Il "matt" Dino Campana parla con le fate di assenzio e poesia
Un romanzo restituisce tormenti e vagabondaggi di un artista infelice
di Giovanni Tesio
da: tuttilibri, 8 Febbraio 2025
Lo aveva fatto con Cervo Bianco, il pellerossa che ingannò un po' tutti, lo ha fatto con Ligabue, il naïf di cui ha saputo cogliere più di ogni altro il versante elvetico della sua esistenza e della sua pittura, ora lo fa con Dino Campana, il poeta che ha a lungo studiato e di cui restituisce le "fate" e i fantasmi.
E' Renato Martinoni, l'italianista di grande competenza filologica, che ama indagare per via narrativa i segreti imperscrutabili di esistenze perturbate, di personalità complesse o complicate.
II balordo, lo sbandato, il randagio, il vagabondo, il barbone, il barbarossa, l'uomo dei boschi, il matto o nel dialetto tosco-emiliano il "matt", Dino Campana e il "poeta puro", incompreso e di fatto rifiutato dalla famiglia, dal paese e dai compaesani, dalla comunità dei letterati fiorentini, dai loro giudizi arroganti e spietati, che dileggiano la poesia dei Canti orfici - unico libro pubblicato a spese del suo autore e spacciato per strada e nelle osterie tra l'incomprensione dei più - di cui non sanno intendere la misteriosa analogica densità, la grana enigmatica delle immagini vibranti e geniali.
Ci aveva già provato Sebastiano Vassalli a scrivere su di lui un libro ibrido tra saggistico e narrativo, La notte della cometa, in cui il complesso della documentazione e l'esemplare commento erano e restano congiunti in un'unione di singolare consistenza e di poetica-polemica-comunione.
Ora Martinoni, che pure a quel libro non poco deve, fa però diverso. Ossia opera su un piano integralmente narrativo e solo qua e là si concede qualche personale intervento per lo più parentetico e apparentemente marginale.
Ma la simpatia (e la pietà) dell'autore per it protagonista del suo romanzo a palese, anche se passa per vie franche da toni enfatici e libere da ogni preconcetto. Sulla base di una sinopia di ragione documentale, tutto si muove nel voltaggio dell'invenzione, che insegue i passi del poeta lungo la china che lo conduce - tra ubriachezza, disperazione, aggressività, confusione, dromomania, oscenità, visionarietà, follia, sentimento della fine, e fine anche della poesia - al lungo sbocco manicomiale, alla reclusione che non si scioglierà se non con la morte.
Dal natio borgo selvaggio al manicomio di Castel Pulci, il percorso del "protagonista di questa storia" viene restituito attraverso un incalzare di momenti topici ossessivamente iterati, di citazioni colte e peregrine, di fantasie autodistruttive, di sfoghi incontrollabili, di incontri, di suoni, di colori, di voci (il titolo è un suo verso) che sembrano coagularsi intorno alla più acuta sensazione di una perdita letale, associata alla più alta illusione di quella che nella sua poesia va sotto il segno della Chimera: una creatura tanto sfuggente e fuggitiva quanto emblematica, qui legata al tempo di quel Campana che non riesce ormai più a coglierne la presenza.
Convocando la fata verde dell'assenzio e altre fate colorate di desideri e fantasie chimeriche, uno dei poeti più dotati e sperimentali della nostra letteratura novecentesca, muovendosi fuori dalle secche delle avanguardie storiche e felicemente gravido di musiche e luci simboliste, esce saturo di sofferenza psichica ma fecondo di quel dono di poesia da cui pure si sente angosciosamente e definitivamente abbandonato.
Un romanzo di sapiente controllo emotivo ed espressivo ma proprio per questo tanto più ricco di risonanze vibranti che accompagnano la felice scrittura - concreta e ad un tempo evocativa - di un così straordinario e infelice destino tardivamente compianto.