Una pagina del "Taccuino Matacotta"
COL SANGUE DEL FANCIULLO
di Stefano Giovanardi
da La Repubblica,1 settembre 1990
Quando Dino Campana, il 28 gennaio del 1918, entrò nel manicomio di Castel Pulci per non uscirne mai più e nei quattordici anni che lì trascorse prima di morire non aggiunse un solo verso alle fantasie senza importanza scritte nella vita di prima , lasciava dietro di sé una produzione letteraria assai confusa: un'edizione in mille copie, pagata al tipografo Ravagli di Marradi grazie a una colletta di amici, dei Canti orfici; e poi una serie di carte e taccuini manoscritti, quasi sempre privi di data, che sarebbero stati pubblicati senza troppi scrupoli filologici solo molto tempo dopo la morte del poeta.
Se è vero insomma che gli Orfici sono il Libro unico e assoluto che fa da onnivoro polo di attrazione per qualsiasi prova creativa Campana abbia tentato, è anche vero che ci sono finora mancati gli elementi per comprendere appieno che cosa intorno a quel Libro si muovesse, attraverso quali tappe di scrittura e riflessione Dino fosse giunto a quel risultato. E soprattutto: fra l'edizione Ravagli e il definitivo internamento in manicomio del suo autore passano quattro anni durante i quali, fra l' altro, Campana vive con Sibilla Aleramo l'unica vera esperienza amorosa della sua esistenza.
Ebbene, cosa ha scritto il poeta in quegli anni cruciali? Verso quali orizzonti si andava indirizzando dopo la pubblicazione dell'opera capitale? Una prima risposta a domande del genere può ora venire dall' edizione dei Taccuini pubblicata a cura di Fiorenza Ceragioli dalla Scuola Normale Superiore di Pisa (pagg. 325, lire 30.000). Questa dei Taccuini, occorre dirlo subito, è una questione molto intricata. Per farla breve: finora noi disponevamo, sotto la dicitura Taccuini, abbozzi e carte varie di un' edizione complessiva delle carte campaniane che accoglieva alla rinfusa, senza distinzioni cronologiche interne, brani scritti più o meno fra il 1912 e il 1917, e dunque sia prima sia dopo quel 1914 in cui vennero stampati i Canti orfici.
Ora da quella congerie Fiorenza Ceragioli ha estrapolato un quaderno, il cosiddetto Taccuino Matacotta (apparteneva infatti al poeta Franco Matacotta, che lo aveva ricevuto dalla Aleramo e lo aveva già pubblicato con datazioni approssimative nel 1949) e lo ha riproposto in edizione critica e fotografica, accertando che gli scritti in esso contenuti sono ascrivibili quasi interamente al 1915, salvo per qualche possibile sconfinamento alla fine del 1914 ed all' inizio del 1916.
Quel quaderno, insomma, è tutto successivo agli Orfici, e consente perciò di farsi un'idea degli orientamenti che la ricerca poetica di Campana aveva assunto in vista di un ipotetico secondo libro che egli non scrisse mai. Di sicuro rilievo, ad esempio, è la stesura del Canto proletario italo-francese (pubblicato poi con molte varianti e il titolo A. M.N. sulla rivista La Riviera ligure nel 1916), con quelle cadenze da ballata popolare alternate a improvvise accensioni liriche e immaginifiche (Italia che fai processione/ con il badile prendi il fucile ti tocca andar/ fora la giubba rossa delle stelle/ questa volta con il cannone/ Italia che fai processione/ con il badile prendi il fucile guarda il nemico ti tocca andar).
Come anche la tecnica del collage di cose viste sperimentata in Prospectus sulla scorta dei Chimismi lirici di Ardengo Soffici, che dimostra un più pronunciato interesse per la maniera futurista, o meglio per ciò che di buono quella maniera aveva prodotto. Esistono nel Taccuino, naturalmente, anche zone di scrittura più vicine ai Canti orfici, nelle quali tuttavia come nello splendido I tre colori - Olimpia, prima stesura dell'Arabesco-Olimpia stampato nel '16 sempre dalla Riviera ligure si può cogliere una sorta di intensificazione e sublimazione della capacità visionaria, ormai svincolata dal dato realistico con una radicalità che non di frequente si incontra nel libro del '14:
Se esiste la capanna di Cézanne, pensai quando sui prati verdi tra i tronchi d'alberi una baccante rossa mi chiese un fiore, quando a Berna guerriera munita di statue di legno sul ponte che passa l'Aar una signora si innamorò dei miei occhi di fauno, e a Berna colando l'acqua, lucente come un secondo cadavere, il bello straniero non poté più a lungo sostare? Fanfara inclinata, rabesco allo spazio dei prati, Berna.
Nel volume della Normale di Pisa al Taccuino Matacotta si accompagna l'edizione, anch'essa critica e fotografica, del Taccuinetto faentino, un quaderno tascabile comprato dal poeta in una cartoleria di Faenza e già pubblicato nel 1960 da Domenico De Robertis. Poiché gli appunti che vi si trovano sono in gran parte riferibili alle vicende della stampa degli Orfici, e dunque databili 1914, possiamo ora complessivamente disporre della documentazione di quanto andava accadendo nell'attività creativa di Campana in due anni importantissimi della sua vicenda umana e letteraria.
Una vicenda, bisogna dirlo, che non smette di esercitare un forte fascino su editori e studiosi, inducendo magari talvolta a operazioni un po' affrettate (tutto il contrario, cioè, del rigore filologico dispiegato dalla Ceragioli). E' il caso, ad esempio, del recente lavoro di Gianni Turchetta (Dino Campana biografia di un poeta, Marcos y Marcos, pagg. 255, lire 18.000), irto di psicologismi piuttosto facili e segnato tra l' altro da una certa reticenza nella citazione delle fonti critiche e storiche utilizzate.
Anche da questo, comunque, può trarre alimento il mito di Campana: un mito abbastanza giovane, in verità, che come sempre accade rischia di deformare ulteriormente la già precaria fisionomia del poeta nella storia letteraria del nostro Novecento. Ma l'ansia sacrificale del povero Dino aveva già previsto tutto, e aveva affidato a un verso di Walt Whitman l'estremo destino degli Orfici: erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo.