Dino Campana, poeta a cavallo della cometa di Halley
Una biografia-racconto di Vassalli
di Maurizio Cucchi
(recensione a : Sebastiano Vassalli: «La notte della cometa». Einaudi, 240 pagine, 18.000 lire)
Su Tuttolibri, anno XI, n. 436. Supplemento a La Stampa del 5 Gennaio 1985
Chissà, forse sarebbe meglio se artisti, scrittori, poeti, potessero scomparire nell'opera, dandosi da fare, prima di andarsene, per cancellare ogni possibile traccia, per distruggere ogni documento o testimonianza della propria vita. È commovente l'interesse di chi si affanna attorno alla biografia di un autore amato; ma è sempre, anche, l'attività del biografo, o del lettore di biografie, un po' indecente e crudele.
Dino Campana, ad esempio, uno dei maggiori poeti del nostro secolo, fu un uomo senza pace, sempre o ovunque rigettato ai margini. Ma gli eventi della sua esistenza non sono, probabilmente, del tutto diversi da quelli di numerosi altri infelici. A renderli più interessanti per noi è l'esistenza della sua opera, dei Canti orfici: ma ciò che esplodeva in lui quando li scriveva nessuno potrà dircelo mai.
Sebastiano Vassalli ha scritto un libro senz'altro utile, cercando una via intermedia tra l'asciutta biografia e il romanzo di una vita. E ha anche, però, utilizzato Campana come soggetto esemplare di una condizione maledetta, di «esiliato nel presente», tipica — secondo Vassalli — dell'artista puro espulso dal contesto che non lo tollera, votato all'inevitabile sacrificio della propria vita.
Il libro, è frutto di un'indagine scrupolosa, e fornisce dati e dettagli che consentono al nostro gusto voyeuristico di spiare il poeta in vari momenti notevoli della sua vicenda. Così facciamo conoscenza col padre, maestro Giovanni Campana, non proprio cattivo, ma che è disposto a tollerare le stravaganze del figlio fino a un certo punto. Lui stesso, peraltro, il rispettabile padre del matto di Marradi, ebbe i suoi bravi «disturbi nevrastenici». Più gravi, sono i problemi con la madre «Fanny», che non riuscì mai a sopportare Dino e sulla quale Vassalli non fa tanti complimenti, arrivando a chiedersi persino se provasse «piacere nel sesso»...
I dati nudi e crudi prodotti da Vassalli sono le cose migliori del libro, mentre piuttosto inopportuni sono i dialoghetti immaginari tra i personaggi, che l'autore inserisce con dubbio gusto per rimpolpare il racconto. Documento eccezionale (il «più importante che sia rimasto del poeta», osserva con ragione Vassalli) è la «modula informativa per l'ammissione dei mentecatti nel Manicomio di Firenze», del 9 aprile 1909.
Il poeta folle, ventitreenne, vi risulta studente e benestante (ironia della parola...); è definito «molto studioso, di «ingegno pronto e vivace», «pericoloso per le persone di famiglia e per gli altri». Alla voce «cause fisiche e morali» (della pazzia) goffamente laconica la modula risponde: 'Eredità - Alcolismo». Ben diversa la portata di questa descrizione: «Il malato è oltremodo trascurato in famiglia e in società, tanto da attirare l'attenzione dei ragazzi che l'incontrano per le strade. Ha un odio speciale colla sua mamma, che è dovuta andar via di casa. È pericoloso specialmente dopo eccessive libazioni. Ripetutamente ha minacciato persone» eccetera. Ma nel 1909 ancora molte cose devono accadere a Campana, che viene presto dimesso. Altre importanti ce ne erano già state, come il viaggio in America: «Ventiquattro giorni di navigazione, Genova, isole del Capo Verde, Montevideo "capitale marina" del nuovo continente, Buenos Aires "grigia e velata", verso l'Argentina, col biglietto pagato, nell'ottobre del 1907; ad accoglierlo amici (o parenti) della famiglia Campana: «Suonavo il piano in Argentina — racconterà Dino ventanni più tardi —, quando non avevo denaro; suonavo nei ritrovi, nei bordelli. Poi andavo a girare per la campagna».
Il decennio che precede la definitiva cattura del «demente-, e il suo ricovero in manicomio, è quello di altri viaggi, della ripresa sempre accidentata degli studi, della contrazione della sifilide, dell'amore con Sibilla Aleramo, delle vicissitudini del manoscritto dei Canti orfici (stampati nel '14), delle storie penose con i letterati fiorentini. Papini, Soffici e anche Carrà lo vedono come l'uomo dei boschi, come il barbone, e lo deridono quasi come i suoi compaesani di Marradi; arroganti, lo escludono.
E ciò non può sorprendere: l'apparenza e i modi dell'autore dei Canti orfici dovevano essere spaventosi, e la grandezza non si legge negli occhi (né tutti sanno capirla subito dai testi...). Forse la beffa più grande Campana la riceve proprio dalla sorte, che lo fulmina nel manicomio quando ormai, dopo quattordici anni, sembra risvegliarsi, è pronto a uscire e si prepara un futuro. Un futuro che ha avuto, e continuerà ad avere postumo, nelle pagine che non muoiono del suo libro.