DINO CAMPANA

E LA NUOVA LIRICA

 

di Piero Bargellini

 

da: Pian de Giullari, Il Novecento, Vallecchi, Firenze 1950

 

 

Lo STATO D'ISOLAMENTO E DI DIFESA DELL'UOMO MODERNO, RIDOTTO ALLA SUA NUDA UMANITÀ, ISPIRA LA LIRICA MODERNA, CUI EBBE COME INIZIATORI THE POETI COETANEI, IL REBORA, L'ONOFRI E IL CAMPANA; UNO FINITO PRETE, UNO FINITO MAGO E L'ULTIMO FINITO PAZZO.

 

C'è da credere che proprio le ragioni, per le quali il romanzo moderno non è riuscito a granire, abbiano favorito il sorgere della nuova lirica.

Forse, se si toglie la stagione dell'Arcadia, non s'ebbe mai in Italia un gettito cosi folto e nutrito di poesia.

Neppure il piccolo illuminismo di certi vociani riuscì a contenere l'impeto dei poeti pullulanti in gran numero da ogni parte d'Italia. Invano Scipio Slataper se la prendeva coi verseggiatori e li avrebbe voluti ridurre al silenzio. I poeti, piuttosto che dedicarsi alla sola prosa documentaria, disertarono la rivista del Prezzolini.

E del resto, che cos'era mai la cosiddetta « prosa lirica » se non un ibrido a tutto vantaggio della poesia ? Il Boine e il Serra liricizzavano anche la critica!

C'era poi il famoso « esame di coscienza », seguito dall'immancabile « confessione ». Ebbene, la lirica non è confessione per eccellenza ? Si prenda uno di quei disprezzatissimi trattati di retorica e vi si leggerà, che la lirica a l'espressione diretta dei sentimenti, l'immediata confessione dell'anima.

Perciò nulla, meglio della lirica, poteva offrire il mezzo per una confessione, sincera, totale, capace di fare affiorare, non solo i dati della coscienza, ma persino i moti irrazionali e i fondigli del subcosciente.

Lirica e autobiografia si potevano dunque dire sinonimi; autobiografia intima ed essenziale di quell'« io » puro che sembrava la conquista più sicura, dell'uomo moderno. E qui sari, bene accennare a quella che è stata chiamata « la condizione dell'uomo moderno ».

Diciamo « uomo moderno » per indicare un uomo che si e posto, o per sua volontà o per sua impotenza, in una determinata condizione di vita, sia spirituale the materiale. Egli ha rotto il vincolo d'unione con Dio, ricadendo sopra sé stesso, o meglio, incapsulandosi nel proprio « io ».

Di questo suo illusorio stato d'indipendenza e d'assoluta padronanza di sé, l'uomo s'è consolato credendosi da principio il creatore del proprio mondo (momento romantico). E quali sono poi state le opere ad extra dell'uomo che si è creduto creatore e fattore ? Prima di tutto, appena ripudiata la padrona, ha sposato la serva, cioè, dopo aver rinnegato la trascendentale teologia, ha abbracciato la filosofia immanentista (momento idealistico).

Quindi, dopo aver rinunziato all'eredità, celeste, ha cercato un patrimonio terrestre, dando alla scienza un valore in sé per sé (momento positivistico).

Per ottenere un benessere esclusivamente mondano, ha costituito una society retta da soli interessi terreni (momento socialistico). Infine, per la difesa di questi interessi, ha eretto uno stato che si propone intenti esclusivamente civili (momento laicistico).

Alla maniera di Dio, l'uomo, dopo aver creato, credette che tutto fosse buono e si riposo. Il sabato dell'uomo moderno creatore corrisponde, nella storia dell'Ottocento, al periodo della sufficienza borghese. Il borghese dell'Ottocento fu in qualche modo, se non felice, soddisfatto di sé stesso e della sua condizione di privilegio. La filosofia lo serviva docilmente, la scienza gli obbediva ciecamente. La società, liberale lo favoriva. L'industria prosperava; il commercio fruttava. Il progresso era un mito a cui tutti credevano; il benessere, uno scopo a cui tutti tendevano.

L'uomo faceva da sé, e faceva bene, facendosi del bene. Sembrava che un nuovo Eden si fosse stabilito sulla terra.

