Le carte vaganti di Dino Campana
di Paolo Pianigiani
Riportato alle cronache popolari dal film di Michele Placido, Dino Campana è tornato a far parlare di sé: convegni, pubbliche letture, premi letterari, articoli su giornali e riviste: come questo. Nacque a Marradi, il 20 Agosto 1885 e morì nel cronicario (ultimo rifugio per matti giudicati inguaribili) di Castelpulci il primo marzo del 1932, sembra per setticemia, che si era procurato scavalcando un filo spinato.
Questa morte trovata oltre un filo spinato, è quanto mai sintomatica: la sua vita è stata una continua fuga, oltre i fili spinati. Il suo unico libro, i Canti Orfici, dopo mille traversie editoriali e non, è tornato a diffondersi nelle librerie, edito da diverse case editrici, essendo scaduti i diritti acquistati da Vallecchi dal primo editore, Bruno Ravagli, tipografo in Marradi.
In un romanzo, uscito nel 1984, La notte della cometa, anche Sebastiano Vassalli ci aveva raccontato le vicende di Dino, facendoci rivivere la sua vita tormentata. Comunque un romanzo, non proprio una biografia, mancando i necessari riscontri a qualche notizia data di fantasia, e contaminato magari dal personalissimo “immedesimarsi” del suo autore con il poeta.
Questo romanzo è stato scandagliato impietosamente da Franco Scalini, nel suo Aspetti comici del romanzo “La notte della cometa” e osservazioni sui falsi contenuti. Risposta a Sebastiano Vassalli dal paese di Dino Campana, edito nel 1998. Con le necessarie polemiche, che ne sono derivate, immancabili.
Dino ci avrebbe riso di gusto, e la sua risata, che era, come ci hanno tramandato i biografi e gli amici che lo conobbero, assolutamente esplosiva, avrebbe fatto sobbalzare i tranquilli avventori delle Giubbe Rosse fiorentine o del Caffè San Pietro a Bologna, dove di solito vendeva, di tavolo in tavolo, il suo libro.
Franco Scalini è uno degli animatori, a Marradi, del Centro Studi Campaniani “E. Consolini”, ed è autore anche di una attenta Bibliografia Campaniana, che arriva fino al 2002 e contiene circa mille titoli. Con la fondazione del Centro Studi si è iniziata anche una vivace attività editoriale, che comprende fra l’altro due edizioni anastatiche dei Canti Orfici originali, quelli editi (in 1.000 copie) dal Ravagli nel 1914.
L’ultima, recentissima (agosto 2004), rigorosamente in 1.000 copie, si basa su quelle che vengono definite le “bozze”, donate da Campana stesso allo scrittore Paolo Toschi. Il Presidente dell’Associazione, Rodolfo Ridolfi, nell’introduzione, ci precisa come lo stesso Campana donasse solo le bozze all’amico Paolo Toschi, non potendogli regalare una delle copie del libro, destinate alla vendita: “tanto fra i poeti non si fanno complimenti”.
Come è noto, a parte i Canti Orfici ed alcune poesie pubblicate occasionalmente su riviste, di Campana ci rimangono alcuni manoscritti dispersi fra diversi fondi e fondazioni, di difficile se non impossibile accesso, pubblicati in edizioni rare e ormai introvabili.
Sarebbe auspicabile una edizione critica integrale, raccogliendo tutto il materiale attualmente disponibile. Come è stato fatto ad esempio per le lettere, scovate dovunque fossero, con meravigliosa capacità e assoluta dedizione, dal grande studioso di Campana, l’argentino Gabriel Chaco Millet (Souvenir d’un pendu, Napoli 1985).
Ma vediamo da vicino questi testi, che Dino ha scritto su taccuini di viaggio, su fogli sparsi che frequentavano le sue tasche immense, di grande viaggiatore.
Primo documento importante il Quaderno, ritrovato dai familiari di Campana in una vecchia cassa. Contiene quarantatre testi e, secondo Fiorenza Ceragioli, massima studiosa dei testi campaniani, è da collocarsi entro la prima metà del 1913. Il Quaderno fu pubblicato da Enrico Falqui nel 1942 in un volume della Vallecchi, intitolato Inediti.
Da questo volume le successive edizioni dei Canti Orfici, pubblicate da diversi editori e da diversi curatori, riprenderanno la lezione di alcune poesie, ma per leggerne le varianti occorre consultare un altro libro di Falqui, pubblicato sempre da Vallecchi nel 1960: Per una cronistoria dei Canti orfici, (con la “o” di Orfici scritto minuscolo, come, chissà perché e sbagliando, Falqui ha sempre riportato).
L’originale del Quaderno, donato da Manlio Campana, fratello del poeta, allo stesso Falqui, è scomparso ormai da anni: restano quattro foto di pagine di questo manoscritto, pubblicate insieme agli Inediti.
