia musicale è già pieno nell’immagine del primo verso (« L’albero oscilla a tocchi nel silenzio ») e crea una dimensione durativa orizzontale, scandita da due gamme cromatiche: il verde crepuscolare e l’oro geometrico delle corde, che incornicia il globo bianco della lanterna, la cui qualità musicale è suggerita per negazione (« un globo bianco di fumo che non esiste come musica sopra del cerchio coi tocchi dell’acqua in sordina »). Un altro esempio di scorcio spaziale e musicale che assorbe anche il cromatismo è Dietro la sera angelica, i cui versi sono costruiti su un’alternanza di tocchi ambientali posti fra loro in una interazione analogica; lo spazio è vasto all’inizio, e poi via via si restringe nella tensione del cerchio urbano, del porto e dello strumento musicale: « Dietro la sera angelica / Tra le quadrate case / Addolcita nel rantolo / Di un’ancora in un porto / Filtrando sul granito / Tra le quadrate case / La musica di un’armonica ».

Un esempio di clima dichiarativo e intenzionalmente simbolico sovrapposto alla fantasia pittorica è invece Toscanità, dove un imperfetto adeguamento della materia cromatica (la volta gialla sopra il velluto nero, le treccie di una trecciaiola che intreccia pagliuzze d'oro) alla intenzionalità ideologica produce appunto una suggestione, « un'armonia di colori e di assonanze» di tipo magico, ma non un coerente sviluppo analogico e simbolico dei dati d'immagine. Altre volte, come in Prosa in poesia, il musicalismo nostalgico e ripetitivo, concentrato nel soggetto (qui l'isola Maddalena) è in funzione del moto ora ascendente ora discendente delle immagini, che corrispondono prima alla partenza, poi al ritorno; mentre la gamma cromatica centrale è fissa su un tono (qui il verde-oro) anche se questo tono viene riverberato in più sensi (geometrico, atmosferico, di sfondo ecc.); ci sono poi i toni contrastanti, come il rosso, che introducono la presenza femminile. Questo colore ha la stessa funzione femminile, frequente già nella Notte e nel Quaderno, in Impietrata di sangue, un frammento di sette versi dove però la connotazione del rosso, rafforzata da un accenno di verde, è di tipo sadico-sessuale ed espressionistico, e si fonde col senso di moto serpentino e di musicalità angosciosa di questa visione, che è trattenuta al di qua del grottesco proprio dalla musicalità controllata: « Impietrata di sangue / Nei vetri del caffè / Bruna i capelli rossi / Le mammelle spuntate / Su un marciapiede rosso che si piega / L'occhio più verde, il rosso che scivola / Sul rosso marciapiede che si piega ».

Il cromatismo espressionistico, che qui è monocorde, diventa impressionistico e delicatamente sfaccettato nel cerchio ritmico immobile di Invio, dove l'erotismo si tinge di cadenze simbolizzanti e allusive che fanno pensare addirittura al primo Lorca: « L'acqua ha la criniera d'argento / L'amore è senza ritorno / Bianca cavalla d'amore / Il tuo tosone dorato / Amore senza ritorno ». Un senso più accentuatamente simbolico si ritrova negli omoteleuti musicali e nella gamma cromatica contrastata di Chiacchierata serale, specie in immagini anacolutiche e liberamente associative: « Così passavamo davanti alle grandi lettere nere dell'insegna colorata e quando ci volgemmo dalla vetrata ci parve una ragazza leggera e bianca passare davanti al cristallo e forse agli angoli della bocca chiusa e amorosa davanti all'insegna dell'albergo dell'Agnello  ». Questo tipo di immagini ricompare in Andavo poi per la via..., che conserva gli stessi nuclei significanti di Chiacchierata serale: cioè l'albergo, la grande piazza, le ragazze dietro i vetri del caffè ma qui prendono corpo le sinestesie, materiche, cromatiche e psicologiche, con un effetto di libertà associativa non inferiore a quello della prima composizione.

