Paolo Emilio Poesio: Così Campana Dino vive
Quasi un uomo, di Gabriel Cacho Millet
Pubblicato su La Nazione, 2 agosto 1977 |
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di Paolo Emilio Poesio |
Le vuote occhiaie rosse dei palchi si affacciano sulla ottocentesca sala in disarmo del teatro degli Animosi: il palcoscenico è nudo, spoglio, con due porte sul fondo: una è chiusa, l'altra, aperta, lascia scaturire una lama di luce, accecante come se provenisse da una surreale anticamera dell'ignoto. Nel mezzo della scena un "castello" di legno, di quelli usati dai manifattori: ai lati, gradinate anch'esse di legno perché parte del pubblico vi si possa sistemare. In platea, seggiole di fortuna.
Il locale è in restauro, ma una volta tanto c'è da ringraziare che i lavori non siano stati portati a termine, perché nessun ambiente meglio di questo poteva prestarsi a ospitare - così vagamente allucinante nella sua desolazione - Quasi un uomo, il lungo monologo in due tempi di Gabriel Cacho Millet che, interpretato da Mario Maranzana, ha fatto rivivere la tragica fascinosa personalità di Dino Campana nei luoghi stessi ove il poeta vide la luce.
Marradi, e non solo Marradi - direi l'intera Italia letteraria dei primi vent'anni del secolo e anche più - non comprese Campana: ma ora ha voluto che di lontano tornasse a lei anche Dino, in questa singolare opera di poesia che un argentino, Cacho Millet appunto, ha composto fondendo insieme - attraverso tre appassionanti anni di lavoro - elementi diversi: pagine di Campana, documenti critico-storici e la propria lirica, esaltante "invenzione" di autentico poeta.
Il monologo, è già stato detto, parte da una finzione scenica: si immagina che un gruppo di visitatori (il pubblico) abbia avuto l'autorizzazione di recarsi in visita al manicomio di Castel Pulci - ove Campana fu rinchiuso per quattordici anni - per avvicinarvi il poeta e sentirlo parlare di sé, della sua vita, dei suoi segreti tormenti, delle sue fantasie deliranti. Un espediente che permette all'interprete di creare a tutto tondo, in un susseguirsi di sorrisi e di sospetti, di abbandoni e di crisi nervose, di sussurri e di gridi lacerati, il dramma dell'uomo-poeta, dell'"Orfeo folle", come lo chiamò Sibilla Aleramo.
Eccolo, quindi, Dino Campana, dapprima in un corretto abito civile, poi nella bianca pressoché militaresca uniforme del recluso di Castel Pulci, confessarsi: dalle sue labbra ora timide, impacciate, poi aggrumate di ironia salace, poi aperte al candore innocente o strette nell'impeto iroso escono parole che si fanno fantasmi. Di qua gli incubi delle persecuzioni - immaginarie - di una "polizia marconiana" capace di fulminarlo con le onde hertziane, di là l'evocazione della vita errabonda, felice nell'infelicità, gli incontri con i letterati "ufficiali", le delusioni, i rancori, i disprezzi di questo poeta maledetto" nato diverso in un paese dove di poeti maledetti non era traccia.
Innocue filippiche si alternano a lucide disamine (così come del resto testimoniò il dottor Carlo Pariani nella sua famosa Vita non romanzata) e si intrecciano nomi amati-aborriti, Papini e Soffici, D'Annunzio e Marinetti, mentre lacerti di un'esistenza vissuta - il disperato amore per PAleramo, i giorni nella vasta pampa argentina, la memoria dei compagni di sventura come "il russo" che diviene emblematico personaggio di un'epoca in tumulto - si affastellano e si dipanano alternandosi a brani dei Canti orfici, a notazioni rapide, a spunti polemici per la riedizione dei Canti fatta da Bino Binazzi.
"Così Campana Dino vive" : e la battuta diviene tema atroce e stupefacente perché è attraverso questa follia che il lirismo intenso dell'"Orfeo folle" prende corpo e ragione, mediata com'è dalla commossa prosa di Gabriel Cacho Millet. "Non c'è posto per i poeti": non c'era al tempo di Campana, non c'è forse oggi. Cacho Millet parla agli uomini del suo tempo per bocca di un poeta senza tempo. E lo straordinario è che questo testo appare come un blocco unico nel quale non riesci a distinguere le linee di sutura fra citazione e invenzione, tanto profonda è immedesimazione fra autore e personaggio.
Mario Maranzana interpreta Dino Campana a Castel Pulci
Immedesimazione che Mario Maranzana dal canto suo ha reso ancora più palpitante: autore anch'egli - quale traduttore e adattatore del testo originale - la sua recitazione ha apportato un peso indiscutibile ai valori della parola scritta. Un gioco costantemente misurato e colorito, un denso, sofferto trapasso dal tragico al grottesco, dal patito all'irritante e all'irritato gli hanno consentito di far sì che il monologo sembrasse gremirsi di voci differenti: e ogni invenzione mimica, dal poeta che si chiude nella ritirata del treno al poeta che mostra i suoi tesori, foglietti di appunti, ritocchi, note ai Canti orfici, al poeta che evoca con distaccata disperazione le proprie liriche, ogni invenzione mimica, dicevo, è stata una glossa chiarificatrice, uno stimolo ad avvicinare l'intima verità di Dino Campana...