bacchelli bologna 


Dino Campana, via Zamboni 52


Gabriel Cacho Millet
[giornalista e storico letterario]

 
 
 
Dal 25 maggio al 29 giugno 2002 una mostra bolognese ha divulgato autografi e documenti originali relativi alla permanenza di Dino Campana a Bologna negli anni che precedono la stampa dei Canti Orfici (1914), esaminando in particolare i rapporti tra il poeta e i periodici goliardici. L'esposizione, curata da Marco Antonio Bazzocchi e Gabriel Cacho Millet, è stata organizzata dalla Biblioteca dell'Archiginnasio (dove ha avuto luogo) ed è stata promossa dall'Associazione "Premio letterario Dino Campana" e dalla Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'IBC (che con la Biblioteca dell'Archiginnasio ha recentemente acquisito gli originali campaniani del Fondo "Ravagli"). Dal catalogo - I portici della poesia: Dino Campana a Bologna (1912-1914), edito dall'IBC e da Pàtron Editore nella collana ERBA - Emilia Romagna Biblioteche Archivi (46) - pubblichiamo un estratto del saggio di uno dei curatori.

 

"O bellezza o tu sola: andare, andare!". E su un binario della vecchia stazione ferroviaria di Bologna tutto cominciò per Dino Campana poeta errabondo. Era l'estate 1906. Lo studente di chimica, matricola il 24 novembre 1903, trovandosi in quella stazione, vede un treno in partenza per Milano. "Sentii" - raccontò a Mario Bejor - "che in quel treno fuggiva la mia vita! Vi balzai su, e non avendo che due soldi in tasca, mi nascosi nel gabinetto e mi vi chiusi fino a Milano. Passai poi in Isvizzera a piedi, e di là a Parigi ...".Ne La notte Campana conferma tra le righe quanto l'amico ricordava di quella fuga in cui varcò le Alpi:

[...] ero giovane, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza [...]. Ero bello di tormento, inquieto, pallido, assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggìi. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui audivo il canto nascente dall'infinito del sogno.

È la sua prima grande fuga. Quando la polizia di frontiera lo ferma a Bardonecchia, proveniente dalla Francia, alla domanda su quale sia la sua attuale professione, egli non risponde piú studente, ma "scrivano",2 cioè, uno che scrive per conto di altri. Il fermo coincide con il tempo in cui avrebbe cominciato a comporre i primi versi. "Viaggiando avevo delle impressioni d'arte; le scrissi. [...] Avrò avuto venti anni ...".3

È saputo che il giovane vagabondo pagò un alto prezzo per quella fuga. Sindaco in testa, i notabili del suo paese, il medico condotto, un possidente e un rispettabile pensionato attestarono che Campana Dino, di anni 21 "da qualche tempo ha dato segni di demenza precoce e quindi è necessario sottoporlo ad una cura e toglierlo dai pericoli del suo stato impulsivamente irritabile e per la sua vita errabonda che lo potrebbe esporre a gravi pericoli".4 Letta la domanda del sindaco, il pretore del Mandamento di Marradi ordina l'internamento dell'alienato mentale nel Manicomio provinciale di Bologna, con sede in Imola. Se il padre non si fosse deciso a "ritirare" il figliolo dopo due mesi di degenza, nonostante i medici lo giudicassero uno "psicopatico grave", il poeta Campana non sarebbe mai esistito.

E Dino Campana poeta "da leggere" cominciò a esistere a Bologna, non nella Bologna "dotta e sacerdotale", ma in quella burlona e spensierata della scapigliatura goliardica. Infatti Campana vide pubblicati i suoi versi e prose da "poeta dei due mondi" per la prima volta su due fogli goliardici, fatta eccezione per i Vecchi versi,5 le "parole rotte" che nello scirocco serale a Piazza San Petronio "il vicendevole vento / diceva per un'ansia solitaria". Nei numeri unici de "Il Papiro" e "Il goliardo" vennero infatti editi, nel 1912 e 1913, ad opera di Federico Ravagli, alcuni scritti dello studente di chimica Dino Campana: sul primo apparvero Montagna - La Chimera, Le cafard (Nostalgia del viaggio) Dualismo - Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita Tchegarray, a firma rispettivamente di "Campanone", "Campanula", e "Din-don"; sul secondo invece uno scorcio de La notte, preludio dei Canti Orfici, col titolo Torre rossa, e a firma "Dino Campana".

