Belle Arti
Luglio XIX, pag. 19
di Luigi Bartolini
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Ho detto della vagheggiata edizione delle Lettere di Fattori. Ora dovrei dire dell'altra, da me vagheggiata edizione delle « Poesie di Dino Campana » Dino Campana dipinse anche. Ma egli fu cosi sfortunato! da tanto che lo continuò ad essere anche dopo morto. Gli « sfortunati comuni » cessano dall'esserlo non appena calano nella fossa. Allora lì, generalmente, le cose si appianano. Terra per ricoprire ce n'è per tutti. Talpe che rodono la cassa da morto. Lombrici e formiche. Comunque, il povero Dino Campana fu più sfortunato di tutti in quanto, morto in manicomio (e per un poeta è quasi quasi preferibile morire in manicomio piuttostochè andare a terminare fra gli alamari le poltrone ed il salamelecchio) dopo morto la sua tomba non ebbe l'onore d'una croce, nè la ventura d'un sasso che ricordasse le sue dalle infinite ossa ecc. ecc. Cosicchè ora si sa soltanto che pressappoco egli giacque in un cimiterino non lontano dal manicomio dove stette rinchiuso parecchi anni, dando, in verità, scarsissimi segni di pazzia.
Era, Dino Campana, della razza dei San Francesco, Jacopone da Todi. Ammettiamo che fosse stato, in lui, anche qualche grano di pepe villoniano, e d'uno spizzico di Rabelais. Si tratta, dico, non di un poveta di gesso coil fischio sotto le ali, dietro alle ali: come ce ne sono tanti. Come ce ne son tanti i quali si guardano bene dall'andare in manicomio. Anzi, seri seri, compongono con freddezza da geomerta pianta rape, o da ragionieri fincaregistri, le loro paroline mattoidi, parolucce per i topi che le rosicchiano, quindi poi, nei nostri salotti; o che le rosicchiavano al tempo dei salotti. Il Campana è il nostro Rimbaud. È il nostro ben amato fanciullo dionisiaco Arturo Rimbaud, ma italiano italianissimo. È un grande poeta. A questo punto io mi accorgo di sfondare una porta già mezzo aperta, ed aperta da noi medesimi. Falqui, Bargellini, io; e prima di noi, dal curatore dell'edizioncina seconda delle sue Poesie. Edizioncina tapina tapina. Economica anzichenò, inquanto edita dal solerte editore Vallecchi. Ad ogni modo, sotto questo senso, il Vallecchi merita lode. Senza di lui non esisterebbe l'edizioncina tapina tapina; ma è ben strano che mentre, in Firenze, fioriscono i cento amici del libro (alcuni con il solo portafogli bene imbottito, e con la testa bene imbottita di alquante cose, ma non di certo di originali modi di pensare, e nemmeno di poetico fumo, fornita insomma soltanto dell'arrosto del denaro) nessuno dei cento amici e neppure Ugo Ojetti (ed anzi, forse, per colpa sua) nessuno dico abbia mai pensato a questo: e cioè che è molto meglio ristampare Dino Campana che non il Tasso che non il Redi. « E come? » « Come » — odo una platea mormorare — « proprio voi, Bartolini, tassesco e tassista, rediano al cento per cento, proprio voi che possedete tutte le prime edizioni del Tasso e del Redi, proprio voi tirate questo calcio al povero Tasso al povero Redi? Cosa vi han fatto Tasso e Redi affinchè voi preferiate, come sembra, ad essi, un Dino Campana: illustre ignoto poeta contemporaneo? Illustre ignoto ai grezzi borghesi nostrali, ignotisiimo a quelli più che mai grezzi di oltrealpe? » Rispondo « Si, signori, sono proprio io: io che, giustappunto in quanto conosco le prime le pure le belle edizioni delle opere del Tasso e del Redi, detesto le nuove edizioni di lusso.
