Leonetta Cecchi Pieraccini, ritratto di Emilio, 1919
C. LINATI, D. CAMPANA
Pubblicato sulla "Tribuna" del 21 Maggio 1916
di Emilio Cecchi
Con Duccio da Bontà (1913), Carlo Linati chiuse i suoi quaderni di scuola. Nelle immagini d’alcuni artisti preferiti, aveva finito di riconoscer la propria sensibilità. E ormai s’armonizzava, col Baudelaire e col Laforgue, dentro quel caro impressionismo dossiano, impregnato di odor locale un po’ stantio, autorevole di un’agrezza d’eloquio provinciale di nonni, e bizzarro di tutte le curiosità miscellanee di biblioteca. Una sua lirica la trovava principalmente nel dire l’inquietudine di pubescenza; e l’incontro della sua gentil febbre vissuta con l‘allegrezza del primo possesso stilistico dava al suo ritmo la vagante leggiadria ch’è nel passo dei vannini, corti e intrampolanti sulle gambe appena snodate.
Oggi, coi Doni della Terra, s’è estesa i’esperienza e la sensibilità. La prima gustosità d'arte è diventata scienza e volere. A volte, ci troviamo davanti a pagine sacrificate pel troppo sforzo: che del resto comunicano al lettore critico un rispetto forse non meno fertile di quello per le pagine serene.
In vari dei poemetti in prosa che costituiscono questi Doni, il Linati sembrerebbe aver ordinato la sua adolescente sveltezza di curiosità naturali, in un vero e proprio realismo. Sembrerebbe praticare il metodo dell’analisi impersonale; vagheggiare una risoluzione nelle cose. Curiosa illusione, che si riscontra anche presso artisti molto creativi: gli orientali, gli impressionisti francesi: che, tratto tratto, senton bisogno di ricalare dalla libertà della vera arte, a rigustar la passiva obbedienza del corpo traverso una rètina fiamminga.
Attenzione fino allo scrupolo, conoscenza consumata di ogni risorsa del mestiere, nulla manca al Linati perché il suo lavoro, anche in quest'ordine, riesca. Mattutino «chasseur d'images» per le sue terre di Lombardia, è sicuro di tornarsene a casa con ricca carniera. Senonché gli difetta la fiducia dei temperamenti puramente visivi, e sente bisogno di insistere e logorare, finché non ha messo nella sua verità un che di inquietante, quasi decapitato. Il museo delle sue lucenti tavolette, combinare di richiami di complementarismo in minore, ha il triste e pallido d’un «boudoir» granducale: l’arte ha finito per sottomettersi in grazia, virtù. Non occorre osservare che, ammessi i termini di siffatta analitica e descrittività, non si può seriamente considerar il Linati come un «paesista», nello stesso senso in cui si usa la parola per un Soffici, cosi aerato, o per un Campana, cosi toscanamente costrutto.
Linati ha degli stati molto più ristretti, rigidi, pungenti, da esprimere. E li esprime fornendo la coincidenza di certi incontri «visionari», cui prepara, orchestra, consuma, con giuochi di contrapposti colorati e polposi, e senza timore di far intervenire anche il decoro e i supposti della mitologia. Vediamo, per esempio, alcuni periodici: «Calzati i pattini, ci avventammo sul lago ghiacciato. Si stendeva davanti a noi come una gran spera lucida, ovale e il sole che spumava allora dietro al paesello raccolto in sull’altura della landa vi stemperava un suo riverbero di gelido oro, entro cui volavamo. Ci pareva d'andare ai paesi d'Aurora, ai suoi palazzi di fuoco?...».
Notare come la battuta di quell’avventammo è stornata e poi ripresa sulla delicatezza settecentesca della spera ovale del lago, e dello spolverio di gelido oro; per entro il quale un altro verbo volavamo, richiama, ma pallidamente, al primo impeto e l’allieta. Poi subito il settecentesimo della spera ovale, suffusa ïoro diventa ferino? e monumentale; il tema dell’Aurora e dei palazzi di fuoco: tema che potremmo seguire per sottili modi ridistinti fino in fondo al quadro, in contorni d'una musica neoclassica come «le membra di anforeta» e il «melodioso vaso d’emozione». E si alternano alle gravità barocca, le crudeltà impressioniste: «Scorreva su di una sgrigiolante granitura di ghiaccioli, fra sterpi di falaso, su vecchie zolle confitte nella ghiaria»: dove l’abilità di trascrizione immaginativa ha trovato i più squisiti corollari della persuasione grafica. Finché il segreto della emozione dello scrittore scotta e brucia in immediatezza tutta moderna: «a me viaggiava pel cervello un odore strinato di morte» che pone in quel viaggiava i poli mobili e persi di un’anima annerata.