In questa città dove "non succede mai nulla", "città di beghine e di ruffiani, mai un omicidio, mai un fatto di sangue", il poeta appena edito ebbe un "accesso mentale". Poeta e pazzo a Bologna dunque. Campana Dino di Giovanni di anni 23, nativo di Marradi, alunno presso la locale università, entra nella "cronaca nera" del "Giornale del Mattino" del 27 dicembre 1912 per aver dato in escandescenze nella pubblica via:

[...] verso le 16 il Campana accompagnato da due colleghi, certi Quirico Dall'Oca dimorante in via Mazzini al n. 42 e Bucci Paolo, dimorante in via Cartoleria al n. 36, si era diretto alla sua abitazione situata nella casa n. 52 di via Zamboni. Nel salire le scale egli si era incontrato con un giovane cameriere del prof. Gorrieri, dimorante al n. 4 della stessa via, il quale scendeva seguito da un piccolo cane. Il Campana, forse colto da un accesso mentale aveva afferrato la bestia lanciandola contro una ragazza che si accingeva a salire le stesse scale./ Il cameriere del Gorrieri aveva naturalmente protestato contro il giovanotto, ma essendoglisi questi lanciato contro con minaccie egli era fuggito ricoverandosi nel caffè sottostante. Quivi il Campana lo aveva inseguito per percuoterlo, ma trattenuto dai presenti era stato infine messo fuori dal caffè proprio nel momento in cui sopraggiungeva il comandante delle guardie municipali Dalmonte-Casoni. Il Campana, il quale pare abbia già altra volta dato segni di squilibrio mentale, è tuttora trattenuto all'ospedale maggiore [...].6

Le versioni dell'episodio sono tante quanti furono "i narratori" dello stesso: Federico Ravagli, Mario Bejor, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Raimondi e altri, ma il primo a manipolarlo fu proprio Campana che in O poesia poesia poesia, collocando i fatti in uno scenario diverso, scrisse:

Stride la troia perversa al quadrivio

Poiché l'elegantone le rubò il cagnolino

Saltella una cocotte cavalletta

Da un marciapiede ad un altro tutta verde

E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram.7

Fra i testimoni della disavventura bolognese di Campana spunta anche Giorgio Morandi. Egli vide appunto per la prima volta "il povero Dino alle prese coi birri per avere accoppato un brutto cagnolo da signora". È Raimondi che lo racconta, in un introvabile articolo dedicato al pittore bolognese sul "Giornale Nuovo" del 12 aprile 1923.8 Stando alle notizie su "Il Giornale del Mattino", chi "ruba" il cane è lo stesso Campana e non ad una "troia", ma al cameriere di un professore di via Zamboni. Bejor aggiunge che, dopo due o tre giorni, Campana fu invitato dalla polizia a lasciare Bologna, ma fino ad oggi nessun documento della Questura o della Pubblica Sicurezza conferma tale misura, anzi egli si trattenne forse fino al 20 febbraio 1913 nella città, dove Ravagli ha appena stampato sul "Goliardo" Torre rossa. Da una lettera del segretario della Facoltà di lettere e filosofia di Bologna, Nicola Spano, al padre del poeta, sembrerebbe che Campana abbia cambiato università non prima del marzo 1913 e che si sia trasferito a Genova. A Bologna era certamente presente il 19 febbraio 1913, perché pagò a quella data L. 62,50 per la prima rata del quarto anno.

A Emilio Cecchi scrisse, nel 1916, una lettera in cui narra la sua vita da universitario perseguitato ed errante fino al 1914:

Tre anni fa ero tornato all'Università di Bologna a fare il quarto anno di Chimica pura. Quelli del mio paese che mi avevano sempre perseguitato con una infamia e una ferocia tutte lazzaronescamente italiane e clericali risultando che io non ero altro che un avanzo di galera perché varie volte ero stato rimpatriato pidocchioso e stracciato (sfuggivo le loro infamie) mi fecero fare dalla polizia una persecuzione che mi impedì di continuare. Dicevano che ero anarchico pericoloso, che volevo uccidere il re, i professori, ecc. Provai a cambiare università. Ma a Genova fu peggio. Allora fugii sui miei monti, sempre bestialmente perseguitato e insultato e scrissi in qualche mese i Canti Orfici includendo cose giá fatte. Dovevano essere la giustificazione della mia vita perché io ero fuori dalla legge [...]. Quegli sbirri fecero così perché mi sapevano strettamente sorvegliato e contro me tutto era lecito [...].

Infatti doveva aver trovato rifugio nei suoi monti nell'inverno del '14 perché nessuno sapeva dove fosse finito. A Bologna in quell'anno scomparve, come spesso gli succedeva, per riapparire all'improvviso, annunciando di aver trovato a Marradi un tipografo disposto a pubblicare un suo libro intitolato Canti Orfici.

