Una copia sconosciuta dei Canti Orfici

 

di Stefano Verdino

 

Pubblicato su WUZ, storie di editori, autori e libri rari, anno III, n° 2, marzo aprile 2004

 

 

 

"A Luchaire e alla Francia / perché ci vendi­chi / Dino Campana", è la dedica, che si legge in un esemplare dei Canti Orfici, re­centemente trovato a Parigi dal collezionista e stu­dioso del libro, Beppe Manzitti, non nuovo a que­ste scoperte (qualche anno fa a Firenze, ritrovò nientemeno che il primo manoscritto di poesie di Mario Luzi, con i testi di La barca e molti inediti).

La dedica autografa su tre righe si legge nella prima pagina di occhietto di quest'esemplare per molti versi interessante: esso appartiene al gruppo di copie che hanno subito modifiche per volontà dell'autore: la rimozione della pagina con la dedi­ca all'Imperatore Guglielmo II e la cancellazione della scritta “Die Tragodie des letzen Germanen in Italien” dalla quarta di co­pertina. E con ogni probabili­tà è stato sempre Campana a strappare da questo esemplare anche la pagina di titolo ove figurava la stessa scritta in te­desco, di certo non indicata per un destinatario francese. L’esemplare prevede l' “errata­-corrige” all'ultima pagina e l'ultimo fascicolo (come in al­tre copie) è di misura diffor­me dal resto del volume.

Ma la cosa più ghiotta è la presenza ad apertura di libro (pp. [4-7]) di una lunga poesia autografa, dall'incipit “Come delle torri d'acciaio”; la poesia è nota e fu inviata (con il tito­lo A Mario Novaro) dallo stesso Campana a Mario Novaro e da questi poi pubblicata su “La Riviera Ligure” (XXII, 53, maggio 1916) senza titolo ma con dedica e dida­scalia a M.N. / Domodossola 1915 (e non stampa­ta, come recentemente ha sostenuto Martinoni, per cura di Federico Ravagli, “nel novembre 1914 sul foglio goliardico interventista bolognese 'Il cannone”'). Successivamente Campana la tra­scrisse in autografi per vari amici, sempre con va­rianti: nel 1942 pubblicò la stesura in sue mani Federico Ravagli, con note da interventista; nel 1949 Franco Matacotta editò la stesura base nel Taccuino, con il titolo Canto proletario italo-france­se (su cui vedi l'edizione critica di Fiorenza Cera­gioli del 1990); nel 1985 (in Campana fuorilegge) e nel 2000 (in Dino Campana sperso...) Gabriel Cacho Mil­let rese noti altri due autografi (carte Aleramo e Soffici); ed ecco una nuova copia con al­cune lievi, ma interessanti va­rianti, a partire da una com­plessa intestazione: Osteria del gatto rosso / Domodossola 1915 - (incompleta).

 

 

Come si vede il rinveni­mento è assai importante e suggestivo, tenuto conto del culto campaniano e del suo attento monitoraggio ma an­che delle circostanze del re­cupero: un libraio di Parigi che vede il vicino buttar via alcuni libri e ne rileva i su­perstiti, tra cui il nostro.