Già dalle pagine sulla murena in Portovenere, e da quelle sul cedro dirotto dal temporale, in Diario di Bontà, il Linati mostrava essersi accorto della capacità di motivi come questi pel tappeto di stili nel quale egli trova la sua bontà caratteristica, dei suoi pieni rapporti.
Fra le sue parole passate si insinuavano allora, trivellano, voci stridenti, strambe, lucide d'una ragionata frenesia. Dentro il pudore umanistico vanta un senso di stregonesco. Chi provasse a contaminare di macabro le immagini di Keats, nell’Ode a Psiche, dove rameggia il giardino di psicologie coralline, in toni grigi, ghiacciati, Linati suggerisce di questi paesi cerebrali, di queste fogliazioni nervose. Ritrova una cieca barbarie: quelli allettamenti de’ ricami sibillini dei selvaggi, o lo stupore morto delle fogliette di felci e dei radiati animali che il geologo scopre dentro le pagine livide delle rupi.
In questi spiriti è fusa la parte più espressiva del libro: un’alba su un paese di nuvole in cima ai monti: la corsa degli sciatori: il quadro ïuna selva angosciata. E lo stesso paradosso d'artisterie, domandato da una sensibilità così composita, giustifica gli insuccessi. Talora un’ampiezza non retorica ed esagerativa: sibbene riflesso abitudinario del gusto di rapporti convulsi e protesi quando il Linati s’inganna a lavorare più d’intenzione che di passione. O in certi ricordi di Inghilterra, la visionarietà ha preso di fummo biblico: e in certe fiabe la mitologia è rimasta fuor da vive attinenze, bianca e senza muscoli, estensione murale d'una pittura da ventaglio? A volte si scade in un vero e proprio berger sepolcrale, uso Shelley e Manzoni. O parole d’intima autorità stanno in mezzo a passi di mero congegno: e dispiace il gesto troppo sportivo, il cinismo di scholar con cui il Linati le ha condotte lì a sfiorirsi.
Nell’aspetto d’insieme, il libro, sotto le sue bellezze, ha un che di pericolante. La continua industria figurativa induce a un senso di rischio direi quasi mondano; e la segreta malinconia del Linati ne smarrisce semplicità e consensi. Nella volontà fissa di valorizzare in una materia plastica, per più probabilità di risalto, durata e controllo, il Linati trascura l’inconveniente connesso a questa maniera, a un massimo cioè di figurazione e minimo di definizione, dove come qui il fondo contristato evoca, invece, l’opportunità d'una presa di possesso lirica e senza tramiti, d'una espressione non per relazioni immaginative ma per discese d’intime tonalità: non per scarti, scale di allucinazione, ma per scavo di responsabilità. L’immagine s’incontra frequente di ritorno, o come un laberinto artificiale, un arresto, invece che come una potenziazione: e l’autore vi dà l’impressione di fuggire intorno a se stesso ed evitarsi: di proporsi tutte le parole, meno le ultime, risolutive.
Tutto ciò, per via di contrasti, ci avvicina a un altro scrittore odierno: Dino Campana, che nelle prose e versi de’ suoi Canti orfici non offre una psicologia di uomo d’atelier, sibbene d’errante e perseguitato, e non incastra fittamente i gelosi valori de’ vocabolari, ma scrive con rapido e largo stacco, quando non lascia giù idee e frasi come uno scarica un insopportabile fardello. Linati è il tipico artista, capricciosamente compassato; ma quest'altro è il poeta, cui la certezza della propria natura fa riuscire magari sciatto circa le cose da ammettere o rifiutare. Sicché le pagine belle stanno nel libro fra abbozzi, moncherini, dove una idea lirica tremola con gesto morto, che non arriva. E’ accaduto, per esempio a chi scrive, di sbagliar la prima volta il Campana, sulla base di questi residui e segni perduti della qual cosa ora si fa ammenda. Certo è che una riedizione del libro, con facili tocchi, lo farebbe rinascere a vita sicura.
O diremo che, per Linati, nel suo ascetismo letterato, la sensibilità non diverrà mai tanto gracile, spossata, ch’egli non possa ricavarne qualche interessante filigrana o pittografia, con quello sfruttante, tenuto rigore di non sperdere di sè una particella. Ma in Campana l’atto dello scrivere proviene da un incanto di realtà profondo. Lo scrivere si compie in lui, soddisfatte esigenze dell’essere che son poi la prova organica della poesia. C’è un contrappeso direi carnale e fatale, per segno autentico della sua genialità.