"Orfici? Perché?" - si interrogava con gli amici Ravagli, suo editore di due anni prima. "Il punto chiave della cultura nietzschiana di Campana, per l'interpretazione dei Canti Orfici, come ha scritto Neuro Bonifazi, è l'orfismo di Nietszche quale si mostra soprattutto nella Nascita della tragedia, il ritorno al mito antichissimo, al binomio Dioniso-Apollo, e tutto l'estetismo della filosofia nietzschiana dell'arte".9 Ma Campana non parlò del suo debito con Nietzsche quando gli venne chiesto di spiegare la scelta di quel titolo. Egli evocò, ricorda Ravagli, uno strano testo misteriosofico divulgativo scritto da Edouard Schuré, intitolato I grandi iniziati. Ravagli non ricorda se fu lo stesso Campana a suggerirgli la lettura del terzo capitolo del volumetto di Schuré, dove parla delle sacerdotesse, dei riti, dei sacrifici, delle apparizioni.

Nel capoluogo emiliano Campana conobbe il giornalista e poeta toscano Bino Binazzi, poi diventato suo amico fraterno. Binazzi era l'autore di una poesia dal titolo inquietante: Canto Orfico. Campana, mentre riscriveva il suo unico libro e parlava con gli amici bolognesi di Schuré e dei miti solari e di orfismo, aveva presente anche la poesia giovanile del nuovo amico? Nessuno ha approfondito l'argomento, ma indicativa è l'epigrafe tratta da Les grands initiés: "... et la lumière est aussi la parole de vie".

Sul "Giornale del Mattino" del 24 dicembre 1914 Binazzi pubblicò anche la prima favorevole recensione ai Canti Orfici, Un poeta romagnolo (Dino Campana), suscitando l'acida reazione del fiorentino per antonomasia, Giovanni Papini, che accusò il recensore di esaltare "una poesia di second'ordine".

[...]

Intanto, dopo il primo riconoscimento di Binazzi, sul "Giornale del Mattino", Campana, perché "povero", vende personalmente il suo libro nei bar. Per avere maggiore presa tra gli eventuali acquirenti giunse in alcuni casi a sostituire in copertina il nome del suo primo stampatore - definito a volte "un brute de mon village" ed altre "il coscienzioso coraggioso e paziente stampatore sig. Bruno Ravagli".10 Tale è il caso dell'esemplare toccato (venduto?) a Giorgio Morandi; Campana ha cassato le parole: "Marradi tipografia F. Ravagli / 1914" e al suo posto ha scritto "Libreria Gonnelli / Via Cavour-Firenze". È da dire che il prestigioso libraio fiorentino aveva in effetti reclamizzato i Canti nel proprio catalogo di novembre-dicembre e sulla rivista "Lacerba" del 15 novembre 1914.

Probabilmente Morandi acquistò il libro da Campana nell'autunno del 1914, nei giorni in cui il poeta "smerciava" i suoi Canti, a lire 2,50 con o senza dedica, al bar San Pietro di Bologna, così come era solito fare alle Giubbe Rosse e al Paszkowski di Firenze, prima del suo misterioso viaggio in Sardegna. Raimondi racconta, nel suo primo scritto su Morandi già citato, che il poeta e il pittore furono "quasi" amici:

Certo, questo è bene un interno bolognese, pieno di silenzioso riposo estivo, in una di queste logore case della via Fondazza, di San Petronio vecchio, di via del Piombo, nelle quali il poeta Dino Campana ha indugiato a scoprire un poco di oro crepuscolare sulla pietra rossa delle mura, di vagabondaggio in vagabondaggio, un giorno lontano. Essendosi fiutati erano quasi amici, Morandi e Campana.

La "quasi amicizia" tra i due trova conferma nella dedica del poeta al pittore, scritta sulla copia dei Canti Orfici, "acquistata" da Morandi e scoperta recentemente da Marilena Pasquali tra le carte e i libri dell'artista conservati presso il Museo Morandi di Bologna:

All'eccellente pittore

Giorgio Morandi

con cordialità.

Dino Campana.