Il primo approfondimento riguarda la peren­toria dedica, che non ha data, ma è possibile un poco situare. L’attrazione di Campana verso la Francia, messa in luce da Contorbia nel 1976, è ora cosa nota ai lettori del suo epistolario (pa­zientemente e minuziosamente allestito da Ga­briel Cacho Millet nel tempo): essa si va incre­mentando con gli anni di guerra, a partire dal lu­glio 1915, quando scrive a Soffici, paradossal­mente in inglese: “my toughts (sic) bend again toward France”; “VIVE LA FRANCE”, scrive a Cecchi il 30 dicembre e a più riprese con Novaro e Boine, grati interlocutori di una Riviera “dove si respira l'aria di Francia” (a Boine, 19 aprile 1916), ipotizza di raggiungere Nizza o “avvici­narmi almeno”. A Prezzolini il 4 ottobre 1915, motiva diffusamente la propria francofilia: “Pas­sando alla guerra trovo che il governo francese ha soppresso la quadricentenaria Gazette de France, ciò che significa che il vecchio spirito aristocratico francese minaccia di riprendere il sopravvento e di mettersi di nuovo a capo della cultura europea come fu sempre, anche per testimonianza dei te­deschi (Nietzsche). Se questo fatto avvenisse, se questa coltura che adoriamo tornasse io le con­fesso che darei sul momento senza esitare la vita. Viva dunque la grande Francia. Questo presenti­mento appare in tutti i grandi tedeschi. Ricordi le ultime parole di Beetoven (sic): Nel sud della Francia, laggiù, laggiù. Era l'ideale della musica, dell'arte mediterranea che Nietzsche presentì e credè di trovare in Bizet. E questo presentimento si verificherà certamente perché Nietzsche e Bee­thoven erano dei genii. Viva dunque la Francia. E chi, modestia a parte, comprende queste cose da noi? Cioè le integra e le risente non le violen­ta, colla animalità del parvenu? Ci dondoliamo sulle anche come l'Italia nelle poesie di D'An­nunzio che, poveraccio, dell'Europa moderna non capisce proprio nulla”. Come si vede, nell'e­saltazione, vi è a suo modo un lucido prospetto.

 

 

È il miglior germanesimo (da Beethoven a Nietz­sche), di cui Campana “poeta germanicus” si sente figlio, a desiderare la Francia: ad essa si consegna il riscatto della stessa Italia, “per noi che siamo fino alla gola nell'enfasi meridionale. Ed anche e più che altrove in Toscana”.

La Francia “vindice” evocata dalla dedica può essere la risultante di tutto questo e proprio nel­l'ultima lettera (a Franchi, secondo Cacho Millet) quattro giorni prima della definitiva reclusione (12 gennaio 1918), questo motivo vendicativo e sacrificale torna, in un delirio portato allo stremo:

“Caro fratello una più stretta unione tra la Fran­cia e l'Italia si avvera. Il delitto stringe e distrugge se stesso in un cerchio d'orrore. Non so se lascerò la vita in questa trasfusione. Vi supplico di venir­mi in aiuto. Scrivete a Luchaire, presidente del­l'Istituto francese di Firenze che mi protegga. Im­menso è il carico che deve essere posto in salvo ed io sono agli estremi. Non so se capite nulla di quanto vi dico. lo non ho il diritto di parlare. Per­sonalmente vi dico che mangio alla tavola dei miei persecutori. Se dubitate della mia ragione la signora Cecchi (via Jacopo Nardi 15 Firenze) po­trà dirvi che non sono pazzo. Lindirizzo di Emi­lio lo ignoro. Coraggio fratello, tutti i misteri vi saranno chiari un giorno. Per iniziarvi leggete vi prego Bloy nel libro che parla della sorte del fi­glio di Luigi XVI e delle sue conseguenze sulla storia della Francia. In Italia c'è un altro princi­pio imperiale e cristiano, il principio popolare della poesia volgare che è effimera come il princi­pio dinastico francese ora non più esistente. In questo principio poetico la Francia troverà il sen­so divino della sua democrazia. La trasfusione si opera col sangue dell'agnello, ma per vie di anti­tesi. Scrivete a Luchaire che mi protegga”.