Così, all'inizio, l'associazione di oro e di bianco suggerisce il silenzio serale della città:   « Andavo poi per la via che le Alpi si erano estinte. L'oro della città italiana montava dalla pianura, il monolite bianco dell'obelisco » ecc.; mentre la catena cromatica che segue, e che inizia con bianco-bianco-rosso, segna il passaggio ad un campo organico più denso, e alla dilatazione reciproca delle immagini accavallate ritmicamente, che culminano nel finale anacolutico tinto di un verde surreale: « Poi nell'arco romano la luna bianca e gli angeli gotici che la luna bianca insanguinava agli angoli della bocca, e ancora dei profumi di muschio e la seta rosa dei volti, troppo fieri di essere pallidi, forati di stelle troppo azzurre e ancora davanti agli ottagoni rossi del castello la ragazza dagli orli delle labbra rosse che passò davanti al cristallo come si leva un'ombra all'angolo della via curva, all'insegna dell'albergo dell'agnello, davanti alla casa all'angolo della grande piazza. Dei lampioni erano seminati nel folto delle colline. Il vecchio Po scorreva sotto i ponti, passavano delle sartine coi cappelli sull'orecchio ma io non sentivo il trillo e gli occhi nel mio piccolo amore. Il mio piccolo amore ha gli occhi i piccoli piedi verdi: non per cercarla nella grande piazza che non sembra vera, non per vederla come una volta dietro i vetri del caffè ».

A questi esperimenti di concordia discors degli ultimi anni creativi di Campana sembra riferirsi l'annotazione del Taccuinetto faentino, probabilmente anteriore: « Nel fuggire la stretta oppressione dei contrari si crea l'arte». Una riaffermazione della ricerca musicale che guidava le « figure di rabesco » di questi frammenti, o se vogliamo capricci, si trova nel brano dall'avvio dannunziano Nei gridi rauchi..., dove ricompare la prima immagine di Toscanità, la volta gialla sopra il velluto nero; qui la sinestesia diventa elemento strutturante dei piani d'immagine, in ogni senso, ma soprattutto in senso dinamico. Si crea infatti una serie di movimenti ascendenti e discendenti, sostenuti da una carica ritmica che quasi sfocia nel cantabile, e da due ordini di piani, quelli geometrici o spaziali (i cubi, il cielo, il rabesco, la volta) e quelli materici o cromatici (i violacciocchi, il giallo-nero, le treccie-oro): « Nei gridi rauchi delle automobili la polvere d'oro delle torri stempera i profili di velluto tra i cappelli di paglia nel teuf-teuf multicolore mentre cercando l'arabesco e la musica da pertutto cattolico cielo tra i cubi trovo sola figura di rabesco l'architettura di una volta gialla sopra il velluto nero e le treccie di una trecciaiola che intreccia pagliuzze d'oro ». Questi frammenti restituiscono con evidenza poetica il processo dinamico dell'immagine, quella morte subito superata dalla rinascita che si è visto espressa nella formula, a sua volta concettuale e musicale, delle Storie, e cioè: « Nel giro del ritorno eterno vertiginoso l'immagine muore immediatamente ».

Quelle associazioni iconico-coloristiche di origine biografica e memoriale, che Campana definisce « ricordo che non ricorda nulla » hanno un carattere spontaneo che emerge da un passo contenuto in una lettera a Sibilla Aleramo, da cui è stata estratta la prosa dal titolo Davanti alle cose... , e cioè: « Una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una vecchia lanterna di ferro che illuminava la parete di granito. Fuori la via metteva sulla costa pietrosa che scendeva dall'altipiano al mare.

Questo ricordo che non ricorda nulla è così forte in me! La costa bianca di macigni aveva bevuto il tramonto cupo e rosso che chiudeva l'isola e ora colla lanterna rugginosa solo le stelle sull'altipiano brillavano a me e a Garcia. Io baciai la parete di granito senza pensare e non so ancora perché ». Il carattere più concettuale e costruito di altre immagini più sinestetiche e astrattive è invece ben rappresentato da un altro passo delle Storie, quello sull'arte crepuscolare di senso mistico: « L'arte crepuscolare... in cui tutto si affaccia e si confonde, e questo stadio prolungato del giorno aiutati dal vin de la paresse che cola dai cieli meridionali e nella gran luce tutto è evanescente e tutto naufraga, sì che noi nel più semplice suono, nella più semplice armonia possiamo udire le risonanze del tutto come nelle sere delle stridenti grandi città in cui lo stridore diventa dolce... perché nella voce dell'elemento noi udiamo tutto ».

Le quattro liriche per Sibilla Aleramo si muovono nella stessa direzione concettuale, arricchita però di quei processi puramente lirici che in parte si sono già incontrati, e in parte sviluppano ora una nuova forza: cioè l'innalzamento e la rifrazione dialettica dell'immagine con effetti di astrazione temporale, le linee musicali e cromatiche in funzione strutturante, e spesso addirittura coincidenti, con le immagini-guida, ecc. In queste liriche, tutte del 1916, l'analogia musicale sviluppa una forza portante decisa e insieme delicata, compenetrando i piani spaziali dell'immagine con gli elementi umani evocati, entrambi molto rarefatti, in senso sia quantitativo che sintattico ed espressivo; è in questo processo che si presagisce l'analogia essenziale, e qui Campana ha verificato quel « più puro amore delle luci e delle forme » che aveva attribuito a Dianora della Giaconi, ma in senso chiaramente proiettivo e autobiografico.

