Corrispondenti di Dino Campana

 

di Franco Matacotta


La Fiera Letteraria, domenica 31 Luglio 1949

 


 

Una quarantina di lettere di gente nota e ignota che, insieme con i documenti di un duello preparato ma non più avvenuto, sono anche la testimonianza dello sforzo compiuto da quasi tutti gli amici per alleviare le sofferenze del poeta.

Del carteggio campaniano del quale già detti notizia su queste medesime colonne, le lettere degli amici e dei letterati ricevute da Dino successivamente alla pubblicazione dei «Canti Orfici», tra gli anni 1915-17, costituiscono un singolare documento dell’affettuosa risonanza suscitata dal libro e valgono nello stesso tempo a stabilire una storia esatta della vita e degli umori del poeta negli anni precedenti al suo naufragio e alla sua reclusione. Le lettere vanno da un laconico biglietto del Verga, che lo ringrazia dell’omaggio dei «Canti», ad alcune parole piuttosto forti del Panini [ndr: evidente errore di stampa per Papini] e del Soffici in merito alla nota sparizione di taluni manoscritti di Dino, alle brevi e desolate esortazioni del padre e della madre ai consigli affettuosissimi del Binazzi, dagli appuntamenti di sconosciute ammiratrici, agli esaltati sproloqui di una signora inglese che si era messa in mente di convertire il poeta alla teosofia, dalle bizzarrie del Boine alla equilibrata amicizia del Cecchi.

Una quarantina di lettere di gente nota e ignota che, insieme coi documenti di un duello, preparato ma non più avvenuto, sono anche la testimonianza dello sforzo compiuto da quasi tutti gli amici per alleviare le sofferenze del poeta in quegli anni di guerra e il tentativo di strapparlo in qualche modo al suo feroce destino. Uno sforzo discreto, sommesso, sovente imbarazzato: che doveva tener conto, evidentemente, della particolarissima natura di Dino, del suo carattere di uomo, quanto mai complicato e difficile.

All’inizio del 1915 Dino è a Marradi, rimpatriato da Torino perché trovato dalla polizia sprovvisto di regolari documenti di identificazione. Non sono passati nemmeno quattro mesi da questo ritorno, ed ecco riafferrarlo il demone della irrequietezza e il desiderio della fuga. Di nuovo comincia a sentirsi perseguitato dai compaesani, e decide di ripartire, meta questa volta la Francia. Ripassa per Torino, sale a Domodossola, e là, innanzi di varcare la frontiera, gli scoppia in cuore il primo nucleo lirico di quella che sarà la sua Canzone dell’Italia, cioè il Canto proletario italo-francese. Come ho già scritto altrove (vedi «Taccuino di Dino Campana», Edizione Amici della Poesia Corso Cavour 9, Fermo, 1949), l’avvio di quella canzone è in francese ed è scritto sulla pagina della Ballata degli Impiccati delle Oeuvres Complètes di F. Villon. Traversata la frontiera, da Villeneuve va a Chillon e a Losanna e di là, traversato il Lemano, si fissa a Ginevra, dove lo troviamo nell’aprile, operaio straordinario presso il Comitato delle Società Italiane, nella Grand’Rue.

Non ha domicilio preciso, si fa scrivere fermo posta.
Ma il lavoro è insicuro - durerà infatti poco più di un mese – onde Dino pensa di sollecitare l’aiuto di Francesco Chiesa che vive e insegna a Lugano, tanto più che le possibilità di andare in Francia vanno sfumando di giorno in giorno. E Francesco Chiesa gli risponde:

 

