POLEMICA. Il libro del suo psichiatra divide i critici: il curatore contro Vassalli

Chi tradisce Campana?

E il poeta «pazzo» giocò lo psichiatra

 

di Mario Baudino

 

Da “La Stampa”, mercoledì 1 Febbraio 1995

 


Società e Cultura:

Dino Campana, torna il libro dei colloqui in manicomio E il poeta «pazzo» giocò lo psichiatra

Poeta è Dino Campana, rinchiuso vari anni in un manicomio. Indaghiamone i fatti particolari per conoscere l'ingegno e il carattere, per sapere quali influenze su di essi ebbe la patologia in cui cadde». Con questo scopo ambizioso lo psichiatra Carlo Pariani andò molte volte, a partire dall'8 novembre 1926, all'Asilo di Castel Pulci, presso Firenze, dove Campana restò fino alla morte, avvenuta il primo marzo del '32. Lunghi colloqui, che non gli permisero di concludere un bel niente, sul rapporto tra arte e follia, e in qualche modo neppure sulla malattia del ricoverato. Ma gli consentirono di scrivere un libretto pubblicato poco dopo la scomparsa del grande poeta, molto citato, da tempo introvabile: la Vita non romanzata di Dino Campana, che torna in libreria con l'editore Ponte alle Grazie, corredato da una piccola scelta di lettere fra quelle già apparse qualche anno fa per la Esi di Napoli.

Sono lettere molto interessanti: per esempio le poche righe dedicate a Giovanni Papini, nel 1916. «Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque mi troverò». Campana scherza, ma mica tanto. Il manoscritto di cui si parla è quello dei Canti Orfici (che lui aveva intitolato originariamente Il più lungo giorno), una delle vette nella poesia italiana del secolo. Papini aveva accettato di leggerlo, lo aveva preso in consegna e passato ad Ardengo Soffici, che subito lo smarrì. Ed era l'unica copia. Campana fu costretto a riscrivere tutto a memoria, per pubblicarlo da sé, con un tipografo di Marradi, il suo paese. Negli Anni 70, ordinando le carte di Soffici, quel prezioso incunabolo smarrito saltò fuori: si scoprì che le differenze con la riscrittura a memoria erano minime.

I Canti orfici sono un capolavoro diseguale e unico, un grande grido che segna un punto di svolta nella poesia del primo Novecento, e forse chiude la stagione degli avventurieri, degli ispirati e dei «folli», prima di Ungaretti e Montale. E il loro autore è una personalità straziante e gigantesca di «folle» e di vagabondo. La sua biografia, fatta di viaggi interminabili e di sregolatezze ha spinto tradizionalmente ad avvicinare il suo nome a quello di Rimbaud (parallelo che naturalmente fa anche Pariani). Come Rimbaud è un irregolare: nato nel 1885 a Marradi, sull'Appennino fra Emilia e Toscana comincia presto un'odissea di scuola in scuola, anche con una brevissima permanenza all'Accademia militare di Modena. Poi i vagabondaggi si estendono all'Europa, con una puntata anche in Sud America, fra arresti e ricoveri in case di cura, lavori saltuari, vita da zingaro.

Ma Campana è anche e soprattutto, insieme a Ezra Pound, uno dei due grandi poeti del Novecento che scelsero il silenzio, e ne vennero aggrediti e pervasi. Pound, rilasciato dal manicomio criminale dopo la seconda guerra mondiale, non volle più parlare. Campana, dal giorno del definitivo ricovero, non scrisse più, in qualche modo non parlò più, se non attraverso le poche lettere e le note riportate dallo psichiatra. Gli incontri fra il medico e il poeta, nonostante il tono cortese, furono in realtà scontri. Campana non vuole dire, vuole difendere sé stesso e soprattutto la sua poesia. Esagera nei deliri da schizofrenico, si battezza Dino Edison l'uomo elettrico, e racconta allo psichiatra quello che il medico sa benissimo, e cioè gli elettrochoc con cui viene curato. Per il resto, oppone uno schermo impastato di un perbenismo tanto simile a quello del suo interlocutore da apparire quasi ironico.