La rovina del mondo, sul quale l'uomo aveva spirato io suo « fiat » egoistico, avvenne per franamenti successivi, senza bisogno d'urti violenti. Tutto the ch'era stato creduto bene si convertiva in male, come se un misterioso peccato d'origine minasse anche la creazione dell'uomo moderno.

La filosofia immanentista, come tutte le serve diventate padrone, s'era fatta presuntuosamente esigente e, nello stesso tempo, odiosamente neghittosa. La scienza cominciava a spaventare con la sua brutalità. Lo stato, dopo aver promesso la libertà, rendeva schiavi. L'industria stritolava nei suoi ingranaggi commercio soffocava it sentimento. La burocrazia paralizzava la vita.

In questi frangenti, che cosa poteva fare quell'uomo particolarmente sensibile e umbratile che si chiamava poeta, se non mettersi in atteggiamento di difesa ? Rifiutare il mondo, come il mondo rifiutava lui. Aveva dunque ragione Aldo Palazzeschi, quando diceva:

 

I tempi sono molto cambiati,

gli uomini non dimandano

più nulla dai poeti.

 

E anche più ragione quando, con un'alzata di spalle, concludeva:

 

E lasciatemi divertire !

 

Cioè, lasciatemi con me stesso; lasciatemi solo. E lasciatemi la fantasia, altrimenti con che cosa mi potrei divertire ? poeta moderno difende cosi la propria personalità fino al solipsismo, perché la sente minacciata dal livellamento sociale. Difende la sua fantasia fino al parossismo, perché la sente in pericolo

Difende la sua arte fino alla stranezza, perché la sente incompresa dal filisteismo. Difende il suo divertimento, il suo giuoco, perché in quel giuoco a ancora l'illusione della liberta, in un mondo di oppressione. Restringe perciò i motivi del canto attorno al nucleo della propria anima; li pone sotto un arcanismo di cui i profani non riescono a trovare il segreto.

Nasce cosi, e si legittima nella condizione dell'uomo moderno, il cosiddetto « ermetismo » della poesia, cioè il suo « trobar clus », il suo contratto lirismo, la sua ardua interpretazione, la sua segretezza e incomunicativa.

Un tempo, quando il nemico s'avvicinava a una città, per assalirla, i cittadini distruggevano tutti i borghi che si trovavano fuor delle porte, tutte le chiese, le ville e i casolari del contado. Facevano, attorno alle mura, i1 deserto; non lasciavano nessun appiglio al nemico, per difendere meglio la liberty della patria.

Così han fatto i poeti del nostro tempo, per difendere la patria della poesia, cio6 l'anima. Hanno abolito ogni motivo esteriore, esornativo; hanno abbattuto ogni appiglio comunicativo, ritirando i ponti levatoi della logica discorsiva e sacrificando, le cortine della retorica.

Il poeta moderno è una città assediata, anzi una torre assalita, la famosa « torre d'avorio ». In questa torre la poesia non s’ racchiusa, come comunemente si crede, per ozio o per capriccio. Vi s'è racchiusa per difendersi dalla civiltà disumana, dalla società crudele, dallo stato esigente. Ha rotto ogni legame col passato, ha rifiutato la cosiddetta tradizione, perché l'ha creduta ponte verso il nemico. Rinnega le seduzioni della retorica, del sentimento, della logica, perché li considera tanti insidiosi cavalli di Troia.

Il poeta moderno non vuol più essere ingannato, ne vuole essere strumento d'inganno. Non vuole più illudersi, né vuole illudere. Mangia il pane nero della sua estrema miseria. Beve acqua di pozzo. A volte, come certi prigionieri, ridotto alla fame, si ciba dei suoi stessi rifiuti.

Condizione tragica, ma chiara e in parte eroica. Dalla sua solitudine desolata e sospettosa, il poeta, chiuso nella torre d'avorio, non è però totalmente isolato. Riceve e lancia messaggi con le onde raccorciate che 6, come abbiamo veduto nel capitolo sul Futurismo, il richiamo di cose lontane e affini.

Il poeta diventa così, com'e stato detto, la calamita delle analogie. La sua forza d'attrazione dipende dalla potenza fantastica; ed è poeta chi meglio riesce a captare richiami analogici e a esprimerli nella maniera più folgorante e impremeditata, addirittura esclamativa ! (Almen dal Vico in poi si sapeva che la parola stessa a metafora).