A questo punto è opportuno spiegare chi è il Luchaire, così ossessivamente evocato da questa lettera e dedicatario della copia ritovata. Julien Luchaire (Bordeaux 1876 - Paris 1962), figlio di Achille, insigne medievista soprattutto di storia ecclesiastica, fu alla Scuola francese di Roma (1897 -1898) e frequentò il conte Primoli, seguì il padre negli studi storici e con l'Essai sur l'évolu­tion intellectuelle de l'ltalie de 1815 à 1830 (1906) ottenne la cattedra di Letteratura italiana a Gre­noble. Quel libro gli dette prestigio in Italia: lo recensì, plaudendo, Gentile su “La critica”, ne discutono nelle loro lettere, nello stesso 1906, Prezzolini e Papini. Comunque Luchaire trova il suo più autentico ruolo nell'organizzazione cul­turale e fonda a Firenze nel 1908 “Il Grenoble”, il primo istituto culturale francese al mondo, presto attivamente inserito nel vivo della cultura fioren­tina del tempo, con fitte frequentazioni, che ve­dono scendere in Firenze Romain Rolland, Cre­mieux ed altri (cfr. il recente saggio di Isabelle Renard). Rolland, nel suo Journal, ci offre anche un rapido ritratto di Julien Luchaire, dai tratti americanizzanti: “Un jeune homme, complètement rasé, à l'américaine, assez jolie figure, ­moins froid et moins assuré qu'il ne veut le paraitre, - mais mettant à diriger son ocuvre une ténacité et un sens de la réclame, qui sont encore plus américains que son visage” (pp. 223-224).

Molto importante è il ruolo che Luchaire assume nel 1914-1915 per favorire l'entrata in guerra del­l'Italia con l'Intesa. Ne parla diffusamente egli stesso nella Confession d'un francais moyen; con Guglielmo Ferrero fonda la “Rivista delle nazioni latine” (maggio 1916 - aprile 1919), “où de bons écrivains des deux pays étudiaient le problèmes soulevés par la guerre, et ses suites dans la mesure où l'on pouvait les prévoir. Nous éditions des bro­chures et les faisions distribuer par milliers et mil­liers d'exemplaires” (Confession... II, pp. 28-29).

Tra i collaboratori traduttori (anonimi) della rivista, che ben retribuiva, come si è capito, vi è Sibilla Aleramo, la quale conosce Luchaire già dal 1909 a seguito della traduzione francese di Una donna (di Pierre Paul Pian per Levy, Parigi, 1908). Con Julien e la sua prima moglie Fernan­de (poi compagna di Salvemini) Sibilla fu subito assai amica e spesso fu loro ospite: dal settembre 1915 Sibilla lavora per la “Rivista” a Firenze e nell'altra sede di Milano; nell'estate del 1916 Lu­chaire le lascia la sua villa La Topaia, a Borgo S. Lorenzo, da qui Sibilla partirà di “mattina alle sette” del 3 agosto “in automobile” alla volta del non lontano Barco a Rifredo di Mugello per incontrare l'apprezzato poeta dei Canti orfici (cfr. Aleramo a Campana, 31 luglio - 1 agosto 1916). È ben nota la “deflagrazione”, come dice Luzi, successa a quel loro fatale incontro. Una foto di quei giorni estivi (mi segnala Cacho Millet) ritrae i due novelli amanti proprio a villa La Topaia con il cane dei Luchaire. Dino dona a Sibilla copia dei Canti orfici con dedica: “Con cuore fraterno a / Sibilla Aleramo / Dino Campana / Il Barco / 5 agosto 1916”. Anche questa copia (descritta in Campana fuorilegge) è con correzioni e aggiunte autografe; ad esordio anche in questo esemplare alle pp. [4-6] vi è l'autografo “Come delle torri d'acciaio, ecc.” qui titolato Domodossola 1915 ... giugno. La stessa posizione d'esordio di questa poesia “incompleta” conferma non solo la grande fiducia di Campana in questo suo nuovo testo (che trasmise autografo a più persone), ma anche l'eminenza di esso in una possibile nuova edizio­ne dei Canti orfici. Grazie a Cacho Millet (Dino Campana sperso..., pp. 130-131) possiamo rico­struire la serie di tali autografi, successivi alla pri­ma stampa su “Riviera ligure”; è una trafila assai interessante perché “nessuna delle numerose ste­sure coincide esattamente con la precedente” (Dino Campana sperso..., p. 131).

