Dino Campana, il poeta visionario

 

di Massimo Lippi

 

da: Toscana Oggi, 15 Settembre 2010 

 


 

 

Nella chiesa di Badia a Settimo (Firenze) è sepolto il poeta Dino Campana (1895 - 1932). Raffaello nel Pantheon, Mozart disperso in una fossa comune, gli altri imperatori di ricchezze (non tutti) che ubriacano il mondo: manco un fruscìo che li ricordi. Così è la morte: privilegia chi vuole malgrado la brusca faccenda de la vita.

Dino Campana poeta d’incomparabile sofferenza, scosso dal suo genio e dal valore tragico della sua umana vicenda, riposa come un santo, mentre intorno a lui si celebra il divino Ufficio, il Sacrificio della Messa. Quel sacrificio che lui volle fuggire per inventarsene uno proprio.

Fu Abramo sconvolto dall’Obbedienza alla sua Arte, e fu Isacco: ignaro fanciullo e querulo che domanda, tremante, al padre, dov’è l’agnello sacrificale. Quella agognata pace che non ebbe da vivo, ora lo governa di canti e di beatitudine, come un Agnello portato in spalla dal Buon Pastore.

Asciugata ogni lacrima, redenta ogni piaga e ingiustizia subìta, nella cocente stagione del trapasso da questo mondo all’altro, fuori dalle infette illusioni dei sensi. In puro spirito ora è trasvolato il suo canto. In spirito elevato e gloria egli parla, in quel suo battito inquieto che non approdò a nessuna conclusione, come il sonno di un fanciullo a cui piaccia morire vivendo.

Trasognata spoglia carica di dolore e infinita tristezza di eccessi e stravizi del corpo e de la mente. Campana và lasciato in Pace! Ma lui, cantore del trasfigurante e mobilissimo universo del suono che alberga nelle parole, lui da quegli alteri segni miniati sulla carta, lui non ci lascia in pace. Da qui l’affanno di riscoprire qualcosa su quest’uomo infangato e redento dal dolore.

Quasi un antico appestato che vaga oltre le chiome abbrunite del tempo, con il campanello sonante dei suoi versi, i più strazianti, della lirica del Novecento. «Fuggite!» sembra gridare piano quel fanciullo dai capelli biondi, «Fuggite!» grida Michelangelo agli innamorati che nella piena travolgente dei sensi vede la salvezza profilarsi lontana, ma sicuro porto a cui tendere le braccia spalancate al Mistero.

Dalle mistiche solitudini della Verna, fortezza dello Spirito, che ripara dalla tempesta straziante della sua vita, è possibile gustare anche le cose vere e sante che orientano le cose a Dio, nascoste beatitudini nei volti delle creature umane incontrate nei dispersi villaggi, impresse voci nei casolari, nelle persone semplici e pure, letizia presto rinnegata dal suo delirio come se il miracolo del più soave incontro con l’Eterno lo turbasse di convulse reazioni di segno opposto.

Fosco retaggio del Male, del peccato d’origine. Oltre le chiare notti di luna dove albergano nell’aria immota vascelli che tragittano, per sempre, altrove le umane speranze, Dino Campana colloca in quella regione ulteriore tutta la sua brama esistenziale, il suo alto valore di Poeta. La desiderata Speranza, frutto di visione e tormenti, gli muore in petto per il sopraggiungere irreprimibile di folate di vita dagli acuminati strali di Fuoco, dagli occhi maculati della ritornate belva.

Nel suo gran cuore s’addensa lo scròscio di acque sorgive tra gli spalti severi e ariosi della Verna. Questo lo inebria, eppure il magnetismo mellifluo del mondo, a cui soggiace la sua volontà, ancora lo incatena. Gli occhi malaticci della realtà vissuta perforano le sue pupille e i suoi lombi. Egli si riscatta fuggendo a piedi, inventando geografie oltre oceano, e del suo lungo andare tra ciottoli bruschi e selciati aspri per taglienti strade, restano infine i suoi versi di conclamata bellezza.