Questi dati risaltano fin dalla prima lirica, I piloni fanno il fiume più bello, dove l'immagine-guida della donna è sospesa in un accordo cromatico di azzurro-argento che oscilla dalla luce all'ombra, e si allarga nel richiamo mitologico della bionda Cerere. Non ne risulta però un effetto di dispersione, perché lo spazio evocativo è inquadrato negli archi, cioè in una cornice di tipo geometrico; ed è questa cornice ad arricchire, contenendola, la forte musicalità iterativa e idealizzante: infatti più bello (-a) è ripetuto cinque volte, la tua figura tre volte, la rima centrale è pura-figura:  « I piloni fanno il fiume più bello / E gli archi fanno il cielo più bello / Negli archi la tua figura. / Più pura nell’azzurro è la luce d'argento / Più bella la tua figura. / Più bella la luce d'argento nell'ombra degli archi / Più bella della bionda Cerere la tua figura ».

Il senso di innalzamento psicologico e spaziale dell'immagine femminile è accentuato anche dall'uso del presente assoluto, metatemporale, che si potrebbe definire l'aoristo di un ricordo estatico, e che scompare per far posto a tempi più storici nelle tre liriche successive. Nella seconda, Sul più illustre paesaggio, l'immagine femminile diventa una presenza memoriale, filtrata attraverso metafore sinestetiche che la assimilano al carattere illustre di un paesaggio fiorentino suggerito dalle tre linee portanti luce-acqua-ponte, delle quali la prima, interamente luministica, è la principale.

La trama musicale è qui fondata sull'anafora e le riprese sillabiche, e si fa più sommessa ma più avvolgente (paesaggio-passo-pantera; vergine-velluto-illustre-luce). L'effetto creato è quello di un'immagine spaziale e cromatica: « Sul più illustre paesaggio / Ha passeggiato il ricordo / Col vostro passo di pantera / Sul più illustre paesaggio / Il vostro passo di velluto / E il vostro sguardo di vergine violata / Il vostro passo silenzioso come il ricordo / Affacciata al parapetto / I vostri occhi forti di luce ». Per inciso, si può notare che l'immagine iniziale e la sua atmosfera torneranno di lì a poco, ancora più rarefatte, in Giugno di Ungaretti, nei versi 26-31: « Librata / dalle lastre / squillanti / dell'aria sarai / come una / pantera ».

Nella terza lirica, In un momento, la presenza femminile si sovrappone alla voce del poeta che evoca le loro vicende dolorose, e la sospinge in uno sfondo di pathos che non ne spegne l'immagine, ma anzi la vitalizza in questa estrema comunanza, che Campana chiama di viaggio, cioè di esperienza sentimentale; un'esperienza dove la speranza di rinascita comune è consumata dalla sua stessa eccessiva intensità, e si capovolge nel rifiuto amaro e ironico del P.S., « E così dimenticammo le rose ». Le rose sono il simbolo, insieme classico e romantico-decadente, dell'amore come creazione comune di bellezza; ma questo motivo, già usurato dall'ossessione floreale del liberty in senso ornamentale e sensuale, acquista nuova vita lirica attraverso un processo che Campana attua non diciamo istintivamente, ma certo non a freddo; cioè quello dell'ambiguità e della ricchezza d'informazione, ottenuta attraverso l'usura verbale dell'immagine, che viene ribadita in termini ossessivi dal punto di vista quantitativo (undici volte) ed enfatici o allegorici dal punto di vista espressivo (« Erano le sue rose erano le mie rose » « Le mie rose e le sue rose » « Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose », ecc.).

Il timbro pesante di queste immagini ha chiaramente un'origine biografica non superata, la nota passione intricata in violenze sadomasochiste che anche l'Aleramo evocava, nelle lettere a Campana e nel Passaggio, riprendendo l'immagine delle rose distrutte e « calpestate presso l'orlo della sua veste » (mentre Campana, per lettera, si limitava ad accenni come « Sono tre mesi che ci strappiamo di mano i resti del nostro amore ». Le immagini dell'ultima lirica, si allontanano dalla zona memoriale più cruda, e segnano l'ultimo movimento del viaggio, il ritorno, una riassimilazione nostalgica del ricordo femminile nell'atmosfera della città madre, Firenze. Quest'ultimo movimento musicale e psicologico molto breve è affidato ad un'onda sintattica di tipo insieme classico e complesso: la struttura è infatti a sestina, ma i vv. 3-5 sono sostituiti su uno schema sinestetico, cioè su un doppio soggetto-oggetto:  « Vi amai nella città dove per sole / Strade si posa il passo illanguidito / Dove una pace tenera che piove / A sera il cuor non sazio e non pentito / Volge a un'ambigua primavera in viole / Lontane sopra il cielo impallidito  ».