Il testo si trova su fogli per Federico Ravagli (che erroneamente­ sostiene la Ceragioli - lo riferisce alla fine del 1914) e per Bianca Lusena (che lo ebbe nel giu­gno 1916, cfr. ibid.); sulle copie dei Canti orfici per Cecchi, Aleramo e Luchaire; infine ancora in fogli intestati Vallecchi, tra le carte Soffici (Dino Campana sperso..., pp.113-126), per Cacho Millet, persuasivamente, ultima stesura “il mese di no­vembre - dicembre 1917”.

 

 

La stesura della copia Luchaire è pressoché analoga a quella sulla copia Aleramo, a parte il ti­tolo Osteria del gatto rosso, che compare unica­mente qui. Rispetto alla copia Aleramo vi sono solo differenze di punteggiature: i puntolini a “si poteva arrivar” (recepiti nei fogli Vallecchi) ed un uso di lineette (cinque) dove non vi era scansio­ne. Piccole cose che ci autorizzano a porre questa stesura in fase terminale, dopo la copia Aleramo e prima dei fogli Vallecchi, congruamente dei resto con la possibile datazione dell'autografo e dedica, tra estate 1916 e gennaio 1917, tanto più che in questa fase anche Campana fu arruolato dall'A­leramo come traduttore (anonimo) per la rivista di Luchaire (cfr. Campana a Aleramo, 19 settem­bre 1916; 27 ottobre 1916; 4 dicembre 1916).

Non sono noti rapporti diretti tra Luchaire e Campana, che comunque dovettero essere pres­soché minimali, se la nuova moglie di Julien, Maria Padovani, secondo quanto sostiene de Ceccaty era “effrayée de cette nouvelle passion” della sua amica Sibilla “et prend Campana pour un clochard fou”; lo studioso, nella sua biografia dell'Aleramo, ci fa anche assistere ad una lettura di Sibilla del “poème que Campana a écrit en français”(si tratta di Tombé dans l'enfer) “à voix haute dans le salon des Luchaire”; ai refrattari suoi ospiti Sibilla griderebbe “Vous n'aimez que les poètes de salon. C'est un poète sauvage, lui. Sauvage! Vous n'aimez les poètes que de loin!”, cui risulta di eccellente esprit la replica di Julien: '''Et elle d'un peu trop près, conclut Luchaire avec un sourire.

Il 13 agosto 1917 Campana manda da Marra­di a Maria Luchaire, una cartolina dove si legge solo “Sibilla?”, anche in quell'estate ospite dei Luchaire a Ca' di Janzo. Ed anche nella citata lettera delirante è evidente che l'invocazione di Luchaire è la spia del suo dramma d'amore.

Per Campana sappiamo come andò. Dopo la guerra Luchaire lasciò Firenze e a Parigi fondò un Istituto di cooperazione intellettuale (1926­ - 1930) europea sotto l'egida della Società delle Nazioni, cui collaborò Prezzolini; l'Aleramo lo rivide allora a Parigi (estate 1928) e con lui fre­quentò il bel mondo (Sibilla registra anche una colazione con Valéry “che mi parla in italiano”, cfr. Diario di una donna, p. 364). Negli anni Tren­ta, con la terza moglie Antonina Vallentin, “l'ex­amante di Stresemann” (Papini) e scrittrice di biografie (Leonardo, 1939; Picasso, 1957), Julien avvia una tardiva carriera letteraria, soprattutto teatrale: in Altitude 3200 il 18 febbraio 1937 ha il battesimo in scena l'adolescente nipote Corinne, presto diva del cinema francese e amante sotto l'occupazione dell'ambasciatore tedesco Otto Abetz, poi epurata e morta non ancora trentenne nel 1950. Julien sopravvisse alla rovina dei suoi discendenti, in particolare il figlio Jean, padre di Corinne e giornalista filonazista, fucilato nel 1946:

“Il padre ne parla quasi con indifferenza, come se non si trattasse del suo figliolo”, annota il vecchio amico Papini che lo riceve a Firenze nel settembre 1949. Una saga, quella dei Luchai­re, non meno drammatica e romanzesca della bruciante avventura di Sibilla e di Dino e di tutta la vita di quest'ultimo.