Come manoscritto immediatamente precedente i Canti Orfici, occorre naturalmente citare il celeberrimo Il più lungo giorno, affidato in lettura con tante speranze da Campana a Papini e da questi consegnato a Soffici, nel 1913. Soffici in un trasloco lo perse, costringendo il poeta (che sempre dichiarò, bluffando, quello scritto l’unica copia di cui disponeva delle sue poesie) a un lavoro di rielaborazione, che in pochissimi mesi lo portò alla stesura del testo dei Canti Orfici, come sono stati pubblicati.
Ritrovato, fra le carte di Soffici, dai familiari nel 1971, il manoscritto di Campana è stato studiato a fondo, con la conclusione che la perdita da parte di Soffici avesse in qualche modo contribuito alla realizzazione di un’opera se possibile migliore di quella perduta, che quindi può essere considerata solo una versione intermedia e non definitiva.
Recentemente, nel 2002, il critico d’arte Luigi Cavallo ci ha informato di come il famoso manoscritto fosse stato da lui individuato fra le carte di Soffici (scomparso nel 1964) già nel 1965, conservato in posizione privilegiata, insieme alle lettere di Mussolini. Quindi, non un ritrovamento, quello del ‘71, ma una scelta di opportunità dettata da chissà quale insondabile motivazione.
Purtroppo in questa operazione di restituzione ritardata al mondo, e ai legittimi eredi, del prezioso manoscritto, fu coinvolto un altro grande poeta, Mario Luzi, che divenne, in assoluta buona fede, il divulgatore ufficiale della notizia del “ritrovamento”, con il suo articolo sulla prima pagina del Corriere della Sera.
Rimasto per anni in casa Campana a Palermo, il manoscritto è stato recentemente messo all’asta e, grazie, all’intervento di una banca, dovrebbe finalmente trovare fissa dimora fra le silenziose sale del fondo manoscritti della biblioteca Marucelliana a Firenze. Il “dovrebbe” è di rito perché, interpellati direttamente, i responsabili della biblioteca non assicurano che si giunga a questa conclusione, pure dichiarata “cosa fatta” dalla stampa.
Comunque, anche in questo caso, incertezza e instabilità, per le carte superstiti.
Venendo ai testi posteriori alla pubblicazione dei Canti Orfici, occorre ricordare il Taccuino Matacotta, edito nel 1949, che prende il nome dal suo curatore, Franco Matacotta.
Nel 1916, in agosto, ha inizio la storia d’amore fra Dino e Sibilla Aleramo, di cui ampiamente ha trattato il film Un viaggio chiamato amore.
A storia finita, pochi mesi dopo, a Sibilla rimasero le lettere che il poeta si portava dietro nei suoi spostamenti, e un quadernuccio a quadretti, a lei dedicato (a Sibilla gioconda e tranquilla), dove Dino aveva appuntato alcune varianti da inserire in una eventuale nuova pubblicazione dei Canti Orfici, e una serie di testi che in qualche modo rendono l’idea di quale direzione avrebbe preso la sua poesia, se non fosse stata fermata dall’arrivo della malattia, che lo confinò a Castelpulci, dal 1918 al 1932, anno della sua morte.
Franco Matacotta era un giovane studioso che, durante la sua decennale relazione con Sibilla Aleramo, ebbe diretto accesso alle carte campaniane, custodite dalla scrittrice nell’ormai mitico baule, insieme al carteggio, amoroso e non, di tutta la sua vita (si parla di circa 30.000 lettere, ora in deposito presso la Fondazione Gramsci, a Roma).
Nel 1949 pubblicò quello che adesso è conosciuto come il Taccuino Matacotta, che comprende anche le quattro poesie che Campana aveva dedicato a Sibilla.
In seguito vennero pubblicati il cosiddetto Taccuinetto faentino, da Domenico de Robertis (1960), un altro libriccino ritrovato da Manlio Campana e il Fascicolo marradese, un mazzetto di fogli piegato in due, trovato chissà dove da una cugina di Campana e pubblicato da Anna Ravagli nel 1972.
Del Taccuino Matacotta e del Taccuinetto Faentino ci ha reso una versione critica Fiorenza Ceragioli, nella sua edizione dei Taccuini (Scuola Normale Superiore di Pisa, 1990), curatissima con testo fotografato a fronte. La stessa studiosa aveva pubblicato la prima edizione commentata dei Canti Orfici (Vallecchi, 1985), che ancora oggi, dopo le sue tante edizioni, fa da riferimento a chi si voglia avvicinare alla poesia di Campana. Un'altra edizione, che consiglio ai lettori, è quella di Renato Martinoni, uscita recentemente nei Tascabili Einaudi
Una storia infinita o quasi, quella dei testi poetici di Dino Campana, rifiutati, lui vivente, dai principali editori dei sui tempi, pubblicati da tipografi di paese, perduti nei traslochi, ricomparsi dai cassoni, rubati alle amanti e battuti nelle aste. Testi che appaiono e scompaiono, come i barattieri nella pègola bollente di Malebolge, scampati ai raffi di Calcabrina e compagni, nel nulla crudele delle cose dimenticate. Rimane, immensa, la sua poesia: i versi di Genova sono un faro, ancora oggi, che illumina a giorno la lunga notte oscura della nostra letteratura.