Il carattere della lirica, di onda fonica sempre più dilatata in senso temporale, ha fatto sì che qualche critico vi riconoscesse addirittura una sintassi barocca ed  ermetica e qualche altro, per reazione, ha ridotto il tessuto compositivo dei versi ad influssi retroattivi, cioè crepuscolari e simbolisti in senso dannunziano. Queste soluzioni estremistiche, di cui il testo offre solo le sollecitazioni, dimostrano la flessibilità e l'ambiguità interpretativa dell'ultimo Campana, cioè la funzione intensamente vitale di quest’ultima produzione (gli anni 1916-1917).

Una struttura analogica più complessa è quella di Arabesco-Olimpia prosa che Campana definiva una delle sue più belle, oltre che « un tentativo di armonizzare dei colori, delle forme », e la cui stesura gli richiese un mese. La prosa è strutturata in due catene d'immagini a ritmo binario alternato (AB-AB), che riconvergono l’una nell’altra attraverso un rispecchiamento della tensione interrogativa, propria del primo elemento della catena, nell’affermazione di una presenza assoluta che è propria dell’ultimo elemento, dialettico a sua volta nei confronti della polisemia cromatico-musicale del primo. Questo primo elemento, cioè l'immagine interrogativa iniziale, è: « Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse perché pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? »; e l'ultimo elemento, nel quale il primo si rispecchia, è: « Dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù ».

Lo stesso rispecchiamento, ma in forma invertita (cioè l’affermazione precede la tensione interrogativa) unisce gli altri due elementi della catena d'immagini; l'attimo sospeso della frase: « Perché si rivela un viso, c'è come un peso sconosciuto sull'acqua corrente la cicala che canta  » e la fluidità spaziale e cromatica della frase: « Se esiste la capanna di Cézanne pensai quando sui prati verdi tra i tronchi d'alberi una baccante rossa mi chiese un fiore quando a Berna guerriera munita di statue di legno sul ponte che passa l'Aar una signora si innamorò dei miei occhi di fauno e a Berna colando l'acqua, lucente come un secondo cadavere, il bello straniero non poté più a lungo sostare? » Fra queste due coppie di elementi si inseriscono con funzione stabilizzante due pause ritmiche affermative, e cioè, per la prima coppia: « Dei fiori bianchi e rossi sul muro sono fioriti », e per la seconda « Fanfara inclinata, rabesco allo spazio dei prati, Berna ». Anche le costanti cromatiche della catena hanno una disposizione di tipo binario, con arricchimenti di colori complementari.

Così nella prima sequenza di immagini, alla triade oro-rosso-perla, con centro sul rosso, fa seguito la triade minore bianco-rosso-acqua mentre la rete di omofonie musicali si incentra su ripetizioni di senso ogni volta diverso (perché, fiori, prima) o su assonanze multiple (viso-peso; corrente-cicale-canta). Anche nella seconda sequenza d 'immagini, le costanti cromatiche rispettano e sviluppano la forma triadica prima attraverso la gamma verde-rosso-luce d'acqua, legata alle due precedenti per il rosso-perla e il rosso-acqua; mentre, nella sequenza finale, che è costruita su immagini assolute intrecciate musicalmente, la gamma è formata da due gruppi, complementari dei precedenti ma di diversa qualità espressiva: il verde-bianco-rosso e il blu-rosso-perla; quest'ultimo, legato al precedente dalla metafora fiori-occhi, si riallaccia in un arco armonico alla triade iniziale oro-rosso-perla. Il passo è: « Come la quercia all'ombra i suoi ciuffi per conche verdi l'acqua colando dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle rosse perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù  ». È una musicalità che riassorbe non solo le successioni spaziotemporali, ma anche le sinestesie nelle presenze assolute delle immagini, e il suo effetto non si può definire esplosivo in senso espressionistico, ma neppure sfumato in senso impressionistico; è piuttosto un effetto « implosivo » cioè di tensione armonica forte e dinamica, ma contenuta dalla stessa altezza espressiva e stilistica del testo.