La data, inesistente, può essere fissata intorno all'ultimo trimestre del 1914. Ma qualche parola va spesa ancora sul significato della dedica, in cui Morandi è qualificato "eccellente pittore". Non è, a mio parere, un giudizio di valore per cui si possa lecitamente sostenere che Campana sia stato uno stimatore di Morandi. Il poeta considerava "eccellenti" tutti quegli artisti o scrittori che avevano letto il suo libro, soprattutto se acquistato direttamente da lui. Se veniva richiesta espressamente la dedica poi, un "eccellente" o altro elogio non veniva negato a nessuno, si chiamasse Antonio Salvetti, Giovanni Costetti, Mario Moschi, Francesco Meriano o Giorgio Morandi. È dunque fondato il sospetto che le parole che figurano nell'esemplare acquistato da Morandi rappresentino una dedica "di comodo", simile a tante altre. D'altra parte è da considerare che i giudizi campaniani sull'arte non sono mai superficiali. Quanti l'hanno conosciuto dicono che era tutt'altro che un approssimativo nel parlare sull'arte, quando si trovava davanti a un quadro. Dice Emilio Cecchi a Giovanni Boine nel 1916:

Campana fa una bella impressione, di lirico fuggiasco: una testa che pare un ritratto di Van Gogh, o meglio, l'interpretazione di una testa classica di Giuliano l'apostata, con i capelli e la "barbiche" rossa, per mano di un Van Gogh. Intelligentissimo, pieno di vista fine sull'arte.

Ardengo Soffici ne rievoca i modi bizzarri, ma non solo, mentre percorre le sale della Mostra Futurista, aperta il 12 dicembre 1913 a Firenze, in via Cavour:

[...] si aggirava disinvolto per il locale, tra la folla cittadinesca, sbalordita di tutto quello che vedeva, e di lui; si fermava ogni tanto a osservare con attenzione qualche dipinto, del quale diceva poi cose stranamente acute e che rivelavano in lui tutt'altro che un incompetente anche in quell'arte non sua. Su uno di quei quadri improvvisò persino, lì per lì, una poesia che più tardi stampò dedicandomela.11

Quel dipinto, distrutto dall'autore dopo essere stato esposto a Londra nel 1917, si intitolava Dinamismo plastico, più noto come Danza dei pederasti. Campana improvvisò, guardando quel quadro scandaloso, una sorta di tango, forte dei suoni e del ritmo orecchiati nei bordelli del bajo Buenos Aires, dove si era guadagnato da vivere, suonando il pianoforte. La poesia si intitola: Fantasia su un quadro d'Ardengo Soffici, e il "tango " gli permette di solfeggiare i segni pittorici e mettere in musica il soggetto dell'opera di Soffici:

Faccia, zig zag anatomico che oscura

La passione torva di una vecchia luna

Che guarda sospesa al soffitto

In una taverna café chantant

D'America: la rossa velocità

Di luci funambola che tanga

Spagnola cinerina

Isterica in tango di luci si disfà:

Che guarda nel café chantant

D'America:

Sul piano martellato tre

Fiammelle rosse si sono accese da sé.

E Campana ironizza sull'arte e gli artisti che non gli garbano. Basti ad esempio il giudizio sprezzante su Soffici pittore nella lettera a Emilio Cecchi del 1916, a proposito della copertina di BIF§ZF + 18 - Simultaneità e Chimismi lirici - Firenze, ed. della "Voce", 1915:

Ho visto Bizzoffe di Soffici (che monumento. Eppure l'origine di Soffici è chiara. Da giovane era commesso di profumeria). Così ora si vede nei suoi colori falsi, le boccette sfaccettate (il suo cubismo) ecc. ecc. che non è stato altro che un volgarissimo commesso di profumeria.

Nella stessa lettera afferma che Segantini, con Dante e Leopardi, rappresenta il tipo morale superiore, "la purezza del germano: ideale non reale", la stessa che, a suo dire, egli ha conservato nei Canti Orfici. Quel "dolce e severo" Segantini (di cui ha letto in tedesco il saggio psicoanalitico di Karl Abraham), ha espresso divinamente "la religione della maternità del lavoro e dell'amore", che già si trova in Millet.12 In tedesco ha letto, tra i primi in Italia, anche il saggio di Freud su Leonardo.

Bejor evoca il poeta marradese nel citato libricino, Campana a Bologna / 1911-1916, contemplando i due angeli del Costa nella chiesa di San Giovanni in Monte oppure parlando della Santa Cecilia di Raffaello. "Considera, gli diceva, come il pittore-poeta ha scelto il momento. La Santa rapita dal Coro Celeste ha sospesa la musica. Innalzata da questa a quello ora si tace e vede, e la melodia del cielo - fa congiungere gli occhi dell'anima della santa alla schiera degli angioli cantori".13