Il Pariani, al primo colloquio, si dichiara «ammiratore de' suoi lavori letterari», e lui per tutta risposta gli dice: «Ero una volta scrittore, ma ho dovuto smettere per la mente indebolita. Non connetto le idee, non seguo... Ora bisogna mi occupi di affari più importanti», il che è una bella trappola logica. Racconta la sua vita, le grandi camminate a piedi, i viaggi, le miserie e gli arresti, ma non si lascia sfuggire una parola su Sibilla Aleramo, la scrittrice con cui ebbe un furibondo amore poco prima del ricovero. Preferisce parlare dell'Argentina: -«Sono stato ad ammucchiare i terrapieni delle ferrovie... Si dorme fuori nelle tende. È un lavoro leggero ma monotono». E non una parola sulle sue letture, raffinatissime per quegli anni. Campana imparò presto il tedesco e l'inglese, lesse con tutta probabilità Freud e Jung, e tradusse Bertrand Russel, ma tutto ciò che confida allo psichiatra, di passaggio, è all'insegna di un notevolissimo understatement: «Varie lingue le conoscevo bene».

Quando, nel '28, grazie all'amico Bino Binazzi la Vallecchi stampa finalmente un'edizione commerciale dei Canti Orfici, Campana, lucidissimo, ne rileva gli errori e le inclusioni arbitrarie. E Pariani annota. Se lo psichiatra insiste nel sottolineare le grandi lodi del prefatore, arrossisce: «Ero un po' puerile». Le donne amate, le sconosciute che lo sedussero? «Fantasie». Le alchimie linguistiche dei suoi testi più difficili? «Effetti musicali». E via di seguito, per giorni e anni di manicomio. Quel che Pariani non poteva capire era quel silenzio come scelta. Lo notò Pier Paolo Pasolini in un breve saggio che si può leggere in Descrizioni di descrizioni, dove però preferì sviluppare altre considerazioni sull'appropriazione che, sia di Campana sia di Pound, avrebbe fatto in modo esclusivo una «cultura di destra».

Eppure il silenzio è proprio ciò che accomuna i due poeti. Un silenzio che nasce forse da una qualità comune, o da una maledizione condivisa. E il silenzio, la dura spietata regola del silenzio come punto d'arrivo della sua poesia, è ciò che Campana racconta al Pariani. Sebastiano Vassalli in uno dei suoi libri più belli (La notte della cometa, Einaudi) ricostruisce una appassionata biografia del poeta. E a Pariani concede poco, anzi nulla. Lo considera un persecutore che scrisse un «mediocrissimo libro». Ma utile, e ad insaputa dell'autore. Pariani ha scritto (fra l'altro male) il libro del silenzio. Senza saperlo, ha registrato una strenua, astutissima difesa della poesia.

 


 

Lo SCRITTORE

 

«Quell'opera è piena di falsi su un prigioniero in ospedale»

 

di Marco Neirotti

 

Sebastiano Vassalli non si scompone: «Quello del curatore mi sembra una difesa d'ufficio. Ma io non  me la sono presa con lui, che non mi interessava: tant'è che nemmeno l'ho nominato»

 

Lui però è furente.

«Ripeto: di lui non mi curo e lo considero irrilevante nella pole­mica, se non per il fatto di essersi prestato a fare il servo sciocco».

 

Però avanza critiche ai contenuti del suo articolo.

«Io ho contestato il riproporre an­cora quel testo, per di più dimez­zato con un'etichetta slogan: "Vi­ta non romanzata"».

 

Pariani incontrò più volte Campana.

«La vita del poeta scritta da Paria­ni è desunta da interrogatori. Non è romanzata: è quasi tutta falsa. Basta immaginarsi che cos'era un manicomio negli Anni Venti, dove il regime di coercizione era molto più duro che in carcere. In quel clima Pariani arrivava ogni tanto con la sua valigetta da Firenze, andava in direzione, si faceva portare in una saletta riservata il mentecatto, un Campana sempre più recalcitrante. Il quale non po­teva rifiutare i colloqui: allora non si puniva con l'elettroshock, ma con elettricità allo stato pu­ro».

 

Dichiarazioni estorte?

«La regola era: mandami su il mentecatto Campana. Quello sali­va. Pariani tirava fuori i Canti or­fici e diceva: eravamo arrivati a pagina 40. In quel contesto chiun­que legga in modo intelligente il libro di Pariani ne può accettare la riproposta: serve a chiarire la teoria della follia inscindibile fra interrogato e interrogante. E Campana eludeva le domande nel modo più diretto e intelligente».