Gabriel Cacho Millet: Le lunghe braccia dell'autunno
Editore Mauro Baroni Viareggio Lucca collana Jazz di Mediterranea |
recensione di Marisa Cecchetti |
recensione di Maurizio Giammusso |
di Paolo Pianigiani |
E' appena uscita per i tipi di Mauro Baroni Editore in Viareggio, l'ultima opera teatrale di Gabriel Cacho Millet: Le lunghe braccia dell'autunno. Fa il paio, questo lavoro, con un'altro, uscito a Roma nel 1977, che ha titolo Quasi un uomo, un monologo con protagonista Dino Campana. Chiude il cerchio e definisce, nei dettagli e negli impeti, la figura della poetessa e autrice di romanzi Rina Faccio, in arte e per il mondo Sibilla Aleramo.
Per Gabriel Cacho Millet, studioso del Poeta di Marradi, avvicinato e conosciuto attraverso i documenti e le lettere, inseguiti per tutta una vita, non hanno mistero i caratteri e le figure che intorno a Dino hanno girato, hanno vissuto e hanno amato. Per questo sono vivi e reali i personaggi che si muovono sulla scena, e le parole, invece che disperdersi nella finzione del teatro, sono parole vere.
In questo testo teatrale Sibilla Aleramo incontra, corre l'anno 1936, un altro giovane poeta, Franco Matacotta. Gli anni: lei 60, lui non ancora 20. Un racconto di dialoghi che ha per sfondo unico e solo la soffitta, mitica, di via Margutta, casa rifugio della poetessa, santuario di libri e di ricordi, contenuti questi nel baule delle carte, quello dove Sibilla raccoglieva con la passione della collezionista, le lettere scambiate con gli amanti, traccia e testimonianza della sua vita appassionata. Per pescarci poi, quando le serviva, immagini e frasi per i suoi testi poetici o i romanzi, a darci sensazioni che solo le cose vissute sanno dare.
I due protagonisti acquistano densità e carattere nel farsi dei dialoghi, nel continuo alternarsi delle voci e dei silenzi. E della poesia, che percorre il testo come una costante. Un Pierrot, memoria implacabile dell'ieri, esce a tratti dal nulla e prende vita solo per lei. Esce forse dal baule, casa dei ricordi. Franco arriva in visita alla celebre Poetessa da un paesino delle Marche, Fermo, dopo un approccio per lettera, come lo fu per Campana (ma quella volta a scrivere per prima fu Sibilla). E' uno studente, che vuol diventare poeta, di chiaro ha solo questo e il titolo della sua tesi, già fissata prima di dare un solo esame: Ungaretti, Campana e Sibilla Aleramo.
La fine è descritta, nella seconda parte del testo teatrale, con un dialogo rarefatto, allucinato, dove le promesse fatte e non mantenute sono per Franco motivo di abbandono e di chiusura: un fallimento, sia di vita che di poesia. Per Sibilla sempre tutto si salva, tutto ha senso in nome dell'amore dato e ricambiato. Ma Franco ormai in lei vede solo il tempo passato e la necessità di liberarsi dai ricordi. Sibilla rimane sola, dopo la storia più duratura di tutta la sua lunga vita di amori esplosivi e tutti finiti male.
Ha deciso: dopo Franco, il suo amore sarà per gli altri, per il popolo. Mai più per un uomo solo. Darà la sua vita e la sua poesia alle masse, si iscriverà al partito Comunista, incontrerà Togliatti e parlerà di poesia agli operai, nei comizi.
L'epilogo si svolge nel momento in cui Sibilla, prima di traslocare dalla soffitta per una sistemazione più comoda procuratagli dal segretario del partito, incontra un giovane romano, che risveglia in lei antichi e mai sopiti ardori, e illusioni. Ma il tempo, implacabile, le ha portato via ogni bellezza e il giovane scappa con il suo parlare del popolo, con il libro che gli ha regalato arrotolato in una tasca, senza dirle nemmeno il suo nome. E Sibilla rimane sola, a parlare con Shakespeare: "...che cosa è un nome... quello che chiamiamo rosa profumerebbe lo stesso con un altro nome? Un nome non è nulla. Non è una mano, non è un piede, non è un braccio, non è un volto...