La  « costruzione pittorica di piani » che Campana proiettava criticamente sull'amico Binazzi risulta esatta per definire questo tipo di prosa polifonica, se nel concetto di piani si include quello di forme portanti, cromatiche e musicali, e se l'aggettivo pittorica si dilata nel senso concettuale di analogica. I tre abbozzi e stesure parziali di Arabesco-Olimpia, che non stiamo qui a citare per esteso, ne anticipano la polifonia armoniosa in forma semplificata; i rapporti fra le immagini sono più lineari, la sinestesia predomina sull'effetto di presenza assoluta, e la successione spazio-temporale si mantiene nel corso logico della ricostruzione memoriale; le catene binarie e la dilatazione-concentrazione delle immagini sono appena accennate; i nessi sintattici e verbali mantengono la tradizionale distanza fra poeta e lettore, che deriva dalla consequenzialità narrativa ancora presente.

Così nel frammento più compiuto, Se penso a un tramonto... , i legami esplicativi sono appunto « se penso, mentre, come, guardate, non vorrò sostare »; in Fanfara inclinata è interessante un'immagine metaforica di gusto surreale, poi scomparsa, quella del torrione nano dell'alba, forse eliminata per il suo carattere di « punta » simbolica troppo isolata. L'ultimo frammento, Se tra i vostri occhi..., è notevole per il suo carattere di autocitazione fatta dal punto di vista del lettore ironico; questo è il senso dell'ultima immagine, quasi proustiana: « e dei fiori bianchi e rossi sono fioriti (ilarità generale) nel tempo che cammina ».

Questo atteggiamento ironico e ipercosciente dà la misura della consapevolezza artistica dell'ultimo Campana, che è sì il Campana che aveva dichiarato nel 1915 al Novaro di non poter più scrivere per lo stato dei suoi nervi e di avere desistito dalla letteratura sotto tutte le forme; ma è anche il Campana che ribadiva un anno dopo, nel 1916, allo stesso Novaro: « D'altra parte quel pochissimo di attività che ultimamente ho mostrato basta a provare che io seguo logicamente una via » (e si riferiva quasi certamente ad Arabesco-Olimpia, scritta alla fine del 1915). 

Questa ipercoscienza si ritrova ne L'infanzia nasce..., interamente trasformata in armonia formale e concettuale. È l'ultima, bellissima composizione di Campana — ultima in senso logico, se non sicuramente cronologico: del 10 gennaio 1917 — e la critica è stata per una volta concorde nel riconoscervi il messaggio estremo dell'arte degli Orfici, l'ultima illuminazione di conoscenza. Certo è il punto più vicino a un ideale terminus ad quem di una poetica sempre in divenire e basata sulla dialettica dell'autosuperamento. Si può dire che L'infanzia nasce... segna una sorta di cristallizzazione dinamica, fondata sulla conversione reciproca del tempo e dello spazio memoriale in immagine; si ha quindi uno stato di presenza assoluta che deriva dal convergere di dissoluzione e ricostruzione, ma in senso più concettuale; il cromatismo musicale e sinestetico approda a uno scavo profondo nel tempo mitico della metafora, cioè ad una esplorazione nel senso delle associazioni liriche. Di questo scavo Campana ci dà il risultato teorico più che i termini di passaggio, che sono rimasti inediti, non sappiamo se nel senso di non pubblicati o in quello di non scritti, non fermati; ma è comunque attraverso questa esplorazione che si chiarisce la natura della « conoscenza eterna di poco tempo » raggiunta qui, e così ricca di nuove analogie proustiane, che non sono certo spiegabili cronologicamente.

Questo è il frammento: « L'infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacché in uno strano eco s'immobilizza e s'allontana dai giorni; anzi nasce proprio da una cosa specchiata con le ridenti spighe gialle e con i campanili conoscenza eterna (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre sulla riva di un giorno. » Qui mi sembra che Campana superi il punto limite toccato in Arabesco-Olimpia fra dissoluzione e ricostruzione delle immagini, e che giunga ad un ritorno, ad un riconoscimento molto umano dell’io, del microcosmo personale, nel sé, il macrocosmo naturale. A questo punto si può parlare di visione, cioè di identità fra immagine, visione e tempo ciclico, senza scomodare il fantasma di Rimbaud, di Nietzsche o di certo misticismo dannunziano della nuova nascita: questa riva di un giorno è un approdo tutto campaniano, che pure non escludeva, in sé, una nuova partenza, e, al limite, una nuova Notte.