Mio caro signore,
conoscevo il suo nome, nulla ancora dei suoi scritti. Ma indovino e sento attraverso la sua lettera, la generosità del suo animo e la tristezza della sua vita. In una sola cosa ha torto; nel definire, così genericamente, la sua patria «il paese di tutte le vigliaccherie». Vede, io non la conosco, eppure so ch’Ella merita d’essere confortato e aiutato. Ma come? Non le risposi ieri, appena ricevuta la sua cartolina, per poterci pensare. Purtroppo non sono venuto a capo di nulla. Qui nel Canton Ticino ad anno più che inoltrato, non ci sono posti nell’insegnamento. Potrei scriverle una parola di raccomandazione da presentare a due o tre amici che ho a Ginevra. Vuole? O se Ella ha in mente che io possa giovarle in un modo determinato, me lo scriva. In ogni caso mi dica francamente che cosa è avvenuto in Italia: io so comprendere e apprezzare anche ciò che non entra nel giro delle mie idee ma bisogna che io sappia. E cerchi di essere superiore alla fortuna: non solo nei versi che compone, uno si sente ed è poeta. Facili consigli Ella dirà. Forse: ma io credo fermamente che chi è ricco di vita interiore non debba arrendersi al primo assalto. La saluto cordialmente.

FRANCESCO CHIESA


Il 6 maggio Dino viene licenziato dal Comitato e riceve il ben servito: «Nous avons occupé Dino Campana et avons été tres satisfaits de son travail» Dino non può fermarsi più oltre a Ginevra. L’Italia sta per entrare in guerra ed egli, fervente interventista, decide di rimpatriare. Ha Scritto frattanto a Renato Serra per un impiego qualunque in qualche parte. E Serra gli risponde da San Vito al Tagliamento:

 

Egregio signor Campana,


«... sono stato richiamato sotto le armi: molto lontano da ogni sorta di letteratura. Se avessi qualche relazione nel mondo dei pubblicisti, sarei lieto di valermene per Lei: ci conosciamo poco ma credo di dover stimare il suo ingegno; e quello che mi scrive oggi poi mi ha fatto una impressione profonda. Non so dove indirizzarla. Io ho sempre vissuto in provincia, contento del mio buco, senza cercare più niente o nessuno: non ho più messo i piedi nella redazione di un giornale e non conosco direttamente neanche un editore. Conosco solo un poco i fiorentini; e malgrado quello che Lei ne dice, La potrei consigliare di provare ancora da quella parte. Non sono mai andato molto d’accordo con loro nemmeno io: ma una certa generosità e fraternità disinteressata l’ho sempre sentita in loro, più che negli altri. Certo, dal punto di vista pratico, il momento è brutto assai. Ma passerà. Quando si è giovani e si ha del cuore, si tira avanti. E passata la guerra, ci sarà da fare per tutti; e del posto per chi ha ingegno. Se tornerà ne potremo parlare. Per ora non posso altro. Mi scusi e accetti gli auguri del suo

R. SERRA


Campana “ex riformato”

Con tutti i progetti andati falliti, ma con una grande fede nelle sorti della sua patria e con un piccolo bagaglio di nuovi versi (oltre il «Canto proletario» Dino ha scritto durante il soggiorno svizzero, la prima stesura di «Arabesco Olimpia» che ha per titolo «I Tre colori-Olimpia» e altre brevi prose e liriche), è tornato definitivamente in Italia e nel luglio lo troviamo a Marradi deciso ad arruolarsi. Ma all’ospedale militare viene riformato. Dino cade in profondo scoramento. Aveva scritto ad un amico romano un biglietto del seguente tenore: «venuto dalla Svizzera per arruolarmi, mando il mio saluto... Dino Campana ex riformato.» E adesso quella nuova «riforma» militare, egli la prende come una condanna definitiva della sua salute. In questo stato d’animo di estremo abbattimento lo sorprende a Marradi la parola di un altro sconfitto, Giovanni Boine:

 

Fratello,
è una parola che mi piace, sebbene io la usi casto. Avevo un fratello, era boxeur, picchiò mezzo mondo e morì di tifo l’anno passato. Altri fratelli non ho. Ma facciamo la prova con lei: può darsi che riesca. Certo parecchie pagine del suo libro mi diedero una febbre d’esaltazione che non perderò.

Suo G. BOINE.

P.S. Cerco un impiego in India.