Campana era "pieno di vista fine sull'arte", ma al momento in cui parlò di "eccellente pittore" non ha voluto, credo, scoprire, innalzare o elogiare la pittura di Morandi. Forse ha ragione Raimondi, quando parla della "quasi amicizia" tra Morandi e Campana, perché forse più che di amicizia si dovrebbe parlare di un'intesa d'arte tra il poeta e il pittore che va cercata soprattutto nella comune folgorazione davanti alle cose, davanti al mistero delle cose. Mario Luzi scrisse una volta che Campana canta "la presenza umile della vita". E la singolarità di Morandi risiede nel "conferire una dimensione infinita, un senso arcano allo spettacolo quotidiano degli oggetti più umili. Capacità che negli spogli e scalcinati paesaggi diventa misura di rasserenata contemplazione".14 Nella sua poesia fissa un orizzonte che è dell'anima, non spaziale, malgrado sia stato quello straordinario "grassatore di strada" come lo chiamava Sbarbaro. Riflettendo con Primo Conti, mentre scrivevamo insieme le sue memorie, concludemmo che "un po' del fascino che Campana esercitava, ad esempio su Raimondi, sia da collegare con questo orizzonte dell'anima che ne `La Raccolta' anticipatrice dei `Valori Plastici', si riflette nella presenza di quegli artisti metafisici che Raimondi chiama nel suo giornale: De Chirico, Carrà, Morandi, de Pisis".

Per raggiungere questo orizzonte dell'anima Morandi non ha bisogno di allontanarsi da Bologna e dal suo studio. Campana invece viaggia per il mondo, ma il suo traguardo è sempre lo stesso: conferire una dimensione infinita, orfica, alla realtà. L'intesa con Morandi va cercata quindi in quel comune tormento, per cui le cose stesse dovevano essere partecipi d'eternità, e per far luce sull'argomento saranno utili alcuni segni di Morandi lasciati nel suo esemplare dei Canti Orfici.

A Bologna Campana seguita a frequentare saltuariamente i suoi amici di sempre, Ravagli, Binazzi, e ora un giovanissimo Giuseppe Raimondi, che così ricorda il primo incontro:

[...] Si stava, una volta, con Bino Binazzi nella stanza d'albergo dove egli alloggiava. Un patetico e miserabile alloggio l'albergo Giardinetto. Una casupola rugginosa allora, e adesso scomparsa, presso la stazione ferroviaria [...] quando, nel silenzio della notte, s'audì nella tromba delle scale rimbombare una voce, un grido che infuriava invocando: "Il poeta Binazzi! Binazzi! Binazzi!". L'amico, già in ciabatte, si affacciò sulle scale deserte. Così fu l'ingresso fra di noi di Campana. [...] La voce di Campana, a volte, si spegneva in una sorta di litania, di ripetizioni lamentose miste a contumelie. Le parole dovevano esprimere il sentimento di dolore e quasi l'insistito compianto per l'avvenuta distruzione dell'esistenza. La sua vita umana, di cui ritrovava nella memoria i lembi strappati a furia, i brandelli concentrati in pochi ricordi dispersi ma rintoccanti col suono di una cupa campana di spavento. La sua memoria era ossessionata da una triste e orribile armonia di suoni che vibravano su di un fondo violento di colore. [...] Io e Campana lasciammo l'Albergo Giardinetto attraversando il breve cortile di ghiaia. Fummo nella via dell'Indipendenza. [...] Eravamo giunti alla piazza del Nettuno. [...] Fu allora che egli, alzando gli occhi alla torre del palazzo del Comune, si avvide dell'orologio grande e rotondo infisso sul fianco della torre. L'orologio spandeva una quieta luce giallina. Campana lo indicò col dito e disse sottovoce: "Ecco il sole di mezzanotte"[...].

[...] Finita l'osservazione dell'orologio della torre si rivolse verso di me. Durante il nostro viaggio notturno, nessuno di noi due aveva parlato. Ed egli mi chiese: "Voi siete poeta?". Scossi il capo in segno di diniego. Egli allora aggiunse solo queste parole: "Si è fatto tardi", disse, "dovete andare a casa vostra"[...].15

Raimondi ha sempre affermato che Campana segnò la sua formazione umana così intensamente da lasciargli "una cicatrice magari rimarginata con gli anni, ma che ancora è visibile" nel suo corpo. In un articolo su Campana visionario egli si era schierato a favore di Binazzi, colpevole, secondo Papini, di aver visto in Campana il poeta maudit che in Italia non c'era. Lo scrittore bolognese aveva intitolato il suo scritto, pubblicato sul "Giorno" del 29 agosto 1977, L'ultimo "maledetto" d'Italia e in esso tornava al periodo dell'amicizia con Binazzi, prima dell'internamento definitivo di Campana in manicomio, affermando:

Un solo amico egli [Campana] ebbe negli anni prima del cancello, prima del muretto d'ospedale, Bino Binazzi, errabondo scrittore del nostro primo Novecento, anche lui fuori dalle regole della società borghese.