Il nucleo centrale di questa poesia a essenzialmente autobiografico, di una autobiografia d'assoluta sincerità, senza censura.

Proprio gli scrittori della Voce e di Lacerba, in rivolta contro il conformismo e il convenziona­lismo, avevano dato l'esempio della confessione auto­biografica e del soliloquio lirico.

Giovanni Papini, nelle « Venti ragioni in prosa » che seguivano le venti poesie dell'Opera prima, scriveva: « Jo ho l'idea che non c'e, per la lette­ratura, materia migliore dell'animo umano: la parte della realty, che meglio si conosce, che piu ci preme, the piu complicazioni ofire. Il mondo esterno de­v'entrare nella poesia in quanto accompagna o esprime o giudica o rischiara certi stati d'animo. Il resto a decorazione, bravura e divertimento ». Con l'Opera prima dava un primo « assaggio » di poesia « intesa da pochi » e quindi, in un certo senso, ermetica.

Ardengo Soffici, coi suoi Chimismi lirici e le sue « simultaneità, » stringava similitudini e analogie. « Inzuppa 7 pennelli nel tuo cuore di 36 anni finiti ieri 7 aprile — E rallumina il viso disfatto delle antiche stagioni ».

Eppoi Piero Jahier, Giovanni Boine, Emilio Cecchi, Camillo Sbarbaro, Carlo Michelstaedter, tutti poeti autobiografici, difficili, essenziali, contratti nello sforzo d'acuire l'accento lirico sulla propria personalità.

Specialmente tre giovani, tutti e tre nati nel 1885, tutti e tre seriamente impegnati in quella che si potrebbe chiamare « poesia come vita », dovevano rappresentare la generazione dei nuovi poeti, dopo la triade Carducci, Pascoli, D'Annunzio, e il rovescio della loro medaglia, cioè i Crepuscolari. Questi tre poeti si chiamavano Clemente Rebora, Arturo Onofri, Dino Campana.

CLEMENTE REBORA (nato a Milano nel 1885) pubblicò nel 1913 i suoi Frammenti lirici e al loro apparire, Giovanni Boine annotò: « Signori, c'è burrasca. Sissignori c'è un meraviglioso divampare di elettrici sprazzi in un rotto cielo ».

Il libro portava com'epigrafe un aforisma di Leonardo: « Li uomini batteranno aspramente chi sia causa di lor vita — batteranno il grano ». E il poeta batteva aspramente, disciplinava, macerava la propria anima, da cui usciva una poesia incerta, intricate, impacciata come un'adolescente dolorosa.

 

Forsennato voler che a libertà

Si lancia e ricade,

Inseguita locusta tra sterpi;

E superbo disprezzo

E fatica e rimorso e vano intentiere:

E sul luogo come cane,

Per invilire poi, fuggendo il lezzo,

La verità lontano in pigro scanno.

 

« Queste liriche, — scrisse poi il Rebora, — appartengono a una condizione di spirito che imprigionava nell'individuo quella speranza la quale sta ormai liberandosi in una certezza di bontà operosa, verso un'azione di fede nel mondo ».

Il poeta indicava chiaramente qual fosse la « condizione » del suo spirito. Anche la speranza era imprigionata nell'individuo. Con uno sforzo, di cui si avvertiva tutto il tormento, il Rebora ne voleva liberare l'ala, e perciò era necessario riac­quistare la fede nel mondo. L'esito della ricerca sincera del Rebora andò oltre la poesia, e lo 'si vide quando, alcuni anni dopo, per il suo ideale di bontà operosa, il poeta si fece sacerdote, entrando nei rosminiani.

Qualcosa di simile e di molto diverso doveva accadere ad ARTURO ONOFRI (nato a Roma nel 1885, morto nel 1929) che giy nel 1910 aveva pubblicato le sue Liriche e nel 1913, dopo la fine della rivista Lirica da lui diretta con Vincenzo Cardarelli, stampava Nuova lirica, nella quale il poeta, quasi spinto da un'ansia cosmica, tentava di strin­gere in un nodo d'analogie il naturale col supernaturale.

C'era nell'Onofri la tendenza a esplorare il mi­stero restando quasi in uno stato di sogno.