Il mio indirizzo è Portomaurizio


Improvvisamente Dino si risolleva. Inizia, anzi, per lui un periodo particolarmente felice e fecondo. L’aria nativa, le sue montagne, il riposo («Cerca di prolungare quanto tu puoi cotesto tuo soggiorno: hai bisogno di lungo riposo e forse di raccoglimento per meglio determinare le tumultuose impressioni » - gli aveva scritto lo amico Aldrovandi [ndr.: Matacotta ha sbagliato a trascrivere il nome del corrispondente, si tratta del giornalista faentino Aldo Orlandi] da Torino) riescono a ritemprare le sue forze. Con venticinque lire regalategli dalla madre va per qualche tempo a Premilcuore. All’Aldrovandi scrive una lettera piena di progetti grandiosi e lo assicura che sta lavorando di buona lena. Continua a mandare agli amici copie dei «Canti Orfici» perché siano venduti e gli sai mandato il denaro. Ravegnani, che ne ha ricevute un buon numero, gli chiede un po’ preoccupato se non è il caso di metterle in vendita nelle librerie milanesi [ndr.: Ravegnani era di Ferrara, quindi il riferimento a Milano non ha senso]: oppure distribuirle fra giovani suoi amici poeti, quali Titta Rosa, Venditti, Fiumi, Meriano...

Il 23 ottobre ecco una nuova lettera di Boine:

Caro Campana,
l’India era un’ossessione tre mesi fa, Mi disse Novaro che lei non fu contento della mia risposta. Diamine!era una stretta di mano a mio modo. Ma insomma, Campana, non si sa dove sfociare, non si sa per che paese partire! Su questo mondo ci ho sputato da un pezzo. Non c’è una qualche America nuova da scoprire? qualche delitto di liberazione? Se pensa una impresa me la comunichi. Fra quindici giorni sono di ritorno. Faccio un giro per i carnai di lassù.

Con affetto, suo BOINE.

Ma l’euforia e l’entusiasmo durano assai poco. Presto lo riafferrano i malesseri fisici, ha dei disturbi renali e di nuovo alcune turbe mentali. Di nuovo odia il suo paese, vuole scappare e tornare all’estero. In fretta scrive a Bino Binazzi perché gli procuri subito un passaporto. Bino, il fedele amico, che egli chiama «bona razza d’artista fiorentino», gli risponde da Bologna cercando in tutti i modi di dissuaderlo. Ma Dino torna alla carica, gli accusa un mondo di mali, lo prega perfino di ospitarlo a Bologna o almeno aiutarlo a entrare in un luogo di cura in quella città. Bino gli risponde con una lettera molto affettuosa, nella quale tenta di convincerlo che i suoi mali sono null’altro che un comune esaurimento nervoso, curabile per mezzo di una forte «ingestione di fosfati». In calce alla lettera, ci sono due parole di saluto del padre del poeta: «Caro Dino, mi addolora il tuo stato: appena libero, verrò a trovarti. Tuo padre».

Nel novembre, Dino è ricoverato nell’ospedale di San Francesco a Marradi. La sua salute ha avuto un improvviso peggioramento ed egli si ripete le parole di Verlaine «la misère et le mauvais oeil m’ont fait une âme de vieux prisonnier».

Scrive a Francesco Chiesa, il quale gli risponde in data 19:

 

Egregio signor Campana.
Le sue parole mi commuovono e mi affliggono profondamente, vorrei poter fare qualche cosa che le sia utile, e non so che dirle la mia fraterna simpatia. Certo Ella guarirà e potrà ritornare al buon lavoro fecondo, che è pur la cosa più consolante della vita. Mi consideri come suo amico.

FRANCESCO CHIESA


Da Udine, Boine non sa inviargli di meglio che le solite scoraggiate parole:

Caro Campana,
ripartirò di qui dopodomani. Ho visto il vedibile... (omissis). Però è bizzarro come da nessuna parte trovi lo sfocio. Non c’è liberazione. Il cervello esaurisce il mondo con troppa voracità: s’arriva al nulla da qualunque parte si tocchi. Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che s’appiatti? A forza di scrollar le catene le romperemo? Anche la guerra è come tutto il resto: fa un po’ più rumore.

Suo BOINE.