Sono troppo belle, miei cari amici, le prime edizioni, e d'altra parte il mio naso è abbastanza fino per non riconoscere nelle nuove, degli enormi difetti. Per esempio, mi domando per quale barbaro gusto è stato ristampato il Ditirambo del Redi con illustrazioni all'acquaforte derivate (e derivate ad occhio nudo) dalla acquaforte del , Ribera che rappresenta il Trionfo di Bacco. Illustrazioni novecentistiche per un libro il cui contenuto è di schietta vena, schietto umore del seicento! E passi tale incongruenza (già, però di gusto borghese) quel che non può passare è una edizione che è seicentesca come testo, settecentesca come stampa, novecentesca nella sua parte illustrativa. Eppoi: come volete che io, per esempio, possa amare, bramare di tenere nella mia alta biblioteca un libro le cui illustrazioni non rappresentano che delle variazioni imbastardimenti novecentistici della ripeto bellissima, ed altrettanto notissima, acquaforte del Ribera (Giuseppe de Ribera, detto lo Spagnoletto [1588-16521]) detta anche « Il Sileno » e che rappresenta il « Trionfo di Bacco » — dedicata al « molto illustre (sic) signore Don Giuseppe Balsamo, barone » ed incisa nell'anno 1628. Acquaforte che è una variazione sul tema « Sileno ebbro » già trattato dal Ribera in un quadro ad olio, il quale attualmente si trova nel Museo Nazionale di Napoli.
E, tornando alle edizioni del Ditirambo, non valeva meglio — se il rame delle stampe del Ribera esiste ancora come credo di sì e che si trovi nella R. Calcografia romana — ristampare il rame del Ribera? Il rame è di notevoli dimensioni, ma si poteva dare, all'edizione, il formato del messale o del mezzo foglio o, forse, del quarto.
Ad ogni modo il buon gusto voleva il buon gusto vuole non mescolare il sale con lo zucchero. Ed il mio particolare gusto preferisce, in quanto a ristampe di antichi libri, quelle in fac-simile. Ed in questo caso a me sarebbe piaciuta la ristampa della prima edizione la quale è del 1685. Invece di ristampa, dicasi, però, riedizione ossia edizione possibilmente rifatta su carta eguale alla edizione che si è presa per modello: carta eguale con eguali caratteri di stampa; eguali le eventuali illustrazioni: dimodochè l'amatore possa, avendo tra mano la edizione fac-simile, ragionare così « non trovandosi più o trovandosi troppo di rado in vendita, per le aste dei bibliofili, le antiche edizioni io posso accontentarmi di questa che è eguale a quella in tutto e per tutto, e che sono sicuro, certissimo (nè potrebbe essere altrimenti), che è una edizione sincrona al tempo, omogenea al tempo, nello stile del tempo od epoca che dir vogliamo.
C'è anche un'altra cosa da dire ed è che nei casi quando d'un celebrato libro (e specie libro di poesia) esiste l'autografo esemplare e si voglia onorare il poeta e nell'istesso tempo si voglia dare la lettore (lettore non soltanto curioso) una testimonianza del come fecero a nascere quei concetti, quei pen-sieri, quei versi, ed anzi come fecero quei concetti quei pensieri a vestirsi di parole, a materialmente cambiarsi da fumo in inchiostro, bella cosa è ripubblicare, le pagine autografe, in fac-simile. Io non sono grafologo ma è certo che io stesso ho sempre esaminato con il massimo amore gli autografi del Petrarca, quelli del Leopardi ecc. ecc. Tutto, ad ogni modo, è più di buon gusto che non lo stare a ristampare un testo antico con l'aggiunta di illustrazioni moderne. M'accorgo d'avere esaurito, intanto, lo spazio di questa rubrica, quantunque ci siano tante altre cose da dire, tante altre osservazioni da fare, tante altre proposte di tante altre belle edizioni d'arte ecc. ecc.