L’arte che, nell’errore, gli assume di romantico e torbido, sa ritrovare, come finestre di mare brillanti in fondo a cupi vicoli, aperture e certezze verso felicità dorate. Ha ritorni di temi casti e provvidenziali. Le «supreme commozioni della sua vita» gli riconducono il ritmo faticoso in andature corali, popolari. Delicatezze e agrezze speciose, splendenti improvvise mineralizzazioni d‘un contenuto patito, infinitamente cosciente, stanno nel libro fino alla difficoltà della scelta: «l’alito metallizzato delle chitarre», «nel corpo vulcanizzato, due chiazze, due fori di moschetto sulle mammelle estinte»: «l’orologio verde come un bottone in alto che aggancia il tempo all’eternità della piazza». Ma ciò interessa come punto di distacco del Campana, verso quella natura più profonda. Son ricordi bruciati e malati ïore nelle quali per intenzione, o simbolicamente soltanto, cercò di riaffermare il possesso dei propri valori, come nel rimorso s’interroga e anticipa la grazia. Si direbbe (per quel che siffatte traduzioni letterarie posson valere) che, espresse con il bisbiglio leggero e la sussultante precisione di disegno psicologico d'un canzonista tipo Verlaine le nostalgie e torbidità di errabondo, il Campana, segnatamente nel paesaggio, s’orienta in una natura italiana profondamente, specificamente toscana, d’autorità antica e veneranda. Riceve una forma classica della vita e dell’arte da un’idea di felicità, come egli dice, «mediterranea». Idea che pare respirata nelle città tirrene del nostro trecento.
Perché nei momenti aperti e ascensivi di Campana si sente pure contribuire e risolvere un‘esperienza di coltura poetica e plastica. Ma accade, all’incirca, come in taluni artisti di Francia, che uscendo dall’impressionismo, vollero riorganizzare e semplicizzare la propria sensibilità, non rifacendo i classici per posa, sibbene riflettendo un’antica purità di attenzione e arioso rigore di scelta sui propri procedimenti e la propria vita. Coltura refluente in poesia.
L’innesto di ciò che appartiene a letteratura (senza cupidigia e mestiere) con ciò ch’è appunto poesia, di solito qui si scuopre facilmente. A volte è più ricco e confuso, come in certe figure del primo poemetto: Notte, dove, sul largo tracciato, un languido color bizantino fa rivedere la capacità dell’antico sole classico divenuta mistero perlato, e la salute dello stile nuovo sta ancora in rigidità e volere. E la piena purezza delle attuazioni appare, dicevano, nei paesaggi: sia in forme che hanno ancora del descrittivo; sia, in frammenti più recenti, dove s’astraggono del tutto in geometrie di colori e arabeschi musicali, con raccordi semplicissimi di parole facili e ritornanti, che limitano e spartiscono ampi spazi di limpidità.
Immagini della montagna: «Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortura e volare distesa verso le valli immensamente aperte. U paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fíne sull’ali distese, leggera come una barca sul mare...» E l’Arno: «L’Arno qui ancora ha tremiti freschi: poi lo occupa un silenzio dei più profondi: nel canale delle colline basse e monotone toccando le piccole città etrusche, uguale oramai sino alle foci, lasciando i bianchi trofei di Pisa, il duomo prezioso traversato dalla trave colossale, che chiude nella sua nudità un cosi vasto soffio marino. A Signa, nel ronzio musicale e assonnante, ricordo quel profondo silenzio: il silenzio ïun’epoca sepolta, di una civiltà sepolta: e come una fanciulla etrusca possa rattristare il paesaggio»... Compone in veemente serenità giottesca scorci di città moderna, in questo motivo di Genova: «Entro una grotta di porcellana -Sorbendo caffè - Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce - Tra le venditrici uguali a statue, porgenti - Frutti di mare con rauche grida cadenti - Su la bilancia immota...» - Armonizza staccati accordi di musica e colore, come nel frammento Toscanità, per celebrare simmetrie di luce toscana, all’eco dei «doppii piani di tamburo con cui il poverello Giotto accompagnava le sue madonne». Scene di mistero originario si posano nelle cornici da palco di caffè concerto. Eremitaggi e mari biancheggiano e lustrano sul polverone policromo di una trista fiera.
Ma queste vicinanze appunto conferiscono alla loro apparizione di paesaggi di libertà e redenzione; e fanno tanto più sentire come quel riso mediterraneo non sia qualcosa d’astratto, un tema da disciogliere in valori affini di coltura: per esempio, il francescano entusiasmo della natura con fede, l’allegria provenzale. Le stesse note, le confessioni, le epigrafi, tutta la scoria vissuta, scheggiata e persa nel libro con un pallore allucinato, entrando in questi rapporti, trovano una vibrazione di dolore almeno, e ansietà umana. E autenticano anche essi che in quest'epoca di ricerche per cui, un’arte che è al più un rinnovo elementare di sensazioni, si vuole passar alla poesia vera e allo stile, Campana è di quelli che hanno portato, oltre i successi incontestabili e sereni, più profonda lealtà a se medesimi, più onore.