Binazzi si era compromesso molto di più di quanto non pensi Raimondi quando, insieme a Francesco Meriano, annunciò che a Bologna avrebbe fondato una rivista che poi chiamò "La Brigata" nella quale Campana sarebbe stato proclamato "il più grande poeta di questa generazione Italiana... ". Ironia della sorte, proprio in quel periodo Campana prende le distanze da Binazzi, giudicando che non si sia dato da fare abbastanza per trovargli un letto all'ospedale di Bologna, dove cercava di farsi ricoverare, e rifiuta "per ora" le parole di ammirazione dell'amico: "È vero che dice che sono il primo poeta d'Italia ma io preferisco essere l'ultimo poeta della Papuasia piuttosto che avere tali colleghi".16

[...]

Giuseppe Ravegnani ha scritto che Binazzi stimava Campana "perché in fatto di stramberia, batteva di parecchie lunghezze anche quella proverbiale di Dino". Strambo o meno, Binazzi offrì anche Campana lo spazio per recensire il libro di chi lo giudicava soltanto un matto, senza l'equilibrio necessario per essere un poeta ("La Brigata", II, 17, febbraio-marzo 1917, 159), con la precisazione della direzione della "Brigata" che la lettera è "piena di idee abbozzate, ma originalissime. È un documento di prim'ordine di uno dei piu forti poeti nostri, la cui vita non è meno interessante dell'opera, quindi anche questa lettera ha un significato lirico".

[...]

Non si può evocare Campana a Bologna, senza aggiungere nella lista degli amici o "quasi amici" il nome dello scrittore Riccardo Bacchelli. Nell'ormai lontano 1977, Bacchelli mi disse al telefono di aver perso durante la Grande Guerra tutte le missive che Campana gli aveva scritto e che s'era portato nella sua bisaccia di soldato, fino al Carso. In quella conversazione telefonica, che ricordo non senza una vena di malinconia, Bacchelli mi segnalò una sua rievocazione di Campana (Dino Campana triste a morte, "La Stampa", 17 aprile 1957) nella quale fra l'altro, si legge:

[...] A me, benché ci fossimo incontrati pochissime volte, aveva dato il suo maggiore attestato di simpatia: il libro in esemplare integro e non depennato, e l'appellativo di "vivente", "Caro vivente", come intestava le sue rare missive, di solito chiuse con l'amara sottoscrizione: "Triste a morte" [...].

Bacchelli ricordava anche che mentre aspettava di partire per il fronte, Campana era andato a trovarlo, per chiedergli un consiglio "avendo sentito parlare di nomine a ufficiali per titolo di studio". Per un "desiderio di regolarità" voleva andare in guerra con la nomina di ufficiale, "perché da soldato semplice non se la sentiva". Quest'uomo, "il meno uniformato" che Bacchelli avesse conosciuto, desiderava "indossare una uniforme". Un tale desiderio "molto umano", come scrive Bacchelli, era stato esternato da Campana, quattro anni prima, nel 1911. Nel mese di novembre di quell'anno presentò domanda alla Prefettura di Firenze, per participare al concorso di vice-commissario, indetto in quei giorni. Voleva forse rovesciare la sua condizione? Voleva l'uniforme per dominare e non essere più dominato, per ottenere una volta per tutte il rispetto dei suoi concittadini? Campana a Marradi, con uniforme, non sarebbe stato più "il mat" del paese, evocato come una minaccia dalle madri marradesi per mandare a letto i bambini. Il Ministero dell'interno però non giudicò il candidato in possesso "di tutti i requisiti richiesti dall'avviso di concorso", e a nulla servì che il richiedente dichiarasse che già nel 1908, in Argentina, era stato "pompiere" e che "i pompieri là hanno qualche incarico di mantenere l'ordine".

Ma Riccardo Bacchelli non potè far nulla per accontentarlo: il marradese era stato già riformato "per vizio di mente". Per essere preso ora sotto l'armi avrebbe dovuto sottoporsi ancora ad accertamenti medici. Dino, a detta di Bacchelli, non si sarebbe sentito in grado d'affrontare "quel genere d'osservazione e d'esperimento", perché era uno che "ne sapeva già qualcosa, uno, come di fatto accadde poi, che aveva nel sangue il più orribile fra tutti i morbi".