 

Vedo come dormendo e a me rivelo

alcune mie piccole rose oscure

che certo dianzi non vedea neppure

pel troppo chiaro che faceami velo.

 

Avrebbe voluto cogliere it palpito dell'universo, l'armonia panteistica del mondo, nella fusione di sensazioni fisiche e di presenze angeliche;

 

le sue rimembranze amaranto

che esprimono arcangeli e fiori

per tutto il creato

presente in profumi e colori

d'un albero vivo sul prato.

 

Ma mentre il Rebora doveva placare il suo tormento in una « certezza di bona operosa », l'Onofri andò fantasticando costruzioni teosofiche e iniziazioni esoteriche, affaticando il suo verso con tecnicismi quasi cabalistici.

Chi spinse la poesia a un lampeggio a uno scoccare prepotente d'analogie, e ne fece una forma di conoscenza totale, fu DINO CAMPANA (nato a Marradi nel 1885, morto a Castelpulci nel 1932). Girovago senza compagnia, camminatore senza meta, uomo senza stato civile, o meglio, di tutti gli stati civili, indifferentemente: studente di chimica, servitore di stiva, stalliere, saltimbanco. Poeta senza letteratura, o meglio, di tutte le letterature, confusamente: francese, spagnuola, inglese, tedesca, russa. Fu l'incarnazione del poeta che fugge la società ed è dalla società sfuggito; il poeta che non ha più legami col mondo, tolti quelli della sua sensibilità e della sua fantasia sfrenata.

In Dino Campana il potenziale analogico fu altissimo. Visivo e musicale, un colore gli suscitava un suono, e viceversa.

 

Al giardino spettrale al lauro muto

De le verdi ghirlande

A la terra autunnale

Un ultimo saluto !

A l'aride pendici

Aspre arrossate nell'estremo sole

Confusa di rumori

Rauchi grida la lontana vita:

Grida al morente sole

Che insanguina le aiole.

S'intende una fanfara

Che straziante il fiume spare

Ne le arene dorate; nel silenzio

Stanno le bianche statue a capo i ponti

Volte: e le cose già, non sono più.

 

Egli stesso dichiarò d’aver voluto dare alla poesia « il senso dei colori, che prima non c'era, nella poesia italiana ». La sua lirica e infatti balenante d'immagini colorate, non usate come similitudini, ma rivelatrici improvvise d'uno stato d'animo estremamente ricettivo.

Chiamò le sue poesie « effetti lirici qua e là lasciati allo stato di natura ». Egli stesso sembrava che volesse tornare allo stato di natura. « Felicità di vivere in un paese senza filosofia », cioè in un paese dove fosse possibile abbandonarsi a un sus­seguirsi discontinuo e slegato d'immagini, un paese che confinava, anzi sconfinava nella pazzia.

Dino Campana avrebbe voluto comporre un poema, « un piccolo Faust, con accordi di situa­zioni e di scorcio », ma sentendo che le forze e specialmente la lucidità mentale gli venivano meno (era gia stato ricoverato in qualche manicomio), raccolse le sue liriche e le fece pubblicare da un tipografo di provincia, col titolo di Canti Orfici.

Era l'estate del 1914 e già, in Europa si scatenava la guerra. Dino Campana dedicò il suo libro. « A Guglielmo II imperatore dei Germani » e scese nella città a distribuirlo per proprio conto ai letterati. Cercava tra i tavolini dei caffè, dove fervevano violentemente discussioni d'arte e di politica, i più famosi scrittori del tempo, ai quali regalava il libretto, strappando qua e là, le pagine ch'essi non sarebbero stati capaci d'intendere. Si disse, anzi, che a qualcuno avesse regalato soltanto la copertina !

Riprese, mentre la guerra infuriava, il suo vagabondaggio. Nel 1918, quando la guerra finiva, il poeta girovago cessava di camminare, entrando nel manicomio di Castelpulci, dal quale non doveva uscire che morto, quattordici anni dopo, all'età di 46 anni.Tre poeti nuovi, nati nello stesso anno : uno finito prete, uno finito mago, uno finito pazzo. Tre poeti che evasero dalla torre d'avorio, per entrare, uno in chiesa, uno in casa di misteri, uno in manicomio. Sembrava che ormai ai poeti non fosse possibile, fuor dalla torre d'avorio, che la via del soprannaturale o dell'esoterismo o della follia.