Gabriel Cacho Millet: prefazione al "Ritrovamenti biografici e appunti testuali", di Stefano Drei

 

 

PREFAZIONE

Rilevare le ombre che ancora oscurano la biografia di Dino Campana, poeta randagio che tanto soffrì e che scomparve quasi dimenticato nella solitudine di una stanza di manicomio, è un ob­bligo d’amore. Lo chiedono le sue fughe dettate dalla disperazione, le intemperanze che erano la ribellione di chi non si sente amato e poi la miseria, l’asilo notturno, le carceri, gli ospedali, i manicomi e quella solitudine spaventosa di chi ha perduto la compagna più fedele e insostituibile, unica: la poesia.

Ci tocca oggi toglierlo dall’ombra, gettare luce sul suo calva­rio, mostrarlo come autore del solo libro che scrisse e del quale si compie il centenario della pubblicazione. Bisogna illuminare i lati oscuri, cercarlo anche in piccole cose che apparentemente hanno scarsa importanza perché alla luce di tale ricerca si rivela l’uomo e qualche cosa del poeta come sta facendo il meritorio professore di lettere del Liceo Torricelli di Faenza, Stefano Drei.

A lui si deve la scoperta del falso Campana ritratto nella foto­grafia più diffusa del liceale del Torricelli. Da mezzo secolo si cre­deva fosse Dino Campana.

Quando mi fu comunicata la notizia della scoperta, speravo che Drei si fosse sbagliato. Sul muro del mio studio avevo tenuta appesa per anni quella foto perché era la più bella e la sola che mi dava un’immagine “precisa” del Poeta. La tenevo cara come da ra­gazzo avevo appeso nella mia stanza la foto del Che Guevara. Così, con un certo rammarico mi vidi costretto a staccarla dal muro per­ché le ricerche di Drei confermavano senza ombra di dubbio che il giovinetto della foto non era Campana, ma un tale di nome Fi­lippo Tramonti, diventato con gli anni Cancelliere di Tribunale, secondo quanto riportava un annuario del Ministero di Giustizia. E Drei, non soddisfatto ancora del risultato ottenuto, seguitò a ri­cercare nelle anagrafi, negli archivi parrocchiali e perfino nei cimi­teri, l’identità dell’uomo che tutti credevano fosse Campana. E fu così che in uno dei cimiteri esplorati ritrovò un giorno la tomba di Filippo Tramonti con la sua foto. E non ci furono più dubbi.

Le indagini non si fermarono qui. Lo studioso da intrepido de­tective o meglio, da instancabile segugio, riuscì a scoprire ora un “vero” Campana cercando in un vecchio album di famiglia dell’avvocato Giacomo Mazzotti conservato nella casa delle figlie dell’ex-sindaco di Firenze, Luciano Baùsi. La foto, che ritrae il Poeta in gita con amici, non è più grande di un francobollo. E uno dei gitan­ti, l’avvocato Mazzotti, come se avesse voluto facilitare la scoperta, ebbe la felice idea di datare il giorno dell’escursione: «Sulla Falte­rona 2 Genn. 1912». Più fortuna di così…!

Nella sua prodigiosa avventura da investigatore campaniano il professore di Lettere del Torricelli ipotizza l’origine del titolo dei Canti Orfici e la scoperta della donna che si cela dietro un per­sonaggio del suo libro che ha lo shakespeariano nome di Ofelia. Per lo studioso Campana aveva in testa ancora alcuni riferimenti preziosi come un esametro delle Georgiche letto al Liceo che evoca la morte di Orfeo fatto a pezzi dalle Baccanti e che curiosamente coincide in parte con il verso di Whitman, che il Poeta di Marradi manipola e converte in colophon dei suoi canti: «They were all torn and cover’d with the boy’s blood [erano tutti stracciati e co­perti col sangue del ragazzo]».

A questo riferimento Drei ne asso­cia altri come i versi orfici del sacerdote e poeta francese, amico di Bino Binazzi, Louis Le Cardonnel. Drei immagina che «per qual­che chimismo della memoria, questi riferimenti si siano condensa­ti intorno al progetto di un titolo, un giorno in cui Dino si trovava seduto al tavolino di un caffè che aveva la lira nell’insegna e che da Orfeo prendeva nome, facendo riaffiorare alla mente dell’ex-liceale un esametro virgiliano: a poche decine di metri dalla botte­ga di un’ostessa [Ofelia Cimatti], anzi della sua ostessa, che aveva le ciglia nere e celava nel nome shakespeariano segrete assonanze. Nella piazza di Faenza davanti una ‘grossa torre barocca’».

Altra ipotesi: partendo dagli interessi di Dino per l’arte figu­rativa il ricercatore faentino conclude che la tempera sul muro di Romolo Liverani, “Il Ponte delle Torri” che si trova attualmente nella vecchia sede della Società Elettrica di Faenza ben potrebbe aver ispirato Campana per comporre una delle pagine più belle dell’inizio del suo libro. È una Faenza mitica quella che Campana evoca, scrive Drei, strappata al suo immaginario.

Una scoperta: nel 1901 appare il nome di Dino Campana per la prima volta in un documento a stampa. Si tratta di una sorta di diploma in onore di Giosuè Carducci in occasione dei suoi qua-rant’anni di insegnamento universitario. Si ignora se tra gli studen­ti del Liceo Torricelli che consegnarono nel salotto della contessa Silvia Pasolini Zanelli il diploma al “Primo poeta d’Italia” si trova­va Dino. Manlio Campana, il fratello, ha raccontato che tutti e due amavano Carducci e che, “ancora prima di saperlo comprendere in tutta la Sua grandezza, avevamo avuto occasione di conoscere per­sonalmente (una volta) a Faenza, nella casa dei conti Pasolini, dove Egli capitava sovente”. È probabile che i fratelli abbiano soltanto visto Carducci seduto a un caffè, sito a pochi passi dal palazzo della contessa Pasolini Zanelli e che non si trattò di un vero incontro. Ungaretti, scrivendo a Walter della Monica perché seguitasse a cercare tutte le informazioni possibili su Dino Campana, osservò: «Delle testimonianze dei parenti non saprei che cosa farmene». E forse neppure noi.

Questo libro d’indagini campaniane, così personale e indipen­dente, raccoglie frammenti dell’arte e della vita del Poeta di Marradi. Ci sono critici che sostengono senza incertezza alcuna che le notizie biografiche “hanno un valore minimo, alla fine trascurabi­le”. Chi lo dice ha dimenticato che in Campana poeta e destino sono inseparabili.