Nell’ospedale di Marradi Dino trascorre un mese e mezzo. Dimesso, fa una corsa a Firenze dove conosce Cardarelli («simpatico e geniale. Siamo stati insieme quest’oggi. Credo di condividere quasi tutte le sue idee e l’indipendenza di questo giovane mi ha risollevato il morale» - dalla lettera a Boine riportata da E. Falqui nel volume degli «Inediti», Vallecchi). L’anno finisce nella più nera depressione morale. Più tardi dirà di questo periodo, un periodo di «noia mortale». Sente a tratti tuttavia che potrebbe ancora risollevarsi: «se non fossi ammalato sento che qualche cosa di importante si potrebbe sviluppare da me ora, ma in queste condizioni lascerei la salute sforzandomi» (lettera citata al Boine).

E tristemente riecheggiano nel suo cervello i versi di una ballata che Bino Binazzi ha composto per lui e gli ha inviato all’ospedale «per ricordo fraterno»:

 

Ormai siamo i senza famiglia
i figli di Monna Bizzarria
i prediletti della pazzia
che ci ha baciati fra le due ciglia.

 

Il 1916 si apre sotto il segno di una nuova amicizia: quella di Emilio Cecchi. Il giovane critico si trova ad Alessandria sotto le armi e di là invia a Dino otto suoi componimenti lirici. Le lettere di Cecchi sono dieci, e forse le più belle del carteggio. Il critico si era già occupato di Dino, profittando di uno scorcio polemico il 13 febbraio sulla «Tribuna»: ma in modo alquanto sommario e parziale. Gli era sfuggita la parte che egli chiamerà più tardi «luminosa e mediterranea» dei «Canti Orfici», mentre aveva puntato l’interesse maggiore sulla parte più notturna e angosciosa. Ora sta preparando un articolo aggiornato ed esauriente, sempre per la «Tribuna» ene dà notizia a Dino in una lettera del 13 marzo, dove tra l’altro scrive:

 

... La Sua lettera mi fece piacere e dispiacere insieme. Piacere per la sua confidenza in me: e dispiacere perché io l’ho sentita soffrire di certe cose che francamente non valgono la pena ...


Un periodo di febbre editoriale

 

A Cecchi Dino aveva confidato il disappunto per la perdita dei suoi manoscritti e ha fatto anche delle accuse precise. Cecchi bonariamente lo esorta a non tenere in gran conto certe relazioni e a calmare il proprio desiderio di vendetta.

L’importante è che lui, Dino, lavori:

 

« e poi giustizia si farà da sé. Intanto tutta la storia spiacevole del suo manoscritto non ha impedito al suo libro di uscire e a lei di essere riconosciuto e ogni giorno apprezzato pel suo libro. Ho visto con vera gioia, dagli ultimi numeri della Riviera Ligure che laggiù si fa conto solido di lei. Ho riletto con piacere «Olimpia» e goduto delle testimonianze di fede ch’ella riceve da Novaro, e si capisce anche dagli altri. Se un piccolo numero d’amici, che sono spontanei e fedeli, e di lettori intelligenti e inquieti si forma intorno a lei, mi pare ch’ella deve sentire impulso a un dovere di tranquillità e di lavoro; e abbandonare i suoi giusti rancori, per creare e niente altro che creare... ».

 


 

A Pistoia, frattanto, il direttore della «Tempra», il Fondi, lavora per arricchire la sua rivista e darle una nuova veste tipografica. «Comincia la sua ascensione – scrive a Dino il collaboratore e amico del Fondi, Giovanni Costetti – tutti noi contiamo assolutamente sul tuo nome. Abbiamo fiducia nel tuo avvenire e speriamo che anche finanziariamente ci prepari qualche vantaggio. A te dunque di stare con noi e di partecipare al festino». Che viso avrà fatto Dino all’udire parlare di poesia in termini così commerciali e sentirsi invitato a scopo «utilitario»? Ma la primavera del 16 è ricca di imprese editoriali del genere.