Ma su questi annodi umani, dolenti, si eleva sempre, meraviglioso, il canto di Campana. “Una notte, a Firenze, con Rosai Dino bestem­miava Rimbaud”, rievoca Alessandro Parronchi, “perché Rimbaud aveva bruciato tutte le possibi­lità per un poeta”. “E tuttavia appena si legge o si rammemora “Come delle torri d'acciaio / Nel cuore bruno della sera” subito si ha certezza di essere catturati dalla magia di un grande poeta, inimitabile.


Bibliografia

        • Dino Campana, Canti Orfici, Marradi, Tipografia F. Ravagli, 1914.
        • Federico Ravagli, Dino Campana e i goliardi del suo tempo, Firenze, Marzocco, 1942, pp.14 7-165.
        • Dino Campana, Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo, Edizione Amici della Poesia, 1949, pp. 6-9; 39-41.
        • Julien Luchaire, Confession d'un français moyen, Marseille, Sagittaire, 1943 (fino al 1930); nuova edizione (1876­-1950), Florence, L.S. Olschki, 1965.
        • Giovanni Papini, Scritti postumi. Pagine di diario e appunti, Milano, Mondadori, 1966, p. 647.
        • Romain Rolland et le mouvement florentin de “La voce”. Corrispondance et fragments du Journal présentés et anno­tés par Henri Giordan, Paris, Albin Michel, 1966.
        • Franco Contorbia, Campana, Ginevra, l'intervento, “Studi novecenteschi”, V, 1976, pp. 137-152.
        • Sibilla Aleramo, Diario di una donna. Inediti 1945-1960, scelta a cura di Alba Morino, Milano, Feltrinelli, 1978.
        • Dino Campana, Souvenir d'un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari, a cura di Gabriel Cacho Millet, Napoli, ESI, 1985.
        • Gabriel Cacho Millet, Dino Campanafuorilegge, Palermo, Novecento, 1985.
        • Dino Campana, Taccuini, edizione critica e commento di Fiorenza Ceragioli, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1990, pp. 25-27; 206-208.
        • Roberto Maini - Piero Scapecchi, “Ho bisogno di essere stampato”. Un incunabolo del Novecento: “Canti Orfici” di Dino Campana, “Rara Volumina”, 2, 1995; 2, 1996, (ristampa: Milano, La Libreria Antica e Moderna, 1999).
        • Dino Campana sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, a cura di Gabriel Cacho Millet, Firenze, Olschki, 2000.
        • Sibilla Aleramo - Dino Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, a cura di Bruna Conti, Mila­no, Feltrinelli, 2000.
        • Letteratura come vita. Libri d'artista e di poesie dalla collezione Manzitti, catalogo della mostra a cura di Beppe Manzitti, Genova, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, 2001.
        • Isabelle Renard, “Il Grenoble”. Il primo istituto francese al mondo, “Antologia Vieusseux”, nuova serie, VIII, 22, gennaio-aprile 2002, pp. 35-73.
        • Documentazione campaniana. Catalogo degli scritti (1912-2002), a cura di Franco Scalini, con appendice di contributi di Pedro Luis de Guevara Mellado e Rodolfo Ridolfi, Marradi, Edizioni Centro Studi Campaniani “E.Consolini”, 2003.
        • Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, a cura di Renato Martinoni, Torino, Einaudi, 2003.
        • René de Ceccaty, Sibilla Aleramo, Paris, Editions de Rocher, 2004, pp. 223-225 (prima edizione 1992).