Tra le lettere e cartoline che Bacchelli dice di aver ricevuto da Campana, dieci anni dopo la mia conversazione telefonica con l'autore de Il mulino del Po venne alla luce un'unica splendida lettera, poi pubblicata da Elisabetta Graziosi.17 La missiva era rimasta fra le carte del Fondo Bacchelli conservate presso la bolognese Biblioteca comunale dell'Archiginnasio. In essa Campana smentisce almeno in parte quanto lo stesso Bacchelli scrisse su quell'incontro a Bologna, nella "primavera del 1915"(?). Benché avesse "il più orribile fra tutti i morbi" Campana si sottopose alle visite mediche. "Esco adesso dall'Ospedale Militare, in che stato", scrive proprio a Bacchelli il 26 ottobre 1917. All'Ospedale militare era veramente rimasto in osservazione una settimana, dal 19 al 26 ottobre, a conclusione della quale venne riformato definitivamente. A Binazzi aveva indicato il giorno dell'ingresso: "Dunque Bino, sono triste a morte e presto muoio, il che non mi impedirà d'andare soldato il 19 [ottobre]". A Bacchelli riferì invece la data dell'uscita dall'ospedale, cioè il 26 ottobre.

A Bacchelli però rivelò qualcosa di sé stesso che, essendo in procinto di varcare definitivamente le porte del manicomio, risulta incomprensibile, a meno che la diagnosi che lo diceva "affetto di alienazione mentale" non fosse sbagliata:

[...] Mi domando ora perché più spesso non ho pensato a te. Credo perché qualche cosa di semplice di integro di molto forte in te mi dava il pudore di me stesso e quindi l'orgoglio della mia diciamo non integrità.

La notizia del quarto e definitivo internamento in manicomio, il 12 gennaio 1918, arrivò in ritardo a Bacchelli, Binazzi e Raimondi. Quest'ultimo scrisse al pittore fiorentino Primo Conti, allora collaboratore de "La Raccolta", per chiedere informazioni più precise sul male di Campana. Le missive tra i due con notizie sulla fine della vita civile del poeta marradese fanno parte di una raccolta pubblicata recentemente.18 Nella cartolina del 5 aprile 1918 Raimondi scrive a Conti:

Io devo chiederti un favore: di recarti in via Jacopo Nardi 15, dalla signora di E. Cecchi per chiederle notizie di Dino Campana, il quale fu internato un mese o due fa al Manicomio di San Salvi: vorremmo sapere se ne è uscito e dove si trova presentemente. Vacci a nome mio e di Riccardo Bacchelli.

Cinque giorni dopo, il 10 aprile, il pittore fiorentino gli risponde:

Ma venendo alla cosa che ti interessa ti dirò che tanto la Signora Cecchi quanto Agnoletti e gli altri amici del povero grande Campana sono affatto privi di qualsiasi notizia da un bel pezzo. Scrisse [Campana] molto tempo fa una cartolina alla Signora [di] E. Cecchi dicendo di essere sempre costretto al manicomio di S. Salvi, e da quel giorno nessuno più l'ha visto né sentito. In ogni modo ho intanto incaricato un amico mio che ha un parente medico a quel manicomio, e non dispero di farti presto sapere migliori notizie.

Raimondi non s'accontenta delle vaghe informazioni fornite da Conti e con una cartolina dell'11 aprile ringrazia e chiede ancora:

Ti ringrazio molto di esserti interessato per Campana ma ti sarò ancor più grato se potrai mandarmi altre notizie; consiglia a quel tuo conoscente di assicurarsi se l'amico si trova ancora a San Salvi, se è stato trasferito in un altro ospedale o se è stato messo in libertà.

Conti, che sta per andare soldato a Mantova, promette di cercare di tutto per fargli sapere "notizie esatte" su Campana. Ma prima di chiudere la lettera, scritta in data 12 aprile, viene a trovarlo Mario Pieri, un suo amico che lavora alle Ferrovie del Regno e che è anche il "postino" dei futuristi fiorentini. Pieri, nipote del medico che ha in cura Campana, è portatore delle ultime notizie sul poeta malato. Le parole di Conti a Raimondi, scritte a matita, di corsa, contengono il primo annuncio dal Manicomio di San Salvi sul male di Campana:

Ore tre pomeridiane - In questo momento è venuto da me un carissimo amico, nipote del Dottor Arnolfo Taddei, che cura tuttora il nostro Campana all'Ospedale di San Salvi. Nonostante le ottime condizioni fisiche del poeta, il suo stato sembra inguaribile; e spesso viene in preda a uno stato di eccitazione mentale che lo porta alla mania di persecuzione.

Qualche giorno dopo Raimondi ringraziò Conti con una laconica cartolina, nella quale parlava anche a nome degli altri amici bolognesi che insieme a lui non dimenticavano Campana: Binazzi e Bacchelli:

Caro amico, grazie della premura che hai per me, e grazie per le notizie di Campana che purtroppo non sono troppo buone: era da prevedere ...! Un giorno scriverò a M. Pieri pregandolo di riferire gli auguri miei, di Binazzi, di Bacchelli per Campana.