Anche Bino Binazzi s’è messo in capo di fondare una rivista e ne dà comunicazione all’amico:

 

« Non ti ho scritto prima perché volevo farti una sorpresa. Mandami qualche cosa veruna rivista che uscirà qui (a Bologna) diretta da me.
Ho buone intenzioni e spero che riuscirò ad attuarle. Tu sarai proclamato il più grande poeta di questa generazione italiana... »

 


Ma la cosa più straordinaria è che perfino Dino viene contagiato da questa febbre editoriale: e stende nel «Taccuino» il progetto di un giornale fondato da lui. Esso si chiamerà «Il diario della nuova Italia», cioè , come egli stesso spiega, un giornale di «umanesimo integrale», un «foglio di coltura europea destinato a tutti. In questo foglio che uscirebbe due volte al mese si dovrebbero raccogliere gli articoli più importanti già apparsi mettendoli in luce di attualità come avvenimenti della vita individuale e nazionale di oggi e di ieri. La realtà come dimostrazione dell’attuazione dello spirito. Tutti i fatti importanti della nostra vita nazionale (per esempio la vita di Leopardi nel suo significato) sono stati trascurati o messi in rapporto di avvenimenti di allora, troppo piccoli. Il foglio avrebbe carattere di un quotidiano intellettuale, coll’articolo di fondo e i fatti diversi. Niente critica e niente arte».

Ai primi di aprile Dino lascia definitivamente Marradi, e si stabilisce a Lastra a Signa, nell’Albergo Sanesi. Cerca sempre un impiego, una occupazione qualsiasi. Ne ha scritto a Novaro, ma Novaro gli ha risposto in modo evasivo. Si è confidato allora con l’amico Salvetti, ma lo scultore fiorentino non ha da rispondergli altro che buone parole per i suoi versi. Frattanto Dino ha invitato Cardarelli a venire in Toscana. E Cardarelli che si trova a San Remo lo ringrazia ma rifiuta l’invito:

 

14 aprile 1916

Caro Campana,
«... Inutile dire che se anche non ti scrivo tu sei una delle poche persone presenti vive alla mia memoria. In quanto a venire costà è un altro affare... Non so dove passerò l’estate, ma spero sempre più verso il confine. Non ti ho mandato il mio libro (I Prologhi) perché non ne ho avute che pochissime copie e al momento in cui ti scrivo non ne ho nessuna. Inoltre mi ricordo una tua bella frase dettami un giorno in via Cavour: «io non ho stima in fondo che per me stesso». A questa eccellente disposizione io ho fatto sincero e cavalleresco omaggio non contandoti tra le persone a cui ho mandato il mio libro. Spero che sappi sorridere come si conviene... Speriamo di rivederci, torna a scrivermi appena puoi».

Tuo Cardarelli


Secondo il consiglio di Cecchi, Dino chiede a Cardarelli di presentarlo allo Studio Editoriale Lombardo dove spera di poter fare una ristampa riveduta e corretta dei «Canti Orfici».

E Cardarelli gli risponde:

 

Caro Campana,
ho visto per caso Boine che non è una conoscenza delle più incoraggianti. Lo avevo però visto prima di ricever la cartolina. Così del tuo desiderio di avere un impiego non ho potuto che scrivergli – ma credo che rimarrà lettera morta, tanto per te che pensi all’impiego come certi disperati che pensano al suicidio per distrarsi, quanto per Boine e Novaro che con tutta la loro grande ammirazione ti stimano un mezzo pazzo. Se tu sapessi che odore di fermenti d’olio c’è in quella parte della riviera. In quanto a pubblicare il tuo libro andrò a giorni a Milano e te ne saprò dire qualcosa. Per lettera è inutile. Quella gente ha per sistema di non rispondere.La tua ultima cosa sulla Riviera Ligure mi piace moltissimo – quella andatura popolare che gli hai dato è d’un effetto molto melodioso e pieno di carattere. A parte naturalmente le torri e altre segretezze liriche per le quali io non ho, devo dire, la necessaria sensibilità. Ho detto a Boine che ti mandi la copia del libro che gli ho prestato. E’ un po’ vecchia ma in compenso è corretta. Tienila, leggila e considera che ti ho mandato l’unica copia che possedevo. In quanto a giudicarmi non ti fermare lì. Lavoro e credo di far del nuovo-che sarà anche un passo indietro, ma io rimango fedele ai tempi e alle circostanze.