A nessuna scuola può paragonarsi il suo giovanile cantare. Ora che con sgomento s’accorge che il popolo d’Italia non canta più. Lui troppo giovane, lui poeta fanciullo in un mondo troppo vecchio. Si può adesso, con animo grato al Poeta, tra gli infiniti insulti che l’uomo ha dato all’uomo per tutto il Novecento, per indicibili strazi, tentare un risarcimento amoroso per quel danno patito al suo nido di strillozzi: fiere voci di un canto di inimitabile vigore. L’insidia del piacere e l’ombra mortale de la vita traboccante lo ricopre e lo stana, lo infarina d’illusione per aperte contrade e campi desolati, tra guitti e ribelli.

Egli con loro si ripara dalla notte, tra l’erba marcia e spine dolorose. Dal furore cieco del mondo si ripara, come da un imbroglio troppo vistoso. Tutto in questo suo andare è trascendere e discendere agli inferi, un trasalire al cielo di San Giovanni della Croce, o alle stralunate figure dei Vàgeri di Lorenzo Viani di cui egli è potente fratello.

Anche Dino Campana, come il mistico carmelitano: «muore di non morir». Trapassa il muro del tempo e la vizza stagione dell’aria purulenta. Ma in lui, a differenza del santo carmelitano, rinverdisce, ad ogni sguardo malizioso del mondo l’appetito della sola morte fisica, come fine inesorabile del suo vasto patire.

Campana si ubriaca di dolore che gli appare tra la bellezza del creato come privo di senso e vorrebbe uscire nel mare aperto, dal viottolo di Dio: asprigno sentiero che và oltre la selva oscura. Si imbestia nei lupanari, abita le prigioni altrui e la sua, vorrebbe farsi carico delle sofferenze di tante creature e della povera Speranza degli uomini e incendiare le loro bigie stagioni con l’esaltante Fuoco che la poesia gli detta, sovrana.

Nulla ormai lo persuade del contrario: per toccare la Grazia della visione poetica, dell’incontro personale con Dio, bisogna sprofondare nella melma dei sensi, nella corporalità invalidante del Male, in un paradiso inverso, per infliggere al cuore assetato, lo sfacélo di un’Arte che non redime, che non libera, se non per preziose illusioni e fantasmi notturni.

Questo è il medesimo destino di Baudelaire, di Rimbaud, di Holderlin, di Gerad de Nerval e di altri sventurati geni, cantori, a modo loro, dell’Eterno. La società non c’entra, pur nella terribile corona di spine che il mondo gli mette addosso, come a Cristo in croce: con la ripugnante boria del buon senso delle maggioranze, per «aiutarlo» a migliorare il suo sbalestrato vivere.

Ora da questo silenzio coronato d’Angeli, ci guardano quegli occhi stranìti di fanciullo e ripagano il suo immenso dolore con il brucìo di stelle che piangono la sua morte, come la sua crescente vita.

 
 
Alla Verna l’omaggio allo scrittore
 
 
«Lo vidi dalle solitudini mistiche…. Dino Campana pellegrino alla Verna nella ricorrenza centenaria» è il tema della giornata di studio in programma il 18 e 19 settembre al Santuario della Verna (Arezzo). Il programma di sabato 18 (dalle ore 16) prevede: gli interventi di Carlo Paolazzi (Pontificia Università «Antonianum Frati Editori Quaracchi) su «Le solitudini mistiche della Verna da frate Francesco a Dino Campana»; Stefano Giovannuzzi (Università di Torino) su «Storia del testo: La Verna da Il più lungo giorno ai Canti Orfici; Gianni Turchetta (Università di Milano) su «Il torrente e la gora: esperienza del viaggio e paradossi della temporalità nel pellegrinaggio di Dino Campana». Introduce e coordina Giuseppe Langella (Università Cattolica del Sacro Cuore).

 

Domenica 19 settembre (dalle 9,30) Silvio Ramat (Università di Padova) parla de «Le apparizioni lungo il pellegrinaggio» e, a seguire, Luigi Cavallo (critico d’arte curatore del museo «Ardengo Soffici» di Poggio a Caiano) interviene su «La Verna di Campana: salire, salire per immagini». Coordinamento di Giuseppe Langella.

Nel pomeriggio, dalle ore 16, l’artista e poeta Massimo Lippi parla su «La visione trascendente in Dino Campana, poeta dello spirito».

Quindi Donatella Coppolino Campana, nipote di Dino Campana, parla su «Affetti e ricordi di Dino». Introduzione e coordinamento di Silvano Salvadori.