Primo Conti a sua volta, l'8 settembre 1988 (morì un mese e mezzo dopo), volle inserire le parole scritte a Raimondi settant'anni prima in una sua rievocazione di Dino Campana a San Salvi, per dire "quanto di Campana gli piacesse la sua capacità di scansare il mondo".

Campana venne trasferito definitivamente dal manicomio di San Salvi a quello di Castel Pulci presso Badia a Settimo, negli stessi giorni in cui Raimondi, a nome suo, di Binazzi e di Bacchelli, aveva chiesto le sue notizie. Dopo quattordici anni di degenza Campana morì a Castel Pulci per "setticemia acuta". Venne sepolto nel vicino cimitero di San Colombano. Tre o quattro amici (Franchi, Michele Campana, Berto Ricci, Adriano Tilgher) scrissero sui giornali della sua scomparsa. Poi più nulla, finché Piero Bargellini, il sindaco dell'alluvione di Firenze, com'è stato chiamato, non lanciò da "Il Frontespizio" l'idea di una sottoscrizione per dare ai resti del poeta una degna sepoltura. Fu così che il corpo dell'errante autore dei Canti Orfici trovò pace in una restaurata cappella del Mille, ai piedi dello splendido campanile della chiesa di Badia a Settimo, grazie a quella sottoscrizione.

C'era, tra i sottoscrittori, ultimo nella lista, il "quasi amico" di Bologna e "eccellente pittore" Giorgio Morandi.19 Poi, nel 1944, un sergente tedesco con sette guastatori assicurarono alla base del campanile della chiesa di Badia a Settimo "quattro enormi bombe di aeroplano". Piero Bargellini racconta che "la cappellina scomparve" e che "tra le macerie s'intravedeva la lapide di Dino Campana spezzata in quattro". Ed è perciò che i nomi degli amici e del "quasi amico" di Bologna, che "pensarono" a un marmo per Campana, sono rimasti nel segreto di una lista inconsultabile.

Note

(1) D. Campana, Souvenir d'un pendu. Carteggio 1910-1931, a cura di G. C. Millet, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, p. 287.

(2) G. Cacho Millet, Dino Campana fuorilegge, Palermo, Novecento, 1985, p. 40.

(3) C. Pariani, Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 56-57.

(4) G. Cacho Millet, Dino Campana fuorilegge, cit., p. 41.

(5) D. Campana, Il più lungo giorno, 2 voll., Archivi - Vallecchi, Roma - Firenze, 1973, p. 32; D. Campana, Sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, a cura di G. C. Millet, Firenze, Olschki, 2000 (Provincia di Firenze - Cultura e memoria, 16), pp. 139-140.

(6) D. Campana, Souvenir d'un pendu, cit., p. 299 e pp. 289-290.

(7) D. Campana, Opera e contributi, a cura di E. Falqui, pref. di M. Luzi, note di D. De Robertis e S. Ramat, Carteggio con Sibilla Aleramo, a cura di N. Gallo, 2 voll., Firenze, Vallecchi, 1973: vol. I, p. 333.

(8) D. Campana, Sperso per il mondo, cit., p. 187.

(9) D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, intr. e note a cura di N. Bonifazi, Milano, Garzanti, 1977, p. XXIII.

(10) D. Campana, Souvenir d'un pendu, cit., p. 132; D. Campana, Canti Orfici, Marradi, Tip. Ravagli, 1914, p. 173.

(11) A. Soffici, Opere, vol. VI, Ricordi di vita artistica e letteraria, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 83.

(12) D. Campana, Souvenir d'un pendu, cit., p. 143 e p. 83.

(13) Ibidem, pp. 293-294.

(14) F. de Santi, Morandi, il mistero delle cose umili, "Il Messaggero", 18 agosto 2000.

(15) G. Raimondi, I tetti sulla città, Milano, Arnoldo Mondadori, 1977, pp. 82-85.

(16) D. Campana, Souvenir d'un pendu, cit., p. 149 e p. 175.

(17) E. Graziosi, Campana, Cardarelli e Bacchelli: Lettere e documenti inediti, "Filologia e Critica", XIII, I, gennaio-aprile 1988, p. 84.

(18) Primo Conti / Giuseppe Raimondi, Carteggio 1918-1980, a cura di P. Mania, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 2001, pp. 42-46.

(19) "Frontespizio", X, 7, luglio 1938, p. 441, ora in Dino Campana da Castel Pulci a Badia a Settimo, a cura di L. Bertolani e M. Moretti, Comune di Scandicci, 1999, p. 64.