CARDARELLI


Tramontata ormai la prospettiva di un impiego, Dino pensa di ripartire per l’estero, vuole andare in Francia, è il suo vecchio sogno. Come prima tappa pensa Nizza. E ne scrive sia a Cecchi che ad Anselmo Geribò. Questo ultimo gli risponde fornendogli alcune indicazioni per il viaggio.

 

«Se ha le carte in regola non credo possa correre il rischio d’esser fucilato. Nasconda il poeta germanicus!».

 

Forse deciso a riprendere il suo pellegrinaggio, dopo una puntata ad Antignano, e a Marina di Pisa (dove riceve le lettere di una tal Donnabianca, non meglio identificata – che sia la famosa russa di cui Dino parla in una lettera «Son qui con una russa incredibile venuta dall’Africa. Ma la psicologia russa si impara in due giorni e ne ho abbastanza...»?) [ndr.: si tratta invece della pittrice Marradese Bianca Fabroni Minucci (1878-1968)] - eccolo mettere la tenda a Rifredo di Mugello. Colà riceve il 10 giugno [ndr.: questa ipotesi è da ritenersi errata, Dino in quella data non era a Rifredo] la prima lettera della donna che sarà durante tutta quella estate e l’autunno seguente fino all’anno successivo l’oggetto di un amore forsennato. A questa lettera, piena di ammirazione, e nella quale la donna chiede di incontrarlo, Dino risponde:


Una passione pagana

 

«Je ne saurais jamais vous être àgreable à Marradi. C’est un pays où j’ai trop souffert et quelque peu de mon sang est restè collè aux rocher de là haut. Mais ca ne se vois que par moi et vous pouvez voir couchants etranges de mes poesies».

 

Da questo periodo diradano le lettere dei corrispondenti. Dino è tutto proteso dietro il suo sogno amoroso, in un tentativo estremo di risollevare la sua vita. Fu una passione profonda, esclusiva, di una pagana grandiosità. Ma Dino non era in grado, ormai, di farne cosa di vita e di duratura armonia, quando la sua forza si era tutta consumata nel lungo disperato vagabondaggio. Scrisse tuttavia in quella estate alcune liriche d’amore, purissime. Sono «In un momento» - «Vi amai per la città» - «I piloni fanno il fiume più bello» - «Sul più illustre paesaggio».

Nella straordinaria eccitazione di quell’incontro avvenne l’episodio del duello, di cui si conservano i documenti nel carteggio: duello del quale non m’è riuscito di stabilire, per quante ricerche abbia fatto, le cause precise. Da Lastra a Signa improvvisamente Dino invia in data 23 giugno una lettera minatoria a un tal cavaliere G.B., giornalista [ndr.: si tratta del giornalista Athos Gastone Banti]. Essa dice:

 

«Voi siete un grottesco meticcio negro affatto idiota, perciò dicendomi germanico ho voluto darvi una pedata nel culo. Voi vi siete vendicato facendo la spia come si conviene a quella razza di cani levantini che siete voi livornesi. Ne avete abbastanza per battervi o volete che venga a ceffonarvi, macaco? Sarei già venuto se non fossi certo che vi trincerate dietro i vostri pretoriani di piazza grande che vi danno i loro articoli da stampare, è da loro che voi avete imparato l’italianità di cui siete capace, non è vero? Dunque basta, parlate di poeti e di poesia quanto vi piace, ad uso dei cafoni vostri. Intanto mi tengo a vostra disposizione.

DINO CAMPANA

Post-scriptum: «Per la verità dichiaro che questo è il testo della cartolina che ho letto e visto impostare da Dino Campana oggi ventitrè giugno 1916, firmato:

MARIO MOSCHI, scultore


Che cosa è successo? Un articolo del cavalier B. poco gradito? Una diffamazione? O più semplicemente e verosimilmente una mania di persecuzione, così frequente in Dino? Dall’inizio della cartolina parrebbe trattarsi di una malevola insinuazione fatta dal B. a proposito del «poeta germanicus», appellativo che Dino aveva posto sotto il suo nome nell’edizione Ravagliana dei «Canti Orfici», e che gli aveva dato non poche noie. Certo è che la reazione di Dino fu immediata e quanto mai violenta. Come sempre, non era uomo da lesinare epiteti. La risposta del cavalier B. giunse per via cavalleresca: un telegramma da Livorno , in data 24, redatto dai padrini, il Generale Giacomo Merli e il Conte Marco Tonci dell’Acciaia. Esso dice:

 

«Cavaliere A.G.B. riceveva stasera sua missiva dandoci immediatamente mandato rappresentarlo favorisca indicarmi nomi suoi rappresentanti».

 

Contemporaneamente i due illustri padrini telegrafano allo scultore Mario Moschi nei seguenti termini: «Il signor Campana ci comunica averla nominata col signor Takeda rappresentarlo vertenza col cavalier B. articolo 130 codice cavalleresco obbligando lor signori recarsi Livorno preghiamoli trovarsi qui domani ore quattordici Circolo Filologico via Telegrafo – Generale Merli, Conte Tonci Ottieri».

Il Moschi invia subito il telegramma a Dino, il quale si affretta a scrivere al Takeda:

 

«Egregio Signor Takeda, il Moschi mi ha comunicato questa mani il telegramma che accludo e al quale egli non ha risposto. L’appuntamento di cui parla il telegramma era per oggi alle due. Io vado ora a Firenze a cercare un padrino e domattina lo accompagnerò al suo studio a Firenze. Intanto prego Lei e il Moschi a rispondere come se già fossero testimoni ufficiali in attesa che io abbia trovato l’altro testimonio. Mi pare che il Moschi non si possa rifiutare a questo avendomi lui stesso offerto di farmi da testimonio giorni fa.

Trovato l’altro testimonio egli potrà declinare il mandato.
Benché io non abbia nessun diritto di intervenire nell’operato di loro padrini , mi permetto di far osservare che credo opportuno chiedere al generale Merli e al Conte Tonci una dilazione di qualche giorno, facendo loro presente l’impossibilità di recarsi a Livorno immediatamente.
La prego signor Takeda a voler scusare questi contrattempi.
Coi sensi della più viva stima e simpatia sono suo dev.mo

DINO CAMPANA».

 

 

 

E la risposta del signor Takeda è la seguente:

 

«Egregio sig. Campana
ho ricevuto la sua lettera in qui contenuta la telegrammama ora verso alle 9 e il appuntamento doveva alle due sì che ormai passato.
Al circolo fino alle 10 io aspetterò Lei intanto se non posso trovare mi trovi allo studio mio, dalle 9 fino alle 12 dalle 2 fino alle 6 aspetterò Lei allo studio mio. Saluti cordialmente

A.TAKEDA».

 

Del 13 agosto è una cartolina di Antonio Baldini, che è in procinto di raggiungere il reggimento. E’ un affettuoso saluto, insieme colla promessa di riscrivergli presto più a lungo. La promessa è mantenuta: e l’11 settembre, dopo aver ricevuto «Canti Orfici», Baldini gli scrive una lettera commossa.

Con questa bella testimonianza si chiude il carteggio del corrispondenti di Dino. E purtroppo si chiude anche la sua vita di poeta. La sua passione amorosa lo ha preso vorticosamente, lo ha sbalzato ancora una volta verso i regni misteriosi delle «Chimeres Fulgorantes» e ha minacciato di travolgerlo.

Nel dicembre del medesimo anno viene riformato nell’Ospedale Militare fiorentino del Maglio. Il 12 gennaio del 1918 viene internato nell’Istituto fiorentino di osservazione per le malattie mentali. E di là, dopo due settimane di degenza, passa nell’Ospedale Psichiatrico di Castel Pulci, all’età di trentatrè anni.